In
"L'ultimo Papa d'Occidente?" Giulio Meotti traccia un preciso profilo
intellettuale di Benedetto XVI
Schivo e
appartato come è nel suo carattere, lontano dai riflettori, Joseph Ratzinger
compie oggi novantatre anni. Di anni ne son passati sette invece da quando
lasciò volontariamente il seggio di Pietro.
A
succedergli è stato un Papa che con lui ha poco da spartire, e non solo per il
fatto che viene dal Sudamerica: più radicalmente perché ha una concezione del
compito dei cristiani e della Chiesa cattolica nel mondo completamente diversa
da quella del predecessore. Così diversa da porsi tendenzialmente, secondo
alcuni, al di fuori della dogmatica per molti aspetti.
Tanto
che Giulio Meotti, uno dei più bravi giornalisti italiani, non esita a
chiedersi, nel titolo di un'agile monografia su Ratzinger appena pubblicata da Liberilibri,
se Benedetto XVI non sia stato l'ultimo rappresentante di una tradizione
bimillenaria: L'ultimo Papa d'Occidente? (pagg. X+108, euro 14, introduzione di
John Waters). Le sue dimissioni assumerebbero in quest'ottica un altro aspetto:
quasi che, avendo provato invano a salvare una scialuppa che faceva acqua da
tutte le parti, egli a un certo punto si fosse reso conto di essere troppo
debole per corrispondere all'improbo compito affidatogli dalla Provvidenza,
nelle cui mani si è rimesso. In ogni caso, il libro di Meotti, che è una sorta
di raffinata biografia intellettuale del pontefice emerito, muove da una
domanda precisa: non tanto chi egli veramente sia stato, quanto come abbia
concepito il suo ruolo e quale compito si sia dato nella sua vita di studioso e
di alto prelato. Il tutto, facendolo parlare direttamente, riportando stralci
significativi dei suoi discorsi e dei suoi scritti.
Meotti
si orienta benissimo in una mole impressionante di opere e mostra come il Papa
tedesco abbia compreso da subito che il declino dell'Europa e quello del
cristianesimo erano le due facce di una stessa medaglia. Il relativismo, contro
la cui «dittatura» quasi con ossessione si è rivolto sempre il suo impegno, non
è che il destino tragico e paradossale a cui ha condotto, radicalizzandosi, la
mentalità illuministica. La decristianizzazione in atto mette faccia a faccia
l'uomo con quel nulla di senso, il nichilismo, che Nietzsche aveva già intuito
alla fine dell'Ottocento e che è alla base ogni crisi particolare che stiamo
vivendo (economica, sociale, culturale, politica, di prospettive). In questo
deserto spirituale («desertificazione» è una parola che ritorna spesso nelle
sue opere), l'unica speranza è creare piccole comunità di resistenza e da lì
provare a tessere i fili di una possibile rinascita.
È ciò
che fece San Benedetto da Norcia (al quale non a caso Ratzinger col suo nome ha
voluto richiamarsi da Papa), creando i suoi monasteri sul finire di
quell'Impero romano che, con il suo lento declino, molto assomiglia
all'Occidente di oggi. Fu in quei monasteri che, nel periodo delle invasioni
barbariche, si conservò l'antica cultura greca e romana, la si cristianizzò, e
la si fece transitare nei nuovi tempi. È lì che nacque l'Europa che, per
l'«europeista» Ratzinger, o sarà cristiana o non sarà. Ragione, diritto e fede
- o, come dice spesso nei suoi discorsi, Atene, Roma e Gerusalemme - sono i tre
pilastri di una sintesi virtuosa su cui si è costruita la nostra cultura.
Pensare di affidarsi, come ha voluto l'illuminismo, alla sola ragione, con il
suo potere corrosivo e distruggitore di ogni tradizione, non porta che a negare
chi e ciò che siamo. E da questo punto di vista le polemiche, puntualmente
ricostruite da Meotti, suscitate dal discorso di Benedetto XVI a Ratisbona
contro l'islamismo, oppure la pervicacia con cui gli si negò un intervento alla
«Sapienza» di Roma, sono altamente significative. Cosa è altro, quel politicamente
corretto razionalistico a cui Ratzinger tante volte si è opposto con
l'inattualità del suo messaggio, se non una forma subdola e soft di
totalitarismo?
Da
questo libro, fra tanti spunti e considerazioni spesso illuminanti, emerge con
forza l'idea che ci porta a vedere nella sintesi fra ragione e fede operata dal
cristianesimo l'origine stessa delle nostre libertà liberali. Perso il primo,
non potremo che perdere anche le seconde. E forse ci siamo già arrivati.
(Fonte: Corrado
Ocone, Il Giornale, Venerdì 17 aprile 2020)
https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/prediche-ratzinger-nel-nostro-deserto-spirituale-1854992.html
È
morto dopo lunga malattia monsignor Antonio Livi, un grande filosofo e teologo,
che per anni ha dato anche un importante contributo di idee alla Nuova Bussola
Quotidiana (qui
l'elenco dei suoi articoli). Implacabile nel difendere l'oggettività della
verità contro l'evidente decadenza della teologia cattolica e la
protestantizzazione della Chiesa.
Una
cattiva filosofia produce una cattiva teologia e questa porta la Chiesa fuori
strada. Non aveva dubbi, monsignor Antonio Livi, che ci ha lasciati ieri a 82
anni a Roma per aspettarci nella Gloria di Dio quando questo passaggio toccherà
anche a noi, che la Chiesa stia andando fuori strada. Ed aveva impegnato tutta
la sua vita di filosofo e di teologo per spiegare e difendere la recta ratio,
la verità naturale, la filosofia spontanea dello spirito umano, senza della
quale non è possibile la recta fides, la fede non solo come atto
soggettivo (fides qua) ma anche come conoscenza delle verità rivelate
salvifiche (fides quae).
La
dislocazione attuale dall’oggetto al soggetto, dai contenuti alla prassi, dalla dottrina alla pastorale
tipica delle età in decadenza, come scriveva Josef Pieper (“Tutte le epoche in
procinto di dissolversi sono soggettive, mentre tutte le epoche che guardano in
avanti hanno una direzione oggettiva”), connota anche questa nostra età della
decadenza e riguarda anche la Chiesa. La teologia cattolica, insegnava Antonio
Livi, sta perdendo il riferimento ad un sistema naturale di pensiero senza il
quale essa si riduce a generica letteratura religiosa, a vaga esortazione
parenetica, ad assimilazione mimetica e compiaciuta del linguaggio del mondo,
ma non serve più il dogma.
Senza
la struttura di verità del proprio pensiero – egli usava l’espressione “epistemologia aletica”
– la fede cristiana cessa di essere un autentico sapere, non si comunica a
tutti gli uomini, non presenta i dogmi sempre nello stesso senso, non li
difende dalle eresie.
Sulla
scia del suo maestro Étienne Gilson, Antonio Livi è stato un grande tomista vissuto in un’epoca in cui la
teologia cattolica ha messo il realismo metafisico completamente da parte. Per
questo la sua vita è stata una “lotta” teoretica e pratica – “sapesse quante ne
ho passate!", mi aveva detto -, una lotta fino all’ultimo momento, una
lotta che egli lascia in eredità: “Ho pochi momenti lucidi nell’agonia, ma so
che altri continueranno dopo di me”.
Proprio
come Gilson, Livi ha denunciato tutti i tentativi moderni, necessariamente confluenti nel
modernismo, di negare il realismo filosofico, sapendo che se si concede al
pensiero moderno anche una sola briciola di vantaggio all’inizio, la partita
prima o dopo sarà perduta. La stessa battaglia che Gilson aveva intrapreso
fieramente contro la scuola di Lovanio negli anni Trenta del secolo scorso,
Livi l’ha affrontata contro i neomodernisti del nostro tempo, denunciando il
razionalismo di origine protestante dilagante ormai nella teologia cattolica e
che animava la protestantizzazione del cattolicesimo ormai sotto gli occhi di
tutti.
La
sua “filosofia del senso comune” eliminava ogni concessione al dubbio cartesiano e al
criticismo kantiano, impediva sul nascere qualsiasi accordo tra il realismo
metafisico e i principi della filosofia moderna, liquidava come inconsistente e
dannosa la teologia ufficialmente professata in moltissimi centri accademici
cattolici comprese le università pontificie, fronteggiava apertamente i più
acclamati maestri del pensiero cattolico attualmente in voga, tanto
inconsistenti quanto vezzeggiati dal nuovo establishment ecclesiastico.
Come
aveva fatto Réginald Garrigou-Lagrange negli anni quaranta del secolo scorso, Antonio Livi si era chiesto dove
stesse andando la nouvelle théologie e la sua diagnosi confermava quella
del grande domenicano: essa conduce alla tesi che una teologia non attuale è
falsa e che la teologia vera per essere vera deve essere attuale. È così che ha
pensato Rahner e che pensa Kasper, per i quali l’essere è tempo e il tempo è
essere, la teologia nasce dall’esistenza che è sempre mutevole e così anche
essa cambia.
Una
teologia immutabilmente vera oggi è ritenuta cosa impossibile anche ai vertici della Chiesa,
ma non da Antonio Livi. Nel suo libro forse più famoso, “Vera e falsa
teologia”, egli presentò un elenco di teologi, poi più volte aggiornato, che
stravolgevano la teologia cattolica e che ciò nonostante erano insigniti al merito
da parte dell’autorità ecclesiastica. Nei suoi ultimi editoriali della rivista
“Fides Catholica”, di cui aveva preso la direzione dopo le note vicende
accadute ai Francescani dell’Immacolata, aveva denunciato la logica hegeliana
penetrata nello stesso magistero, come conseguenza matura della nuova teologia
modernista: un certo insegnamento dottrinale o morale è vero, ma poi i tempi
cambiano e quindi bisogna riconsiderarlo.
Antonio
Livi va paragonato, come già osservato, a Garrigou-Lagrange, a Étienne Gilson, a Cornelio
Fabro, ai grandi filosofi e teologi della Scuola Romana la cui ricchezza è
stata rifiutata e dimenticata e nessuno sa dire perché. Rifiutata perché non
più attuale, ma rifiutare una verità perché non più attuale significa
rifiutarla senza un perché. Certamente è triste che i Grandi siano rifiutati
senza un perché. Del resto, però, ciò evidenzia la loro grandezza rispetto alla
quale nessun perché è sufficiente per rifiutarli.
(Fonte:
Stefano Fontana, LNBQ, 3 aprile 2020)
https://lanuovabq.it/it/a-dio-livi-diga-teologica-al-modernismo-nella-chiesa