giovedì 31 dicembre 2015

Follia gender. A Madrid sfilano i Re Magi donna

A Madrid arrivano le Regine Maghe. Melchiorra e Gasparra sfileranno per le vie della capitale spagnola. Non è un anticipo di carnevale, bensì l’ultima trovata di Ahora Madrid, partito di area levantina che vuole introdurre le quote rosa anche nel famoso trio dei Re Magi. Dalla mascherata gender è scampato Baldassarre perché tradizione vuole che sia nero e quindi il politicamente corretto non poteva femminizzare anche costui. Gli asiatici e i caucasici invece posso anche darsi al transgender.
E così il prossimo 5 gennaio, una giorno prima dell’Epifania, nei distretti capitolini di Puente de Vallecas e San Blas-Canillejas la tradizionale Cabalgata de los Reyes Magos vedrà almeno uno dei Re Magi essere impersonato da una donna, seppur con abiti di foggia maschile. Se le Regine Maghe sono le benvenute, non così si può dire per gli 800 studenti del collegio cattolico Arenales che avrebbero voluto partecipare alla sfilata con un proprio carro e a proprie spese, ma che si sono visti rispondere picche dall’amministrazione comunale. Il motivo? Nell’istituto sono previste classi di soli maschi e classi di sole femmine. Poco importa poi che tale tipo di educazione divisa opportunamente per sessi riguardi solo il 10% di tutti gli studenti. Bastano dieci reprobi su cento giusti perché – secondo il principio rovesciato che determinò la distruzione di Sodoma e Gomorra -  un’intera scolaresca sia messa al bando. Le Regine Maghe non vengono mica per i baciapile. 
L’iniziativa dei trans Re Magi ha suscitato un bel polverone mediatico e politico soprattutto perché alla sfilata assistono molti bambini che potrebbero rimanere a dir poco confusi a vedere Melchiorra e Gasparra sui cammelli a posto dei loro omologhi maschi. Ma il sindaco Manuela Carmena tende a minimizzare: «Il bello del travestimento è che si tratta di un gioco, un gioco molto dignitoso». Provassero quelli della giunta comunale madrilena a giocare con i simboli e i personaggi dell’Islam. Nell’agone della polemica sulle Regine Maghe è sceso anche il sinistrorso quotidiano El Pais, elencando alcuni motivi per cui è bene che i Re Magi lascino spazio alle loro consorti durante la Cabalgata per le vie di Madrid. 
Il primo motivo fa riferimento al fatto che nei Vangeli non è esplicitato il sesso dei Magi. Forse è più cretino che falso sostenerlo, ma riguardo a quest’ultimo punto i Vangeli usano il sostantivo plurale maschile (e l’originale greco di Matteo usa “magoi”, appunto il nominativo plurale maschile), potendo usare il sostantivo plurale femminile se fossero state delle Regine a recarsi a Betlemme (cosa poi da escludere dato che per “magio” si intende una via di mezzo tra uno scienziato e un sacerdote, cariche a cui in linea di massima erano escluse le donne nel lontano Oriente). El Pais poi scrive che dato che nella sfilata compaiono un po’ di soggetti bizzarri, tra cui personaggi dei fumetti, fatine e bande musicali, non si vede perché scandalizzarsi per la presenza di donne nelle veci dei Re Magi. 
Insomma, dato che è una carnevalata possiamo buttarla in burla su tutta la linea. E infatti il sindaco Carmena ha tenuto a precisare che «il Natale è una festa sigillata da una cultura millenaria, una festa simultaneamente cristiana e pagana». Facile rispondere che il Natale è festa solo cristiana che sicuramente è stata paganizzata da chi cristiano non è, ma adora altre divinità come il consumismo con cui campa anche Madrid. Che la giunta comunale madrilena non nutra simpatie filo cristiane lo si era capito già ad ottobre quando il primo cittadino annunciò che voleva abolire il tradizionale allestimento del presepe a Plaza Cibeles perché «il Comune non è dei cattolici». Il Comune non sarà stato dei cattolici, ma dato che le tradizioni religiose invece sono dei cristiani, il sindaco dovette far marcia indietro di fronte alle proteste che suscitò la sua decisione e quindi fu costretta a dare il proprio placet al presepe seppur in forma ridotta. 
Ma la giunta presieduta dalla Carmena ha preso di mira anche la Settimana Santa, equiparandola al ramadam e al capodanno cinese. L’amministrazione comunale, infatti, sborserà l’anno prossimo 150 mila euro per contribuire ad ognuno di questi tre eventi, tanto per tentare di svilire nella coscienza collettiva l’importanza della Pasqua di Nostro Signore. Ma torniamo a Melchiorra e Gasparra. Come avevamo già appuntato da queste colonne, il presepe da anni è luogo di devastazione ideologica, opportunità da sfruttare per pubblicizzare le proprie idee a favore del femminismo, del gender, dell’omosessualità e così via. 
Dire che se ne fa un uso strumentale è bene poco. In realtà è un uso sacrilego, è fare violenza al sentimento religioso dei più, anche di chi non è frequentatore abituale della messa domenicale, perché insultare le statuine del presepio è offendere la sensibilità di tutti quelli che vedono, seppur in modo a volte solo epidermico, in questa popolare opera d’arte qualcosa comunque di sacro, di trascendente, di puro ed innocente. Nelle mani invece dei novelli Erode la strage dell’innocenza continua ancor oggi al fine di sfrattare dalla capanna la Sacra Famiglia e far entrare a suo posto la Dissacrata Famiglia composta da gay e travestiti.

(Fonte: Tommaso Scandroglio, La nuova bussola quotidiana, 31 dicembre 2015)


lunedì 28 dicembre 2015

La Chiesa che a Natale festeggia la nascita di Maometto ha scelto l'eutanasia

Per la prima volta da 457 anni la notte tra il 24 e il 25 dicembre ha visto coincidere la ricorrenza della nascita di Gesù e di Maometto. Ma è in assoluto la prima volta che, questa coincidenza, viene colta dalla Chiesa cattolica come un “segno di Dio” per legittimare Maometto e l'islam. 
La precedente coincidenza delle due date, nel 1558, era contrassegnata dalla realtà che ha storicamente caratterizzato il rapporto tra cristianesimo e islam, ossia dello scontro, culminato all'epoca nella battaglia di Lepanto il 7 ottobre 1571, con la netta vittoria della flotta cristiana della Lega Santa su quella musulmana dell'Impero Ottomano. 
Padre Vincent Feroldi, responsabile delle relazioni con i musulmani della Conferenza Episcopale Francese, ha scritto: “Comunità cristiane e musulmane avranno il cuore in festa. Renderanno grazie a Dio, ciascuna nella propria tradizione, per questa buona novella che è la nascita di Gesù o di Maometto, nascite che saranno fonte di incontro tra uomini e donne credenti e Colui che è fonte di vita, fonte della vita. In tale unità di data rarissima molti vogliono vedervi un segno di Dio”.
Don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio della Cei (Conferenza Episcopale Italiana) per l’ecumenismo e il dialogo, ha detto: “È indubbio che quest’anno musulmani e cristiani si trovano a celebrare nello stesso giorno la nascita di due figure imprescindibili e preziose della storia. Come nessun cristiano può prescindere dal confronto con Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, così nessun musulmano può prescindere dal confronto con Maometto, il Profeta della rivelazione coranica”.
Ebbene è arrivato il momento che la Chiesa sappia che se Maometto fosse vissuto oggi e avesse personalmente decapitato 600 o 900 ebrei maschi adulti così come fece nel 627 a Medina eliminando fisicamente la tribù ebraica dei Banu Qurayza, se oggi Maometto avesse ridotto in stato di schiavitù centinaia di donne e bambini da sfruttare e vendere come oggetto di prestazioni sessuali o lavorative, per depredare i loro beni e imporre ovunque la sua autorità e il culto esclusivo del dio Allah, senza alcun dubbio che sarebbe stato arrestato e condannato alla pena capitale perpetua per crimini contro l’umanità.  
C'è qualcuno nella Chiesa che è al corrente che Allah nel Corano ha condannato l'ebraismo e il cristianesimo come miscredenza e che tutti i non musulmani devono essere annientati?
«Dicono i giudei: “Esdra è figlio di Allah”; e i nazareni dicono: “Il Messia
è figlio di Allah”. Questo è ciò che esce dalle loro bocche. Ripetono le parole
di quanti già prima di loro furono miscredenti. Li annienti Allah (…)”. (9, 30)
Rispetto a 457 anni fa la Chiesa e l'Occidente stanno subendo la guerra scatenata dal terrorismo islamico di chi taglia le teste sia fisicamente sia allegoricamente, sottomettendoci comunque all'islam. All'epoca la Cristianità insorse, combatté e sconfisse l'islam. Oggi ci stiamo arrendendo persino dentro casa nostra, scegliendo l'eutanasia e affidando all'islam carnefice il compito di staccare la spina.

(Fonte: Magdi Cristiano Allam, Il Giornale, 27 dicembre 2015)


venerdì 11 dicembre 2015

Il Papa snobba Scola. Per la quarta volta salta l'incontro a Milano

Motivo ufficiale: "Troppi impegni". Ma i due non si amano. Visita spostata al 2017, quando l'arcivescovo sarà in pensione.

Il Papa annulla la visita a Milano. Ormai è quasi un'abitudine, perché non è la prima volta che Bergoglio dia forfait a un incontro con il cardinale Angelo Scola, tanto da diventare un caso.
La motivazione ufficiale è legata «all'intensificarsi degli impegni per il Giubileo».
«Il Papa - ha spiegato Scola - per l'incremento enorme degli impegni che l'Anno Santo sta portando, ha deciso di rinviare le visite pastorali in Italia durante il Giubileo. Il Santo Padre desidera in prima istanza accogliere i pellegrini a Roma», ha aggiunto l'arcivescovo di Milano. Eppure, se si analizza il calendario ufficiale delle celebrazioni previste per il Giubileo, per il sabato 7 maggio, al momento, non risulta nessun impegno. E non è nemmeno il sabato scelto per l'udienza generale che, durante l'Anno Santo, si terrà oltre che ciascun mercoledì, anche un sabato al mese.
«Accogliamo la decisione del Papa e ci impegniamo fin da ora a vivere bene il Giubileo, in attesa di accoglierlo a Milano», ha aggiunto Scola.
Il viaggio slitta al 2017, in data da definire. «È sempre molto difficile bloccare l'agenda del Papa con largo anticipo; per questo si parla di 2017, vedremo la data dopo Natale», ha precisato Scola. Ma nel gioco del calendario c'è un'altro elemento da non sottovalutare: è la data del 7 novembre 2016, quando il cardinale Scola compirà 75 anni e presenterà la sua rinuncia. «Dopo di che starò a quel che il Papa dice, come deve fare un bravo vescovo e prete, e quindi vediamo - ha aggiunto l'arcivescovo - la visita del Papa è la visita del Papa, chiunque sia il vescovo lo accoglierà a braccia aperte». Insomma l'incontro ufficiale a Milano tra i due potrebbe non avvenire mai. Pare l'ennesima conferma della poca sintonia tra Bergoglio e il cardinale Scola.
E in effetti è la quarta volta che il Pontefice argentino annulla un appuntamento con il porporato di Milano.
La prima fu la cancellazione, all'ultimo momento, di una udienza privata della delegazione di Expo in Vaticano. Il gruppo, guidato da Scola, era già nella sala privata dell'udienza, quando il Papa fece sapere che era troppo stanco, lasciando i suoi ospiti a bocca asciutta. La seconda volta fu la cancellazione della visita al Gemelli. «Per una improvvisa indisposizione disse il Vaticano - il Santo Padre non si recherà al Gemelli». Anche in quel caso, Bergoglio doveva essere accolto da Scola. E poi, il primo maggio, giorno dell'inaugurazione di Expo a Milano. Al centro della manifestazione temi legati all'Enciclica ecologica di Papa Francesco. Tutti i leader del mondo presenti. Bergoglio invia un messaggio.
Insomma, sarà un «caso». Fatto sta che molti osservatori sospettano che dietro la cancellazione della visita del Papa a Milano ci sia proprio uno «schiaffo» a Scola, porporato della frangia conservatrice della Chiesa, distante dalla linea di Papa Francesco.
Infine, appare molto strano che Bergoglio cancelli le visite pastorali in Italia (ma è probabile che si rechi a Genova a settembre 2016 per il XXVI Congresso Eucaristico Nazionale), ma non quelle all'estero, ben più lunghe. Confermati infatti i viaggi in Messico e quello in Polonia per l'incontro con i giovani. In un'intervista da arcivescovo, d'altronde, Bergoglio disse: «Se non voglio vedere una persona, preferisco dire che sto poco bene».

(Fonte: Serena Sartini, Il Giornale, 11 dicembre 2015)


L’attacco finale di Antonio Socci: “Che orrore il Giubileo-baracconata”

In genere non approvo il modo diretto con cui Socci critica polemicamente, spesso sopra le righe, l'operato del papa e del Vaticano: tuttavia questa volta trovo le sue considerazioni fondate e in gran parte condivisibili.

L’8 dicembre, in un brutto spettacolo, la Basilica di San Pietro e il Cupolone, cuore della cristianità, sono stati degradati a maxischermo (o meglio, “maxischerno”) su cui proiettare immagini relative a clima e ambiente, nuovi dogmi dell’ideologia dominante. «Uno spettacolo inconcepibile in piazza san Pietro, uno sfregio alla basilica simbolo della cattolicità», ha scritto Riccardo Cascioli, direttore del giornale cattolico online “Nuova Bussola quotidiana”.
Lo show era stato presentato, da parte vaticana, come una specie di lode al creato che richiamava l’enciclica «Laudato si’» e la Conferenza di Parigi sul clima e già così alimentava molti dubbi, visto che non c’entrava nulla con la Festa dell’Immacolata che si celebrava martedì, come pure con l’apertura del Giubileo e con l’imminenza del Natale. In realtà lo spettacolo poi è stato molto peggio di quanto si temeva.
Nessun simbolo cristiano, casomai l’allusione a qualche moschea islamica che, proiettata sulla Basilica di San Pietro, fa un certo effetto inquietante. È stato uno scorrere noioso e a volte lugubre (per gli effetti sonori) di immagini di animali, tipiche di una certa divinizzazione gnostica e neopagana della Terra. Così a San Pietro, nella festa dell’Immacolata Concezione, alla celebrazione della Madre di Dio è stata preferita la celebrazione della Madre Terra, per propagandare l’ideologia dominante, quella “religione climatista ed ecologista”, neopagana e neomalthusiana, che è sostenuta dai poteri forti del mondo. Una profanazione spirituale (anche perché quel luogo – ricordiamolo – è un luogo di martirio cristiano). E una profanazione culturale.
Infatti quella concentrazione di solennità cristiane (l’Immacolata, il Giubileo, il Natale), in uno scenario cattolico come la Basilica, il colonnato del Bernini e la cupola michelangiolesca, su un suolo sacro bagnato dal sangue di san Pietro e di tanti altri cristiani, avrebbe giustificato – casomai – una grande proiezione su maxischermo collocato in piazza (non sulla Basilica) delle bellissime immagini della nostra arte sacra, magari accompagnata dalla grande musica della tradizione cristiana. Non una sceneggiata gnostica e neopagana che aveva un preciso messaggio ideologico anticristiano.
Un messaggio sintetizzato nel titolo dello show, “Fiat lux”, che suona come beffarda sfida e come parodia della Sacra Scrittura nella quale l’espressione “Fiat lux” indica il gesto creatore di Dio e poi la Luce che è Cristo, venuto a illuminare le tenebre del mondo (come dice il Prologo del Vangelo di San Giovanni). E invece questo spettacolo rappresentava il contrario: il “mondo” che proietta luce sulla Chiesa immersa nelle tenebre. È la Chiesa che nello show riceve luce dal mondo. Quindi un simbolico e umiliante rovesciamento della fede cattolica.
Che proprio questa sia l’interpretazione da dare all’evento lo conferma un passo dell’intervista di papa Bergoglio ad Antonio Spadaro a proposito del Concilio, per il cui anniversario – che cadeva proprio l’8 dicembre – è stato indetto il Giubileo. Il pontefice infatti ha dichiarato: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea». Quindi per Bergoglio sarebbe il mondo (la cultura contemporanea) che illumina e giudica il Vangelo. Invece la Chiesa ha sempre affermato il contrario: è Cristo la vera luce che risplende sul volto della Chiesa e così illumina il mondo.
Non a caso uno dei fondamentali documenti del Concilio, la “Lumen Gentium”, inizia con queste precise parole: «Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa». Nella metafora della luce c’è tutta una visione delle cose che evidenzia l’opposta direzione del pontificato bergogliano rispetto al Concilio Vaticano II e al magistero costante della Chiesa. D’altronde c’è anche un linguaggio dei segni che è molto eloquente. Infatti la sera dell’8 dicembre, oltre alla Basilica, anche il grande Presepio di Piazza San Pietro, per l’occasione, era spento: non sia mai che la luce del Bambino Gesù disturbi la rituale messinscena della nuova religione neopagana.
Ci sarebbe poi da osservare che – applicando i criteri di giudizio di Bergoglio – quello show dovrebbe essere considerato dalla Chiesa un inaccettabile spreco di soldi che potevano più opportunamente essere spesi per i poveri. E non significa nulla che il costo dello spettacolo sia stato pagato da società private esterne, perché la Santa Sede avrebbe dovuto rifiutare il “regalo” e chiedere di donare quella cifra ai poveri. Peraltro solleva molti dubbi pure l’identità di coloro che hanno offerto questo “pacchetto” alla Santa Sede, che poi ha acriticamente messo in scena il tutto mettendo a disposizione la Basilica e la piazza.
Scrive Cascioli: «È stato infatti un “regalo” della Banca Mondiale (e del suo programma Connect4Climate) e di alcune associazioni e fondazioni particolarmente interessate all’ecologismo, la Vulcan Inc. del co-fondatore di Microsoft Paul Allen e la Okeanos-Fondazione per il mare, istituzioni che non a caso portano il nome di due divinità pagane. A realizzare l’installazione è stato lo studio Obscura, un nome che è un programma. Scopo di “Fiat Lux”, come si legge in un comunicato stampa degli sponsor, è “educare e ispirare cambiamenti intorno alla crisi del clima attraverso le generazioni, le culture, le lingue, le religioni e le classi”». Dunque «educare le religioni».
Ecco perché hanno “illuminato” le tenebre di San Pietro: una conferma del carattere ideologico dello show. Cascioli osserva peraltro che «la Banca Mondiale è anche l’istituzione che dagli anni ’70 è tra le principali responsabili» di quelle politiche verso i Paesi poveri – (prestiti in cambio di programmi per il controllo delle nascite) – che pure papa Francesco ha più volte denunciato. E sulla stessa lunghezza d’onda sono le altre associazioni per cui ecologismo e controllo delle nascite sono due facce della stessa medaglia».
Purtroppo l’insistito e acritico sostegno bergogliano alla Conferenza di Parigi (che non compete a un papa) finisce per identificare il messaggio del Giubileo sulla misericordia con la battaglia sul “cambiamento climatico” per cause umane, la cui fondatezza scientifica peraltro è del tutto discutibile. Il maggior fisico dell’atmosfera, “climate scientist” nel 2007, Richard Lindzen, ha dichiarato: «Le generazioni future si chiederanno, con perplesso stupore, come mai il mondo sviluppato degli inizi del XXI secolo è caduto in un panico isterico a causa di un aumento della temperatura media globale di pochi decimi di grado. Si chiederanno come, sulla base di grossolane esagerazioni di proiezioni altamente incerte di modelli matematici, combinate con improbabili catene di interferenze, è stata presa in considerazione la possibilità di ritornare all’era preindustriale».
È incredibile che Bergoglio – sempre distaccato e critico verso la dottrina cattolica e i dogmi della Chiesa – poi vada a sposare acriticamente questi dogmi ecologisti che non hanno nemmeno fondamenti scientifici certi. Ed è sconcertante che un papa indichi come emergenza quella del clima. L’apostasia di interi popoli dalla fede nel vero Dio non è un dramma che meriterebbe gli appelli più accorati? La guerra alla famiglia e alla vita? La dimenticanza di Cristo e la persecuzione e il massacro delle comunità cristiane? Non era il caso di dedicare a loro la prima enciclica scritta di suo pugno? Perché ha preferito occuparsi di rettili e spazzatura differenziata?
Bergoglio è un enigma. Dice di non credere nell’esistenza di un “Dio cattolico”, ma crede ai dogmi del politically correct. Alain Finkielkraut l’ha definito «Sommo Pontefice dell’ideologia giornalistica mondiale».
  
(Fonte: Antonio Socci, Libero, 10 dicembre 2015)


lunedì 7 dicembre 2015

«Caro Enzo Bianchi, Fatima non fu solo per i cattolici»

Mi capita di rivedere in rete l’articolo apparso su Le Monde nel maggio del 2000, quando Giovanni Paolo II fece rivelare al mondo quello che chiamano «terzo segreto» di Fatima. Il pezzo del giornale francese su questo evento è firmato da Jean Cardonnel, il domenicano morto alcuni anni fa, per tutta la vita l’intrattabile leader di ogni contestazione sia clericale sia politica, uno dei vedovi inconsolabili degli anni di piombo della Chiesa e della società. Uno per il quale non solo i soliti Mao, Che Gue­vara, Ho Chi Minh ma anche lo sterminatore del popolo cambogiano, Pol Pot, erano da venerare nell’Olimpo delle sacre rivoluzioni.
A Cardonnel si deve tra l’altro un precedente giuridico inedito e pericoloso. Era già molto vecchio, più vicino ai novanta che agli ottanta, insopportabile per la maggioranza dei confratelli per questa sua ossessione contestatrice, per il suo culto del «no» previo a tutto, ma si continuava a ospitarlo – data l’età – nel convento domenicano di Montpellier. Alla fine, il superiore di quella casa religiosa, non potendone più dei suoi costanti malumori, approfittò di uno dei suoi viaggi per sgomberare la sua cella, impacchettare con cura le cose e trovargli un posto in una casa di riposo per anziani. Al ritorno, l’ira di Cardonnel (egli pure, come da copione di ogni prete «adulto» che si rispetti, vietava a chiunque di chiamarlo «padre») esplose clamorosa e, dicendosi vittima di una violenza intollerabile, non pensò neanche un momento a confrontarsi con la legge della Chiesa, il diritto canonico.
Si rivolse invece alla legge della laicissima Repubblica francese, chiamando la Gendarmerie e denunciando il superiore per violazione di domicilio. Il tribunale, dopo lungo dibattito, gli diede ragione, condannò il superiore del convento che aveva proceduto allo sgombero e – per la prima volta, non solo in Francia – dichiarò che la cella di un religioso era un domicilio privato come ogni comune alloggio. Sentenza faziosa e pericolosa, dicevo, perché scavalca e in qualche modo imbavaglia l’autorità ecclesiastica anche all’interno dei suoi spazi.
Ma torniamo al Cardonnel commentatore di Fatima. Scriveva su Le Monde: «Quel presunto “segreto” è un falso, tanto falso quanto la donazione di Costantino con la quale si è voluto legittimare un diabolico controsenso: l’impero cristiano. Un grande teologo italiano – non si dimentichi il suo nome: Enzo Bianchi, fondatore di una nuova comunità monastica – si è subito reso conto della superstizione e della frode perpetrata dal Vaticano a Fatima. Sul quotidiano romano La Repubblica, fratel Bianchi mette implacabilmente il dito nella piaga. Scrive infatti: “Un Dio che, nel 1917, pensa di rivelare che i cristiani saranno perseguitati e che non parla della shoah e dei sei milioni di ebrei annientati non è un Dio credibile”». Continua l’articolo di Cardonnel: «Sì, bisogna scoprire la piaga: come non vedere la tara del presunto segreto di Fatima, la prova lampante che è un falso, che non può venire da Dio? Un falso che squalifica, che scredita l’Eterno. Un Dio, ripeto, non credibile: il Dio del razzismo cattolico, che si interessa solo dei suoi, della sua razza cattolica, nell’oblio del popolo di Gesù».
C’è da rimanere molto sorpresi da simili discorsi e soprattutto, per noi cattolici italiani, c’è da sorprendersi per la citazione (non smentita, anzi ribadita, dall’interessato) di fratel Bianchi. Circola ormai una convinzione, anche tra certi cristiani, secondo la quale la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti nei 12 anni tra 1933 e 1945 sarebbe, senza paragone possibile: il Male Assoluto, il Massimo Delitto della storia intera, l’Esempio Radicale della malvagità umana. Non a caso, la colpa nazista è considerata inespiabile e ancor oggi si braccano, per processarli e condannarli, dei novantenni se non dei centenari considerati in qualche modo responsabili di quello che viene detto, con termine religioso, «l’Olocausto» per eccellenza. Per un simile delitto, e solo per questo, non è prevista alcuna prescrizione. Stando al Cardonnel e al Bianchi, Dio stesso – se vuol parlarci attraverso Maria – deve, sottolineo deve, ricordare e ovviamente maledire la Shoah, altrimenti non sarebbe «un Dio credibile». Non è il vero Signore se non esecra esplicitamente Auschwitz.
Sia ben chiaro – è davvero inutile sottolinearlo – che non si tratta certo di sminuire la gravità del delitto perpetrato all’ombra di una croce uncinata, che fu il tragico rovesciamento della croce cristiana. Non c’è che da unirsi, ovviamente, alla condanna universale. Ma è davvero paradossale rifiutare Fatima perché nel 1917 la Madonna non avrebbe previsto e condannato – a nome del Figlio e della Trinità intera – quei lager tedeschi che sarebbero venuti una ventina d’anni dopo. Nel 1917, ripetiamo: proprio l’anno in cui Lenin prendeva il potere, dando inizio a quel mostro comunista che avrebbe fatto almeno 100 milioni di morti e che avrebbe praticato la più violenta e sanguinosa repressione religiosa della storia, in nome di un ateismo di Stato proclamato sin dalle Costituzioni dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti.
La ricerca storica più recente, capeggiata dal celebre docente tedesco Ernst Nolte, dimostra, documenti alla mano, che il nazionalsocialismo nasce come reazione al marx-leninismo: senza Lenin nel 1917, niente Hitler nel 1933. Senza il colpo di Stato di San Pietroburgo, l’ex imbianchino di Vienna avrebbe al massimo fatto l’ideologo in qualche stube di Monaco di Baviera per qualche oscuro gruppetto di fanatici. Mettere in guardia, a Fatima, dal comunismo che proprio allora nasceva, significava mettere in guardia dalle altre ideologie mortifere che sarebbero venute dopo di esso e per causa di esso. Il nazionalismo primo fra tutti.
Tra l’altro, Bianchi e Cardonnel sono incomprensibili anche quando denunciano che a Fatima si sarebbe manifestato «il Dio del razzismo cattolico, che si interessa solo dei suoi, della sua razza cattolica». Ma che discorso è mai questo? Per l’ateismo sovietico non c’erano zone franche, nel mondo religioso: a parte il fatto che la stragrande maggioranza delle vittime da Lenin sino a Gorbaciov (egli pure ebbe una giovinezza da persecutore) passando per Stalin, non furono cattoliche, ma ortodosse, i due dimenticano che nell’immensa Unione Sovietica erano presenti tutte le religioni. Così, i pope furono massacrati alla pari dei preti, dei rabbini, degli imam, dei maestri buddisti.
Lo stesso avvenne ovunque, nel mondo, il comunismo giunse al potere: nessuno scampo per chi non accettava il materialismo e non condannava la religione, tutte le religioni, come «oppio dei popoli». E questo cominciò proprio in quel fatale 1917, quando la Madonna diede l’allarme per una ideologia perversa, anche perché si presentava con un volto nobile, apparentemente evangelico (giustizia, liberazione, eguaglianza, fraternità), ma che avrebbe risvegliato tutti i dèmoni, compreso quel regime tedesco che si presenta, sin dal nome, come l’unione di nazionalismo e di socialismo. 
Le apparizioni di Fatima, come tutte le altre pur ufficialmente riconosciute, non sono de fide, possono essere criticate e magari non accettate anche dai credenti. Purché, però, lo si faccia su basi più presentabili di queste.
Visto che parliamo di Fatima e di comunismo: viene giusto a proposito ricordare quanto avvenne a Vienna nel decennio tra il 1945 e il 1955. Mentre gli inglesi, esperti e pragmatici, avrebbero voluto contenere l’Urss a Est, l’insipienza americana fermò i suoi carri armati in vista di Berlino per permettere a Stalin di dilagare nell’Europa orientale, occupando anche l’Austria. Il Paese fu diviso in quattro zone, sul modello della Ger­mania, ma quella riservata ai russi era la più importante e vasta, era quella dove stava la capitale stessa. Il ministro degli esteri, quel Molotov che aveva firmato il trattato con Hitler, permettendogli così di scatenare la guerra, disse e ripeté che Mosca mai si sarebbe ritirata da ciò che aveva occupato e tutti si aspettavano che, come a Praga e a Budapest, i comunisti organizzassero un colpo di Stato per andare da soli al potere nell’intera Austria. Le stesse cancellerie occidentali sembravano rassegnate. Opporsi significava quasi certamente una nuova guerra.
Ma non si rassegnò un francescano, padre Petrus che, tornato dalla prigionia proprio in Urss (e conoscendo quindi sulla sua pelle l’orrore di quel regime), andò in pellegrinaggio nel santuario nazionale austriaco, a Mariazell, per avere ispirazione sul che fare per la sua Patria. Lì, fu sorpreso da una voce interiore, una locuzione interna, che gli disse: «Pregate tutti, tutti i giorni, il rosario e sarete salvi». Buon organizzatore, oltre che sacerdote stimato, padre Petrus promosse una «Crociata nazionale del Rosario», nello spirito esplicito di Fatima, che in breve tempo raccolse milioni di austriaci, compreso lo stesso presidente della Repubblica, Leopold Figl. Giorno e notte, grandi gruppi si riunivano, spesso all’aperto, nelle città e nelle campagne recitando la corona e la stessa Vienna era percorsa da imponenti processioni mariane, sorvegliate con ostilità dall’Armata Rossa.
Gli anni passavano senza che l’occupazione cessasse, ma il popolo non si stancava di pregare la Madonna di Fatima. Ed ecco che nel 1955, all’improvviso, il Cancelliere austriaco fu con­vocato a Mosca, dove fu ricevuto al Cremlino dal Soviet Supremo. Qui, gli fu comunicato che l’Urss aveva deciso di ritirare le sue truppe e di ridare all’Austria la piena indipendenza. In cambio, si poneva una sola condizione, che le autorità del Paese che veniva liberato accettarono di buon grado: un impegno di neutralità che, tra l’altro, avrebbe portato grandi vantaggi a Vienna, facendola diventare la terza città delle Nazioni Unite dopo New York e Ginevra. I governi occidentali furono colti di sorpresa da una decisione del tutto inaspettata e unica, sia prima sia dopo: mai, come aveva ricordato Molotov dieci anni prima, mai l’Urss aveva accettato né avrebbe accettato di ritirarsi spontaneamente da un Paese occupato. 
Furono stupiti politici, diplomatici, militari, nel mondo intero. Ma non si stupirono coloro che da anni pregavano con la «Crociata del Rosario»: in effetti, il giorno in cui la notizia del ritiro fu annunciata a Mosca al Cancelliere era un 13 maggio, l’anniversario dell’inizio delle apparizioni di Fatima. Tanto per completare il quadro, lo sgombero totale dell’Armata Rossa fu fissato dal governo comunista per l’ottobre: tra i generali russi (dispiaciuti di lasciare un Paese così bello e strategicamente così importante) nessuno, ovviamente, sospettava che proprio ottobre è, per la tradizione cattolica che risale ai tempi della battaglia di Lepanto, il mese del rosario.

(Fonte: Vittorio Messori, La nuova bussola quotidiana, 6 dicembre 2015)


mercoledì 2 dicembre 2015

Il preside, il vescovo e un cane

Ha un che di surreale la polemica che va avanti da giorni sulla celebrazione del Natale nelle scuole. Del fatto all’origine abbiamo già parlato: a Rozzano (Mi) un preside ha deciso di abolire l’usuale festa di Natale, proponendo invece per gennaio una Festa d’inverno: «per rispetto di chi non è cattolico». Dopo le proteste di alcuni genitori, il caso è diventato nazionale, e la scuola di Rozzano è diventata il teatro di scontro fra giornali, politici, anche con punte di comicità involontaria, tra il leader della Lega Matteo Salvini che porta un presepe da introdurre nella scuola e Mariastella Gelmini che intona “Tu scendi dalle stelle”.
Perché surreale? Perché – seppure parzialmente giustificati dai recenti fatti di Parigi che costringono a farsi qualche domanda sull’immigrazione e sulle regole di convivenza – non si capisce come mai tanta reazione nei confronti di un preside che ha fatto né più né meno quello che altre decine e centinaia di dirigenti scolastici hanno fatto prima di lui. Nel caso nessuno se ne fosse accorto sono anni che cresce il numero di scuole di ogni ordine e grado in cui si vietano spettacoli natalizi. E le denunce, apparse su pochi giornali, sono sempre state ignorate dai “Signori dell’opinione e dell’informazione”. Si fossero mobilitati quando il fenomeno è cominciato forse non ci troveremmo a questo punto.
«Non è - ha dichiarato il preside di Rozzano - un passo indietro di fronte all’islam rispettare la sensibilità delle persone che appartengono ad altre culture ad altri credo religiosi, mi pare un passo in avanti rispetto all’integrazione e rispetto reciproco». Un’idiozia, certo, il dialogo si fa tra identità diverse e coscienti della propria diversità e non ci può essere accoglienza e integrazione se non c’è apertura a tutto ciò che l’altro è. 
Ma proprio mentre fai queste riflessioni, ecco che si fa avanti il solito immancabile prelato che afferma sostanzialmente le stesse cose. È il nuovo vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla che, rispondendo a una tv locale, si è detto pronto a rinunciare alle proprie tradizioni natalizie pur di salvare la pace e la fraternità con i concittadini islamici. «Non dobbiamo presentarci – ha detto il vescovo - pretendendo qualsiasi cosa che magari anche la nostra tradizione e la nostra cultura vedrebbe come ovvio. Se fosse necessario per mantenere la tranquillità e le relazioni fraterne tra di noi io non avrei paura a fare marcia indietro su tante nostre tradizioni». Da non credere.
Più tardi monsignor Cipolla, davanti alle reazioni giustamente scandalizzate dei fedeli, ha cercato di correggere il tiro prendendosela con chi ha strumentalizzato le sue parole. Ma cosa c’è da strumentalizzare? È così chiaro quel che ha detto. E comunque ecco la precisazione: «Papa Francesco ci sollecita di continuo nell’obiettivo di costruire un mondo di pace, senza conflitti, in cui la relazione tra fratelli sia prioritaria e l’indifferenza non trovi casa. Per noi cristiani è un richiamo forte, costante, specie in questo tempo di Avvento che ci accompagna al Natale. Ed è per questo che non possiamo utilizzare le religioni per alimentare conflitti o inutili tensioni. Purtroppo le religioni spesso sono strumentalizzate per altri interessi. Non sono contro la presenza della religione nello spazio pubblico, né tantomeno contro le tradizioni religiose, ma né le religioni né le tradizioni religiose possono essere strumenti di separazioni, conflittualità, divisioni. Fare un passo indietro non significa creare il vuoto o assecondare intransigenze laiciste, ma trovare nelle tradizioni, che ci appartengono e alimentano la nostra fede, germi di dialogo».
In questi casi si usa dire che la toppa è peggio del buco. In che modo infatti un presepe può essere considerato un uso della religione «per alimentare conflitti o inutili tensioni»? E a proposito di separazioni e conflittualità, monsignore dovrebbe sapere che l’annuncio di Cristo sempre provoca separazioni, tra chi lo accoglie e chi no. È successo così a Gesù, il vescovo di Padova pensa di essere più furbo?
La verità è che da un po’ di tempo le priorità di tanti vescovi e sacerdoti – ma anche di laici - sembrano essere cambiate e si tende a dare un valore positivo e un bel nome (dialogo, integrazione) a quella che è la solita vecchia codardia. L’islam, quando arriverà in forze, non avrà neanche bisogno di combattere, i cattolici si saranno già autoliquidati.
Per mantenere almeno il ricordo delle tradizioni cristiane sembra dovremmo affidarci ai cani. Lo si capisce dal numero di Dicembre della rivista “Da noi”, distribuita nei supermercati Esselunga, dove a pagina 91 si spara il titolo “La ghirlanda dell’Avvento”. Ah, finalmente qualcuno che non si vergogna delle tradizioni cristiane, pensi mentre la foto di un cane, che correda il servizio, ti fa subito nascere qualche dubbio. E infatti, ecco cosa dice il sommario: «A Nuvola non bastano mai, così in casa c’è sempre una bella scorta dei suoi ossi preferiti da mordicchiare! A tal punto che di questi snack abbiamo fatto una ghirlanda. Così anche per lei il Natale sarà più goloso!». Insomma, una ghirlanda dell’Avvento, per cani. Il futuro ci viene incontro.

(Fonte: Riccardo Cascioli, La nuova bussola quotidiana, 2 dicembre 2015)


giovedì 26 novembre 2015

Il vuoto trionfalismo dei teologi alla moda

Non passa giorno che sui giornaloni laicisti non compaia qualche cattolico famoso che non annunci l'inizio di una nuova Chiesa. Dichiarazioni superbe e irreali, un copione già visto dopo il Concilio Vaticano II: il deserto delle Chiese occidentali dovrebbe indurre a prudenza, come facevano le parole di don Barsotti e Paolo VI. Una lettera al direttore.

Caro direttore,
credo alle riforme, non alle rivoluzioni. Le prime appartengono alla storia della Chiesa, le seconde no. Le prime portano al bene, a rinnovare nella continuità, a pulire le incrostrazioni; le seconde nascono da uno spirito ideologico e utopico: si propongono non il rinnovamento ma la distruzione e la ricostruzione totale e portano sempre con sé, inevitabilmente, violenza e intolleranza.
Per questo, come tanti, sono stupito di leggere ogni giorno, da parte di uomini di Chiesa o di laici cattolici famosi alla Melloni, dichiarazioni del genere: Nasce la nuova Chiesa della tenerezza; La Chiesa ha cambiato passo; Nulla sarà più come prima; C'è aria nuova nella Chiesa...
Queste dichiarazioni suonano irreali e superbe. Mentre si condanna il trionfalismo curiale, mentre si predica la povertà, mentre si proclama la modestia degli appartamenti e delle macchine (ottima cosa, benché da chiarire), si fanno nel contempo proclami altisonanti, orgogliosi, stonati.
Ma forse non c'è nulla di nuovo. Cinquant'anni fa circa, la Chiesa fu pervasa dall'idea che si stesse vivendo una "nuova Pentecoste", una "nuova era", che si fosse trovata la ricetta per convertire il mondo, convertendosi ad esso. Oggi, a rileggere quelle dichiarazioni trionfalistiche, mentre si osservano le chiese, i seminari, i conventi dell'Occidente sempre più vuoti, non si può fare a meno di dire: quanto sono distanti, le dichiarazioni superbe dalla realtà!
Mentre penso queste cose, rileggo don Divo Barsotti, che è stato consioderato l'ultimo mistico del Novecento, un uomo ascoltato e consultato dai papi.
Nel 1967 scriveva: «Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, una orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico. Tutto il cristiano deve compiere in ‘trepidazione e timore’; al contrario qui il trionfalismo che si accusava come stile della curia (cioè dei conservatori alla Ottaviani, ndr), diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del Concilio, la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo…Tutto il resto è retorica… Solo i santi salvano la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più».
Potrebbero calzare, queste parole, per i teologi alla moda che si pavoneggiano sui grandi giornali, che trovano spazio ogni giorno sul Corriere della SeraRepubblicala Stampa e sul Sole 24 ore (non proprio i posti adatti per esporre l'umiltà evangelica)? Potrebbero calzare per le interminabili discussioni e dichiarazioni verbose, logorroiche, dei Sinodi e dei convegni ecclesiali di oggi?
Sempre Barsotti, il 22 gennaio 1968 annotava: «Mi sento polemico, duro e intollerante. Certi adattamenti non li capisco, certi rinnovamenti mi sembra siano solo tradimenti. Non riesco a capire chi sia Dio per tanti teologi, per tanti scrittori, per tanti preti e religiosi. Non riesco a credere che quello che fanno, che quello che dicono, che quello che scrivono, derivi davvero da una fede vissuta, da una vita religiosa profonda, dalla preghiera. Come potrei accettare il loro discorso?».
Intorno a lui i teologi alla moda si pavoneggiavano sui giornali, mutavano la teologia, la liturgia, la pastorale, promettendo "magnifiche sorti e progressive" per la Chiesa tutta, in primis per quella europea, tedesca, francese, belga... cioè per le chiese che avevano riversato i loro fiumi nel Tevere della tanto vituperata Città Eterna.
Dirà Paolo VI: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa (il trionfalismo non cristiano di Barsotti, ndr). È venuta, invece, una giornata di nuvole, di tempesta, di buio».
Ne trarranno una lezione, i trionfalisti? Si accorgeranno che mentre le loro tesi trovano spazio sui media del potere, la fede cresce invece in quelle terra, come l'Africa, i cui pastori vivono e parlano ben altra vita e ben altra dottrina?

(Fonte: Francesco Agnoli, La nuova bussola quotidiana, 25 novembre 2015)


Schiave, spose, bombe umane: le donne del jihadismo

Nel gennaio 2004 per la prima volta una madre palestinese di appena 21 anni si fece esplodere uccidendo quattro israeliani e lasciando due figli, l’uno di 18 mesi e l’altro di tre anni. L'attentato, consumatosi a Gaza, rappresentò un grave salto qualitativo nella strategia dell’estremismo islamico. L'identikit dell'aspirante “martire” era progressivamente mutato. Si era passati dal maschio giovane motivato dalla disperazione economica o dalla sete di vendetta nei confronti del “nemico sionista”, all'adulto di entrambi i sessi spinto da una scelta ideologica indipendente dallo status socio-economico-religioso e ispirata da una crisi di identità, come avevano dimostrato gli attentatori dell’11 settembre. Il caso della giovane Reem Reyashi, benestante e sostanzialmente laica, ampliava spaventosamente le possibilità di arruolamento dell'esercito della morte coinvolgendo le madri, ovvero le persone che più di altre dovrebbero avere a cuore la salvaguardia della vita propria e dei propri figli. 
D’altronde il 9 novembre 2005 la belga Muriel Degauque, 38 anni, convertita all’islam, si fece esplodere a bordo di un'auto imbottita di esplosivo sulla strada per Baquba, sessanta chilometri a nord di Bagdad. 
Nel febbraio 2008 la fabbrica del terrore fece un altro atroce e disumano balzo in avanti poiché si ebbe l’abbietta strumentalizzazione della vita di due ragazze disabili, trasformate in bombe umane e fatte esplodere da Al Qaeda in due mercati di Bagdad, provocando il massacro di oltre 70 persone. Questa tendenza è stata tristemente confermata da un reportage sulle donne kamikaze trasmesso dalla televisione Al Jadid/New TV il 19 agosto 2008. Agghiacciante fu la testimonianza di una giovane donna che si fa chiamare “Amante di Gerusalemme”: “Questa è la cintura che portiamo intorno alla vita, così che possiamo farci esplodere premendo un bottone. E’ un bottone di sicurezza. Non esplodiamo se non lo schiacciamo. Solo quando Dio instilla il desiderio nel nostro cuore… la nostra forza non è nel corpo, ma nel cuore”. 
Se è difficile comprendere come si possa giustificare e autorizzare un attentato suicida da parte di un uomo, lo è ancora di più qualora si tratti di una donna. Sembrerebbe un controsenso. Invece l’estremismo islamico, che ritiene che la donna debba coprirsi, vivere una vita riservata, muta parere qualora possa diventare uno strumento utile per ottenere un fine, ovvero uno strumento di resistenza. E’ sufficiente leggere una fatwa emessa dallo shaikh Yusuf al-Qaradawi sulle donne kamikaze per comprendere il ragionamento che sottende all’autorizzazione: “L’operazione di martirio è la più alta forma di jihad sulla via di Dio […]una donna ha il diritto di parteciparvi accanto agli uomini” poiché “possono talvolta fare ciò che è impossibile per gli uomini”. Ma la parte più interessante riguarda la questione del velo, di cui al-Qaradawi è sempre stato un estremo fautore: “Per quanto riguarda il velo, una donna può indossare un cappello o qualsiasi altra cosa per coprirsi il capo. Qualora necessario può togliere il velo per portare a compimento l’operazione perché morirà per la causa di Dio e non vuole esibire la sua bellezza o i suoi capelli. Quindi non vedo alcun problema nel togliere il velo in questa occasione”.
È evidente come la donna venga automaticamente esentata dai doveri che dovrebbe assolvere per essere una buona musulmana come si legge nell’articolo 18 dello statuto di Hamas: “La donna, nella casa e nella famiglia dei combattenti, si tratti di una madre o di una sorella, ha il suo ruolo più importante nell’occuparsi della casa e nell’allevare i figli secondo i concetti e i valori islamici, e nell’educare i figli a osservare i precetti religiosi preparandosi al dovere del jihad che li aspetta. Pertanto è necessario prestare attenzione alle scuole e ai programmi per le ragazze musulmane, così che si preparino a diventare buone madri, consapevoli del loro ruolo nella guerra di liberazione. Le donne debbono avere la consapevolezza e le conoscenze necessarie per gestire la loro casa. La frugalità e la capacità di evitare gli sprechi nelle spese domestiche sono requisiti necessari perché ci sia possibile continuare la lotta nelle difficili circostanze in cui ci troviamo. Le donne dovranno sempre ricordare che il denaro equivale al sangue, che non deve scorrere se non nelle vene per assicurare la continuità della vita sia dei giovani sia dei vecchi”. 
Con lo Stato Islamico si è aperta una nuova era in cui si assiste all’apoteosi della strumentalizzazione della donna in quanto madre, moglie, ma anche e soprattutto come corpo al servizio dei combattenti. 
Nel numero 7 della rivista Dabiq compare un’intervista a Umm Basir al-Muhajirah (Madre di Basir l’emigrata) ovvero la moglie di Amedy Coulibaly, uno degli attentatori di Charlie Hebdo. Qui la moglie del “martire” invita le “sorelle” ad aiutare e sostenere “i mariti, i fratelli, i padri e i figli”, a “essere forti e coraggiose” nel sostenere gli uomini della loro famiglia nel loro sforzo verso Allah. Da questo momento la rivista dello Stato Islamico dedica una rubrica alle donne gestita da Umm Sumayyah al-Muhajirah (madre di Sumayyah l’Emigrata). Al pari di Umm Basir ha compiuto l’egira verso lo Stato islamico ed è non solo un modello per le altre musulmane, ma diventa altresì un mentore. Rammenta l’obbligo dell’egira per uomini e donne e narra le storie delle donne che sono migrate abbandonando la “miscredenza” (kufr) in cui vivevano. “Tutte le storie iniziano con la sorella che decide di partire per la causa del suo Signore. Il primo ostacolo che la muhājirah deve affrontare è la famiglia. E chissà che cosa è la famiglia! Nella maggior parte dei casi, le famiglie sono composte da musulmani laici, ai quali proporre l’egira è come sbattere la testa contro una roccia. E’ vero che la loro la sorella è il loro onore ed è loro diritto temere per lei, ma perché e non temono per il loro onore, quando la sorella si vuole recare a Parigi o Londra per una specializzazione”.
Umm Sumayyah ricorda il caso di una “sorella che è partita accompagnata dal marito e fu fermata dai soldati del tiranno (taghut) all’aeroporto dopo che i suoi genitori avevano avvisato la polizia” e si stupisce del fatto che nonostante fosse accompagnata dal suo “guardiano” la polizia l’abbia fermata. Le parole di Umm Sumayya mirano a coinvolgere, a convincere altre donne a migrare e a non avere paura dello Stato islamico che invece garantisce loro i veri diritti in quanto musulmane. Tra questi diritti indubbiamente spicca la poligamia. Umm Salamah, nell’ultimo numero di Dabiq, illustra alle donne che sono migrate e che hanno assorbito valori occidentali che non devono essere gelose, che devono accettare che il proprio marito sposi altre donne: “ogni sorella dovrebbe sapere che quando suo marito vuole sposare un’altra donna, non è obbligato a chiederle il consenso, né chiederle l’autorizzazione, né cercare di accondiscendere alle sue richieste. Se lui attuerà questa scelta sarà per generosità.” 
Non si può tacere il fenomeno del “jihad del matrimonio” poiché se gli uomini che aderiscono allo Stato Islamico abbracciano un’ideologia jihadista, al contempo abbracciano una visione machista del mondo nella quale la donna può essere strumento di attacco e combattente, ma laddove la visione della donna come corpo al servizio dei combattenti non viene esclusa anzi viene esaltata. Se tutte le ideologie dell’islam radicale considerano la donna come corpo, come sedizione, ma in prima istanza come oggetto e strumento di piacere dell’uomo, l’ideologia dell’ISIS può essere considerata l’apoteosi di questa visione. Inoltre al pari del suicidio femminile in nome di Allah, come si è osservato soprattutto nella Fratellanza musulmana, il “jihad al-nikah”, il jihad del matrimonio, viene considerato un modo per purificare il proprio corpo unendosi, anche con matrimonio temporaneo, chi combatte il vero jihad, quello con le armi. Ancora una volta la sottomissione totale ad Allah corrisponde per la donna alla sottomissione all’uomo che svolge un ruolo in prima linea nella vita, nel jihad e nella sharia.
Per concludere, studi recenti evidenziano che alla radice della migrazione femminile verso lo Stato Islamico si trova, come nel caso di quella maschile, anche la ricerca di identità come conseguenza di una mancata integrazione, di carenze affettive e di disagio psico-sociale. Lo stesso disagio, la stessa predisposizione alla manipolazione si riscontra anche nelle donne che aderiscono all’ideologia dell’Isis senza migrare. E’ il caso di Hasna Aït Boulahcen, la donna che è rimasta vittima – o forse si è fatta esplodere – durante il recente blitz a Saint-Denis dopo gli attentati parigini. Hasna, 26 anni, dopo un’infanzia in cui è stata maltrattata da genitori che si sono ben presto separati, è stata data in affido tra gli 8 e i 15 anni a un’altra famiglia. A 15 anni ha abbandona la famiglia che l’ha accolta e ha avviato una vita marcata da droga e alcool. Nell’ultimo anno il cambiamento: niqab e avvicinamento all’islam radicale. Il resto è storia nota.
E’ evidente che la donna, in quanto madre e moglie, potrebbe rappresentare la chiave di volta per arginare la radicalizzazione, ed è per questo motivo che ogni processo di de-radicalizzazione dovrebbe passare attraverso un maggiore monitoraggio e una maggiore integrazione delle musulmane nelle nostre società. Basterebbe passeggiare per le vie di Moelenbeek o di Saint-Denis per comprendere quanto le donne siano la punta dell’iceberg di una ghettizzazione che vede nel loro velo – talvolta integrale – un microcosmo simbolico di un velo ben più spesso che separa certe realtà e quartieri dall’ambiente circostante che viene visto e sentito come ostile.

(Fonte: Valentina Colombo, La nuova bussola quotidiana, 23 novembre 2015)


mercoledì 25 novembre 2015

Ma quel funerale "laico" non è la vera risposta

Commozione, cordoglio, partecipazione. Una grande folla ha assistito al funerale laico – come è stato chiamato – della giovane Valeria Solesin, la ventottenne veneziana morta a Parigi a seguito dell'attentato terroristico del 13 novembre scorso. Hanno parlato il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Patriarca Francesco Moraglia. Per il governo era presente il ministro della difesa Roberta Pinotti, che ha letto un messaggio del presidente francese Hollande.
La salma è stata esposta in una piazza dal nome di un santo cristiano ed evangelista, sullo sfondo di una basilica cattolica. Ma non è stato un funerale cattolico né di altra religione, è stato un funerale «aperto a tutte le fedi», come ha detto il padre della ragazza, compreso l'ateismo, che però non è una fede, ma l’assenza di fede. La volontà della famiglia era - se mi posso permettere un’interpretazione - di contrapporre all’odio e al fanatismo religioso dei terroristi assassini, la ragione e l’apertura tollerante propria non di una fede confessionale, ma di una fede laica nell’umanità. Per questo, così almeno mi sembra di aver capito, il funerale non solo è stato definito “laico” o “con rito civile”, come spesso è accaduto in altri tristi eventi, ma è stata esplicitamente espressa la volontà che fosse aperto a tutte le religioni – anche se in concreto c’è stata la presenza evidente solo di tre di esse – ed anche a visioni non religiose, agnostiche o atee.
La volontà della famiglia va rispettata e con essa il dolore di tante persone, le lacrime e la commozione evidenti in piazza San Marco. All’evento, però, è stato anche attribuito il significato politico di contrasto morale nei confronti del terrorismo. É già stato detto, e lo si dirà ancor di più, che il funerale laico di piazza san Marco è una risposta al terrorismo. Qualcuno si spingerà anche a dire che è la nostra risposta, la risposta dell’Europa, la risposta dell’Occidente. Su questo aspetto, nel rispetto delle buone intenzioni di tutti i partecipanti al funerale, è lecito fare alcune riflessioni.
«Aperto a tutte le fedi». Vien subito da pensare, però, che anche i sanguinari terroristi di Parigi avevano una fede religiosa. Anche la Francia che canta la Marsigliese e nel cui spirito ospita, finanzia e tutela le Femen oppure vuole togliere ogni traccia pubblica del cristianesimo, è una fede. Anche la fede nell'umanità che ha motivato la scelta delle modalità di questo funerale può essere considerata una fede, una credenza in qualcosa di importante e dal valore assoluto. Ma non tutte le fedi credono in questa religione dell'umanità, e non solo l'islam terrorista e violento. Il funerale di Venezia è stato talmente ragionevole da ammettere, in linea di principio, anche le fedi che combattono la ragione e talmente religioso da ammettere, sempre in via di principio, anche le ragioni che combattono la fede.
Questa fede nell’umanità ha i contorni tanto dilatati, imprecisi e generici da essere facile da proclamare, più difficile da definire e impossibile da difendere. Per una fede del genere, così tanto estensiva e così poco intensiva, quanti sono disposti a lottare oltre che cantare la Marsigliese? É proprio questa fede ad alimentare il ventre molle dell’Europa. La risposta europea e occidentale al terrorismo islamista può essere questa indifferenza rispetto alle fedi, ritenute tutte uguali, come le visioni della vita, che oggi quasi tutti equiparano alle fedi religiose, ritenendo le une e le altre prive di ragioni e frutto di sentimento e di scelte private? Anche la lotta al terrorismo ha bisogno di fede e di ragione.
Ma quali l’Occidente non lo sa più. Le telecamere hanno ripreso in piazza San Marco un grande folla. Ma ognuno era lì per il suo Dio, rispondendo a chiamate diverse e ritenute tra loro incommensurabili, perché non ci sarebbe una misura nelle fedi, non una ragione nelle religioni. Sicuramente tutti i partecipanti sono andati per un senso profondo di umanità. Se però interrogati su cosa essi intendessero per umanità avrebbero dato risposte diverse.
Non può essere questa la risposta dell’Europa e dell’Occidente al terrorismo islamista. Se così fosse vorrebbe dire che Europa e Occidente non hanno risposta o, peggio, che risposta non c’è. «Siamo pronti a difendere i nostri valori». Ma su quali siamo veramente concordi e pronti a lottare, se consideriamo tutte le fedi uguali e diverse, comprese anche le visioni laiche della vita fino all’ateismo? Tutt’al più si parla di libertà e di pace, due concetti che, da soli, sono insufficienti per costituire una comunità. Tutt’al più si parla di tolleranza, che se assolutizzata come avviene oggi in Europa e in Occidente, è il concetto più intollerante che ci sia. Tutt’al più si parla di libertà di religione senza sapere in cosa consisterebbe il limite oltre il quale non permetterla più.
Abbiamo bisogno di riscoprire tra noi una vera comunità morale e per farlo bisogna ricominciare un rapporto serio e non qualunquista con le religioni e specialmente con la religione che ha fatto l’Occidente. Non è il cristianesimo ad avere bisogno dell’Occidente, è l’Occidente ad avere bisogno del cristianesimo.

(Fonte: Stefano Fontana, La nuova bussola quotidiana, 25 novembre 2015)


mercoledì 18 novembre 2015

Il monsignore gay e l’ex abate: la doppia morale

Il gossip ecclesiale gode di ottima salute in queste settimane. Cospirazioni sinodali, il caso di monsignor Chamarsa, Vatileaks hanno sfilato di recente sul red carpet di tutti i principali media mondiali. Da ultimo la sete di scandali di giornali e Tv ha trovato appagamento nella notizia che l’ex abate di Montecassino, Pietro Vittorelli, è stato indagato per aver usato in modo indebito 500mila euro, soldi che appartenevano alla Curia. Vittorelli vantava plurime aderenze con esponenti del mondo della politica non proprio immacolati dal punto massmediatico e non solo. 
Ricordiamo Piero Marrazzo, ex governatore della Regione Lazio, il quale si era rifugiato a Montecassino per sfuggire al polverone mediatico-giudiziario scatenatosi per le sue frequentazioni con transessuali, e Angelo Balducci, già presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, arrestato nel febbraio 2010 nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti per le Grandi opere. Dopo l’esperienza monastica don Pietro scoprì la politica. Lo troviamo, infatti, in abiti borghesi nell’ottobre del 2014 ad un convegno organizzato nella sede italiana del Parlamento europeo a Roma, accanto al consigliere regionale del Lazio Mario Abbruzzese e ad Antonio Tajani, primo vicepresidente del Parlamento europeo. Il viso di dom Pietro era però conosciuto anche nell’ambiente gay, dove si presentava con il nome di Marco Venturi. Si vocifera di festini e orge in una casetta sulla Casilina, di pratiche erotiche estreme, di viaggi e cene sontuose, di pernottamenti in hotel pentastellati (a volte le ricevute erano a 4 zeri), nonché di uso di droghe, a cui Vittorelli non avrebbe rinunciato nemmeno dopo un ictus che lo avrebbe lasciato malconcio su una sedia a rotelle. 
Tutte licenze che il Vittorelli-Venturi si concedeva distraendo fondi dell’ordine, destinati - ripetono i media - ai poveri. Insomma l’ex abate è la sintesi perfetta dell’incarnazione del male per la vulgata corrente: un religioso che ruba ai poveri, si dà a pratiche omosessuali, vive sfarzosamente, fa uso di droghe, è amico di politici e uomini danarosi (tra i molti, Lapo Elkan) su cui girano molte voci poco lusinghiere ed è pure indagato. Eppure, ci vien da dire, il giudizio sulle condotte oggettivamente riprovevoli di dom Pietro è un tantino ipocrita. Si rabbrividisce di fronte ai suoi festini a luci rosse. Ma la libertà sessuale secondo i cliché correnti non dovrebbe essere concessa a tutti, religiosi compresi? Per la cultura laica se Dio non esiste così come i suoi precetti sulla castità, perché vietare godimenti venerei ai sacerdoti? Nei giornali patinati in allegato ai quotidiani è tutto un florilegio del sesso libero da tabù, di triangoli amorosi, di scappatelle e orgette con effetto catartico sulla psiche e la vita di coppia. Perché negarlo anche a chi ormai è un ex prete? 
Si grida “Vergogna!” perché dom Pietro frequentava bei maschioni. Eppure quei giornali che sbattono in prima pagina le vicende di Vittorelli sono gli stessi che berciano in continuazione sulla normalità di ogni orientamento sessuale. E che dire poi della presunta tossicodipendenza dell’ex abate? Il governo e molti esponenti politici è da tempo che spingono per una liberalizzazione dei trip a base di droghe.
In breve, il caso Vittorelli mette in luce che ci sono vizi e vizi, peccati cattolici e peccati laici. Prendiamo ad esempio la vicenda del “collega” Chamarsa.  Questi dai media è stato trattato bene, anzi benissimo, spesso elogiato per quel suo ormai famigerato outing. Perché Chamarsa aveva rispettato alcune regole auree del politicamente corretto: non era stato scoperto con le mani nella marmellata, ma era stato lui per primo ad aprire il vaso di Pandora; appariva come vittima di una Chiesa conservatrice e retriva e pioniere del nuovo che avanza in campo dottrinale, non aveva mai rubato (peggior peccato mortale in questa nuova chiesa dei pauperisti) e la sua relazione omosessuale non aveva il baricentro sulla voglia di trasgressione, bensì sull’ “affetto”. Insomma nel salotto del mondo che conta si presenta bene Chamarsa, con l’abito buono.
Il raffronto tra Vittorelli e Chamarsa è allora illuminante. A ben vedere non importa di quali nefandezze si macchia un prelato, ma è questione di stile. Importa il come, non il cosa. In altri termini non esiste una dose minima di peccato ad uso personale che non suscita riprovazione sociale. Dose, superata la quale, scatta la censura e la lacerazione di vesti. Tu uomo in talare puoi comportarti come i tuoi omologhi laici in fatto di sesso e sballo, l’importante è rispettare le regole del gioco dettate dalla vulgata corrente. Rivendica per te il piacere erotico in ogni sua declinazione come sana espressione della tua personalità e scamperai alla censura. Non farti scoprire nel godere di ogni bassezza edonistica, ma vendila come conquista sociale e rivendicala come gesto di libertà. Vivi pure di istinti, ma vestili con i panni nobili dei diritti civili. Si badi bene. Non è stata questa una difesa di Vittorelli, ma solo prurito per l’incoerenza di giudizio.


(Fonte:Tommaso Scandroglio, La nuova bussola quotidiana, 17 novembre 2015)


giovedì 12 novembre 2015

Il dialogo in famiglia sostituito da Tv e smartphone

Nell'udienza generale dell'11 novembre 2015, proseguendo il ciclo sulla famiglia, Papa Francesco ha proposto una meditazione sulla convivialità. La famiglia cristiana, ha detto Francesco, si ritrova a tavola, dove si parla, si prega, si condividono gioie e dolori. Ma troppo spesso oggi la tavola è il luogo di un rapporto sbagliato con il cibo, condizionato dalla pubblicità e dalle mode, e di un «silenzio dell'egoismo» coperto dalla televisione o dagli smartphone. La convivialità, ha spiegato il Papa, è «l’attitudine a condividere i beni della vita e ad essere felici di poterlo fare». 
In generale, «condividere e saper condividere è una virtù preziosa! Il suo simbolo, la sua “icona”, èla famiglia riunita intorno alla mensa domestica. La condivisione del pasto – e dunque, oltre che del cibo, anche degli affetti, dei racconti, degli eventi… – è un’esperienza fondamentale». Nella festa, e qualche volta nel lutto, ritrovarsi intorno a una tavola manifesta il senso di essere una famiglia. La convivialità «è un termometro sicuro per misurare la salute dei rapporti: se in famiglia c’è qualcosa che non va, o qualche ferita nascosta, a tavola si capisce subito. Una famiglia che non mangia quasi mai insieme o in cui a tavola non si parla, ma si guarda la televisione o lo smartphone è una famiglia “poco famiglia”. Quando i figli a tavola sono attaccati al computer, al telefonino, e non si ascoltano fra loro, questo non è famiglia, è un pensionato». 
Gesù stesso «insegnava volentieri a tavola» e le sue parabole usano spesso l'immagine del convito. Tutto questo ha preparato i discepoli all'esperienza sconvolgente del sedere alla tavola imbandita del Corpo e del Sangue di Cristo nel giorno dell'istituzione dell'Eucarestia. È anche in questo senso che «la famiglia è “di casa” alla Messa, proprio perché porta all’Eucaristia la propria esperienza di convivialità e la apre alla grazia di una convivialità universale, dell’amore di Dio per il mondo. Partecipando all’Eucaristia, la famiglia viene purificata dalla tentazione di chiudersi in sé stessa, fortificata nell’amore e nella fedeltà, e allarga i confini della propria fraternità secondo il cuore di Cristo».Oggi la convivialità diventa ancora più importante. «In questo nostro tempo, segnato da tante chiusure e da troppi muri, la convivialità, generata dalla famiglia e dilatata dall’Eucaristia, diventa un’opportunità cruciale. L’Eucaristia e le famiglie da essa nutrite possono vincere le chiusure e costruire ponti di accoglienza e di carità». 
Sì, «l’Eucaristia di una Chiesa di famiglie, capaci di restituire alla comunità il lievito operoso della convivialità e dell’ospitalità reciproca, è una scuola di inclusione umana che non teme confronti! Non ci sono piccoli, orfani, deboli, indifesi, feriti e delusi, disperati e abbandonati, che la convivialità eucaristica delle famiglie non possa nutrire, rifocillare, proteggere e ospitare». Attraverso la «memoria delle virtù familiari» può nascere uno sguardo nuovo sui problemi della società. Tutti «abbiamo conosciuto, e ancora conosciamo, quali miracoli possono accadere quando una madre ha sguardo e attenzione, accudimento e cura per i figli altrui, oltre che per i propri. Fino a ieri, bastava una mamma per tutti i bambini del cortile! E ancora: sappiamo bene quale forza acquista un popolo i cui padri sono pronti a muoversi a protezione dei figli di tutti, perché considerano i figli un bene indiviso, che sono felici e orgogliosi di proteggere».
I tempi, si dirà, sono cambiati: ed è vero. «Oggi molti contesti sociali pongono grandi ostacoli alla convivialità familiare. È vero, oggi non è facile». Eppure «dobbiamo trovare il modo di recuperarla: a tavola si parla, a tavola si ascolta. Niente silenzio, quel silenzio che non è il silenzio delle monache, è il silenzio dell’egoismo: ognuno ha o la sua televisione o il suo computer… e non si parla. No, niente silenzio. Recuperare quella convivialità familiare pur adattandola ai tempi». Attenzione, però. «La convivialità sembra sia diventata una cosa che si compra e si vende, ma così è un’altra cosa. E il nutrimento non è sempre il simbolo di una giusta condivisione dei beni, capace di raggiungere chi non ha né pane né affetti. Nei Paesi ricchi siamo indotti a spendere per un nutrimento eccessivo, e poi lo siamo di nuovo per rimediare all’eccesso con le diete. Quella che una volta era vera convivialità familiare, «la pubblicità l’ha ridotta a un languore di merendine e a una voglia di dolcetti».
L'icona della convivialità è l'Eucarestia. «Il Signore spezza il suo Corpo e versa il suo Sangue per tutti. Davvero non c’è divisione che possa resistere a questo Sacrificio di comunione; solo l’atteggiamento di falsità, di complicità con il male può escludere da esso». Occorre ricreare un circolo virtuoso fra la convivialità familiare e la convivialità eucaristica. «L’alleanza viva e vitale delle famiglie cristiane, che precede, sostiene e abbraccia nel dinamismo della sua ospitalità le fatiche e le gioie quotidiane, coopera con la grazia dell’Eucaristia, che è in grado di creare comunione sempre nuova con la sua forza che include e che salva».
  
(Fonte: Massimo Introvigne , La nuova bussola quotidiana, 11 novembre 2015