giovedì 29 ottobre 2009

Purezza del cuore o sesso senza regole, in nome di un fantomatico "Amore"?

Non possiamo certo ignorare la situazione di degrado morale che caratterizza la nostra società del benessere. In fatto di vita morale, ci troviamo oggi a livello di quella descritta da san Paolo nella Lettera ai Romani: «Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa» (1,26-32).
Un quadro purtroppo quanto mai attuale!
La nostra cultura moderna, di estrazione illuministica, laica e relativistica, ritiene infatti che la sessualità sia libera da ogni norma morale e che possa essere esercitata liberamente dai singoli soggetti. Alla base di tutto si rivendica un diritto illimitato della persona: il diritto di essere arbitro delle proprie decisioni e delle proprie azioni. Una libertà radicale che riguarda anche la sessualità: la libertà sessuale è infatti rivendicata al pari della libertà di manifestare il proprio pensiero, della libertà di stampa o di fare le proprie scelte.
Oggi il pensiero laico, e talvolta anche quella cristiano-cattolico (dove di cristiano è rimasto poco o niente), cercano di giustificare, in qualche modo, la sessualità e la libertà sessuale, affermando che l’“amore”, elemento guida e unico ispiratore del cuore umano, giustificherebbe qualunque comportamento e qualunque relazione, fuori e dentro il matrimonio, purché concorrano ad appagare le aspirazioni personali in termini di piacere e di felicità; in una parola purché siano finalizzate al coronamento del grande “Amore”, quello con la maiuscola.
La filosofia che sorregge questa tesi è chiara: dove c’è “amore vero” non c’è peccato (ma sai quanti "amori veri" si finisce per inseguire in una vita!). Nulla può essere vietato, in campo sessuale, in presenza dell’amore. Anche i rapporti contro natura, omosessuali, sono più che mai leciti e giustificati quando due persone “si amano”, e cercano di coronare il loro amore.
Una prova? Quante volte abbiamo sentito e continuiamo a sentir sbandierare nei salotti televisivi per bocca dei soliti “opinionisti” che in presenza dell’amore tutto è permesso in campo sessuale, tutto è giustificabile, qualunque sia il tipo di rapporto, qualunque il partner, fisso od occasionale, maschio o femmina che sia!
E ciò viene dichiarato e difeso con una disinvoltura e una naturalezza che ci lasciano interdetti, come se la legge data da Dio per decidere della qualità positiva o negativa di una scelta, di un’azione, fosse l’amore libero (di volta in volta assolutizzato) e non la norma oggettiva.
Una libertà che è sostenuta a spada tratta dalle correnti radicali e libertarie della cultura laica imperante che nella sfera sessuale umana contesta e rifiuta i valori di matrimonio, di famiglia, di monogamia, di fedeltà, ed esalta e pubblicizza convivenze ad ogni livello, libero amore con libero scambio, mediante l’affrancamento da ogni regola morale, ritenuta peraltro una «gabbia» dell’amore umano, un’istituzione coercitiva della libertà della persona.
Purtroppo però questa ideologia laicista non è più sola: vi è pure una nutrita rappresentanza di sedicenti cattolici che l’accarezzano benevolmente; vi sono politici di documentata estrazione cattolica, etichettati oggi con nomi che vanno molto di moda (catto-comunisti, teocom ecc…) i quali, pur essendo stati eletti con il preciso mandato di salvaguardare i principi inalienabili della fede cattolica, si rivelano invece preoccupati di difendere la loro poltrona, appoggiando pubblicamente, senza ritegno e vergogna alcuna, situazioni e soluzioni legislative assolutamente ambigue, inaccettabili dalla morale cattolica.
In questo senso, la Chiesa cattolica giudica improponibile e quindi illecita, anche per le gravi conseguenze sociali che ne deriverebbero, questa teoria illusoria del “grande amore”, che tutti devono e possono perseguire, in quanto riconducibile ad una sfrenata libertà sessuale, ad un grave disordine morale.
La lontananza di questo principio dagli insegnamenti evangelici è infatti incalcolabile.
«Beati i puri di cuore», proclama Gesù nel suo Vangelo. Ed è su questa certezza che la Chiesa fonda il suo giudizio morale.
«La cosiddetta “permissività dei costumi” si basa [infatti] su una erronea concezione della libertà umana. La libertà, per costruirsi, ha bisogno di lasciarsi educare preliminarmente dalla legge morale». «Il cuore è la sede della personalità “morale”; la lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza». «Il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell’impegno definitivo dell’uomo e della donna tra loro». Per questo «la purezza cristiana richiede una purificazione dell’ambiente sociale. Esige dai mezzi di comunicazione sociale una informazione attenta al rispetto e alla moderazione. La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l’illusione». (Cfr. CCC, nn. 2514-2526).

(Mario, 28 ottobre 2009)

Il “Policlinico Gemelli” e l’uomo che ha fatto l’impresa. Più fortunato di Boffo

A mezzo secolo giusto dalla posa della prima pietra di quello che è oggi il “Gemelli”, cioè il grandioso complesso romano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, col policlinico e la facoltà di medicina, l’editrice Vita & Pensiero ne racconta la storia e il “sogno” in un libro-intervista con colui che è stato ed è il suo dirigente chiave: Antonio Cicchetti. (Cfr. “Il «Gemelli». Dal sogno di un francescano all’ospedale del futuro“, intervista a Antonio Cicchetti, a cura di Cristina Stillitano, Vita & Pensiero, Milano, 2009, pp. 192, euro 15,00).
Cicchetti e persona ignota al vasto pubblico. Ma il suo racconto semplicemente sbalordisce. Vi si riconosce la stoffa del grandissimo imprenditore, di quelli alla Enrico Mattei. Con una sua originalità spiccata: per il campo d’impegno, la sanità, e per l’orizzonte ispiratore, la Chiesa. La poderosa crescita del Gemelli, al passo e spesso in anticipo sugli sviluppi della modernità, è un’epopea che non è consentito ignorare, per chi volesse ricostruire il cammino della cattolicità italiana dal dopoguerra a oggi.
Ma c’è qualcosa che nel libro non c’è, e giustamente, che invece può trovar posto in questo foglio a margine.
Dal giugno del 2004 Cicchetti è direttore amministrativo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ne è cioè il suo manager supremo, al fianco del rettore, Lorenzo Ornaghi, in carica dal 2002.
Ma la loro ascesa al vertice non è stata affatto pacifica. Ornaghi e Cicchetti erano il ticket che il cardinale Camillo Ruini, presidente della conferenza episcopale italiana, voleva a capo del maggiore istituto culturale della cattolicità italiana. Erano il “progetto culturale” che avrebbe preso corpo nell’università e nel policlinico.
L’opposizione alla loro presenza al vertice della Cattolica è stata intensissima. E brutale. Cicchetti fu il primo contro il quale furono fatte circolare, a più riprese, delle carte anonime volte a infangare la vita privata. Lo stesso avvenne per Ornaghi. E lo stesso per Dino Boffo, direttore dei media della CEI.
L’epicentro dello scontro era il Toniolo, l’istituto “proprietario” della Cattolica di cui fanno parte tuttora Ornaghi e Boffo, presieduto fino al 2003 dal senatore Emilio Colombo.
Assieme ad Oscar Luigi Scalfaro, anche lui nel Toniolo, il senatore Colombo era avversario tenace delle candidature di Ornaghi e Cicchetti. Davano loro man forte in Vaticano il cardinale Angelo Sodano, all’epoca segretario di Stato, e in Cattolica, attivissimo, l’allora direttore amministrativo, Carlo Balestrero.
Un’indagine su Emilio Colombo per uso di cocaina e la sua pubblica ammissione accompagnarono l’uscita sua e di Scalfaro dal Toniolo. Presidente dell’istituto divenne il cardinale Dionigi Tettamanzi, d’intesa con Ruini e a danno di Sodano. A Balestrero subentrò Cicchetti e nel 2006 Ornaghi fu confermato rettore per un secondo mandato.
Ma i fogli anonimi contro i tre hanno continuato a circolare, appuntandosi da ultimo soprattutto contro Boffo. L’ultima loro diffusione in centinaia di copie, recapitate anche ai vescovi, risale alla scorsa primavera. Il seguito è noto. Almeno in parte.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 27 ottobre 2009)

Un D’Avanzo per Marrazzo

Maurizio Gasparri augura al governatore del Lazio di uscirne immacolato. Però si concede dieci fatidiche domande stile Repubblica e le rovescia addosso alla sinistra “moralista un tanto al chilo”. Ma nessuna richiesta di dimissioniPremessa: “Auguro a Piero Marrazzo di uscirne immacolato”. Svolgimento: “Adesso però si deve applicare la par condicio. Silvio Berlusconi è stato crocifisso per una storia che non aveva nessun rilievo penale, mentre su questa vicenda di ricatti, transessuali e viteotape, la stampa conformista si è tutta schierata in una singolare difesa d’ufficio del governatore del Lazio. Io vorrei sapere dove sono finiti i moralisti della sinistra? S’avanzi Giuseppe D’Avanzo!”. Maurizio Gasparri non è certo noto per l’uso diplomatico di eufemismi, dice le cose come le sente, con candida veracità. E parlando con il Foglio alterna accenti di garantismo a uno stupore sardonico, e biblicamente vendicativo, nei confronti dei quotidiani che ieri mattina “si sono affrettati a difendere Marrazzo senza interrogarsi sui lati oscuri e inquietanti di questa vicenda”. Che vicenda? Nella sintesi giornalistica di Libero: “Piero Marrazzo, governatore del Lazio, è stato ricattato per mesi. Un video hard, dove sarebbe in compagnia di un transessuale, è passato di mano in mano, fino ad arrivare a quattro carabinieri che lo avrebbero ricattato”.
Così l’ex ministro delle Comunicazioni, e capogruppo del Pdl al Senato, suggerisce ai cronisti investigativi (“e moralisti un tanto al chilo”) dieci domande sul sex gate laziale. Gasparri si ispira a un format assurto a discreta fortuna in tempi recenti: “Marrazzo è stato ricattato e perché? Ha pagato? Quanto ha pagato? Può fare il presidente della regione una persona sotto ricatto? Marrazzo aveva denunciato i ricattatori? Che c’è in questo video di cui si legge? Alcuni giornali scrivono di singolari incontri e circolano le voci più disparate. Marrazzo è in grado di smentire questi fatti? E’ vittima di un attacco a base di menzogne o no? E certi giornali, che su altri fronti si sono rivelati implacabili custodi della moralità pubblica, faranno su Marrazzo le inchieste che hanno dedicato ad altri argomenti?”.
Gasparri dice di non avere niente di personale contro Piero Marrazzo, “in questa storia lui è l’anello debole. Non lo giudico. Io me la prendo con gli indignati speciali della sinistra che lo difendono senza neanche fare il loro mestiere di cronisti. Insomma, qua siamo di fronte a una disparità di trattamento enorme quanto un grattacielo: c’è una persecuzione basata sul nulla che non accenna a placarsi, mentre per Marrazzo è scattata la difesa d’ufficio. Non solo. Il noto caso che riguarda la vita privata del premier non ha alcun rilievo penale, non si è mai configurato nessun genere di reato. Qui invece si parla esplicitamente di estorsione: c’è un uomo politico di rilievo, con grandi responsabilità, che forse era nelle mani di alcuni malfattori. Vista la gravità del reato, dobbiamo anche capire se il presidente della regione Lazio aveva denunciato alla polizia di essere sotto ricatto. Parrebbe di no. L’opinione pubblica ha diritto a essere informata, oppure si fa come le tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo? Ora che dicono i dichiaratori di professione? Se i giornali non sono interessati a sapere se il governatore del Lazio subiva ricatti e pagava il silenzio di alcuni carabinieri corrotti, allora penso che un uomo politico come me sia autorizzato a fare delle domande. Adesso mi aspetto di vedere le foto, il video e poi, anche un po’ di indignazione da parte della stampa estera non guasterebbe”.
Al governatore ieri sono arrivati ampi, e bipartisan, attestati di solidarietà. Antonio Di Pietro, lasciandosi andare forse un po’ troppo, ha finito col rovesciare tutto se stesso con queste parole: “Ritorna il problema di fondo che sta sporcando la politica italiana di questi ultimi anni. Cioè il sistema di dossieraggio, di veline, di criminalizzazione per liberarsi degli avversari politici che vengono indeboliti sul piano personale”. Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, si è rivolto a Marrazzo: “Gli esprimo solidarietà perché la merita come tutte le persone oggetto di ricatto o estorsione”. Commenta Gasparri: “Ho parlato con Alemanno e lui ha fatto bene a dire così. Il sindaco deve avere un atteggiamento di prudenza istituzionale e poi Gianni non è certo uno dei moralisti a senso alternato che popolano il centrosinistra. Ma io non faccio il sindaco della Capitale. Non dico neppure che Marrazzo si deve dimettere, come farebbe la sinistra se a trovarsi in questa spiacevole situazione non fosse uno dei loro, mi chiedo soltanto se è stato deciso che questa storia debba finire qui”. Così fosse – pensa il senatore – “si certificherebbe la natura pretestuosa del moralismo dei D’Avanzo e di Repubblica”. Ieri la Consulta giuridica del Pdl si è appellata all’opposizione perché collabori a una riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario sulla scorta della bozza Violante. “Il problema è capire se l’opposizione è in grado di superare i propri complessi – dice Gasparri – Sugli interventi di legge ordinaria andiamo avanti da soli. Se poi si vorrà mettere un freno alla ventennale persecuzione giudiziaria ai danni Silvio Berlusconi non si dovrà avere paura”.

(Fonte: Il mascellaro, 24 ottobre 2009)

Scalfari il megalomane risale in cattedra: “Papa Benedetto? Un modesto teologo”

Affogata in una pagina in cui Eugenio Scalfari attacca senza fioretto ma con la sciabola il cardinale Angelo Bagnasco, la frase non può comunque sfuggire.
Il Papa, scrive su L’espresso, «è un modesto teologo che fa rimpiangere i suoi predecessori». Per l’ex-tutore dell’Ortodossia cattolica, che proprio per la sua alta statura teologica Giovanni Paolo II volle alla guida dell’antico Sant’Uffizio, è un’accusa pesante ma più ancora sorprendente. E infatti subito insorgono sdegnati Avvenire e i Papa-boys sul loro blog.
A Scalfari sono piaciuti gli «esemplari» Giovanni XXIII, Paolo VI e Karol Wojtyla, ma Joseph Ratzinger non gli sembra all’altezza del soglio pontificio. E sceglie di colpirlo non sul piano pastorale, o sul suo insegnamento o sui suoi comportamenti, ma sul livello teologico. Proprio dove, da ammiratori e contestatori, è ritenuto inattaccabile.
Per il fondatore di Repubblica la sua «modestia» in scienza divina, gli impedisce l’accesso al club ristretto dei grandi Papi, quelli che «combattevano guerre e non soltanto di religione, ma di potere». Con lui, secondo Scalfari, nella Chiesa italiana si respira una «aura untuosa», tra valeriana e tisane alla verbena, che il presidente della Cei riflette bene. Soprattutto quando Bagnasco entra nelle lotte interne tra Curia e gerarchia ecclesiastica, e osa definire «inaccettabile» la proposta di un’ora di religione islamica a scuola.
Dicono che Scalfari parli con Dio e certo ha le sue fonti molto in alto, ma sulla levatura teologica di Joseph Ratzinger sembra proprio che abbia preso una bufala.
«Si può criticare Benedetto XVI, ma non si può assolutamente affermare che Joseph Ratzinger sia un modesto teologo», scrive il «paparatzingerblog». Mentre Avvenire titola un breve pezzo: «Ci sono giornalisti che sono e sanno tutto». Per ironizzare sul fatto che da quel pulpito Benedetto XVI può essere raccontato ai comuni mortali come un «modesto teologo». La «lezione» di Scalfari, per il quotidiano dei vescovi, è viziata dagli eccessi di chi ha un ego smisurato e racconta quello che la Chiesa è ed è stata per l’Italia e per il mondo, con «una tirata sentenziosa e smisurata», «scritta con l’acido della supponenza e l’approssimazione biliosa del sussiego». Insomma, gli attacchi al Papa e a Bagnasco sono frutto di «pomposa e insultante superficialità».
Non basta, perché per confutare quel «modesto teologo» scagliato contro Ratzinger, Avvenire fa solo un nome en passant, per chi volesse approfondire: quello del «professorucolo Habermas». Chi è costui? Solo l’ultimo rappresentante della Scuola di Francoforte, uno dei maggiori filosofi razionalisti laici del nostro tempo. Un ateo e di sinistra, che nel 2004 rispose all’appello del cardinal Ratzinger per un confronto sull’attacco laicista alla Chiesa. E lo fece in un memorabile dialogo all’Accademia Cattolica di Monaco di Baviera. Un innegabile riconoscimento del livello teologico del futuro Papa. E nel libro «Etica, religione e Stato liberale», pubblicato su quel confronto, Ratzinger e Habermas sono presentati come i campioni l’uno del pensiero cattolico e l’altro del pensiero laico. Ma forse per convincere Scalfari ci vuole altro.
«Paparatzingerblog», il sito cattolico che monitora quotidianamente quello che viene scritto su Benedetto XVI, apre una pagina illustrata con l’immagine di San Sebastiano trafitto dai dardi. E cita gli innegabili successi editoriali di Ratzinger teologo: 178 titoli, più il libro «Gesù di Nazaret» e le prime 3 encicliche, diffuse in milioni di copie e in cima a tutte le classifiche. A Scalfari si consiglia di leggere lo «straordinario discorso sui fondamenti della cultura» rivolto l’anno scorso da Benedetto XVI agli Accademici di Francia. Quello che non pronunciò alla «Sapienza» di Roma, quando Scalfari appoggiò quei professori che si opposero alla visita

(Fonte: Il Giornale, 25 ottobre 2009)

La Cattolica impari dal professor Lombardi Vallauri

Con spettacolare ribaltamento di tutte le precedenti sentenze, il 20 ottobre la corte europea di Strasburgo ha accolto il ricorso del professor Luigi Lombardi Vallauri contro la sua estromissione dalla cattedra di filosofia del diritto nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, decisa nel 1998 per manifesta incompatibilità tra il suo insegnamento e la dottrina della Chiesa.
Sul “Corriere della Sera” del giorno dopo, il suo collega di cattedra Marco Ventura ha sciolto un inno alla sentenza e al sentenziato. Il quale ha un albo di famiglia supercattolico. Ebbe uno zio gesuita, Riccardo Lombardi, che tutti chiamavano “microfono di Dio”. Ha un cugino, Federico, anch’egli gesuita e direttore della sala stampa, della radio e della tv vaticane.
Ma per capire che qualcosa non quadri, non occorre essere filosofi del diritto come Lombardi Vallauri (che era ed è ordinario a Firenze, mentre in Cattolica insegnava in sovrappiù, con contratto annuale). Basta un briciolo di senso comune.
Qui di seguito c’è un estratto di un’intervista da lui data a “L’espresso” poco dopo il mancato rinnovo del suo contratto in Cattolica. Lo spunto era l’inferno, ma l’intervistato si allargò parecchio, fino a uno strepitoso: “Gesù era cattivissimo”.
Non è chi non veda come di cattolico non ci sia più nulla, nelle tesi del professore. L’Università del Sacro Cuore ha semplicemente fatto quello che farebbe, obbligatoriamente, una scuola statale Montessori con un suo insegnante che si sia convertito al metodo steineriano.
Ecco qui di seguito il distillato dell’intervista, da “L’espresso” del 19 novembre 1998:
«D. – Professore, cosa ha detto di così eretico sull’inferno?
R. – Ho detto e dico, come giurista, che è una colossale ingiustizia. Contraria a tutti i principii del diritto moderno, compresa la costituzione italiana. Invece che rieducare il reo, come sarebbe giusto, l’inferno lo condanna a una pena eterna, senza scampo. Nemmeno Dio esce bene da questo suo parto. Fa la figura di un padre che chiude i suoi figli reprobi in una stamberga orrenda e poi butta via la chiave, per sempre! L’inferno decreta il fallimento totale della pedagogia di Dio.
D. – Ma il dannato l’inferno se lo cerca lui, dice il catechismo…
R. – Ma non c’è proporzione. L’inferno cattolico è una pena troppo smisurata in rapporto alle colpe commesse. Prendiamo Hitler, immaginiamo di dargli 10 anni di pena per ognuno dei 6 milioni di ebrei sterminati. Ma dopo 60 milioni di anni di tormento, anche per lui chiunque direbbe: basta! E invece no. L’inferno va avanti per l’eternità. Un ergastolo di sofferenza che non ha più fine. Per quali colpe poi? Lasciamo stare Hitler e pensiamo ai peccati bagatella.
D. – Peccati cosa?
R. – Il bacio, ad esempio. Quello tranquillo, “sine periculo pollutionis”. Papa Alessandro VII Chigi, nel 1666, emanò un decreto per definire che era peccato mortale, ovvero passibile d’inferno. No, no. Proprio non c’è proporzione. Al limite, meglio il rogo degli eretici.
D. – Come, meglio?
R. – Papa Leone X Medici, nel 1520, arrivò a sentenziare che “comburi ereticos” corrisponde alla volontà dello Spirito Santo. Ma il rogo di Giordano Bruno fu roba di pochi minuti. Niente in confronto con il rogo infernale, che non si ferma più. Ma c’è ancora di peggio: l’inferno comminato per una colpa neppure commessa.
D. – Intende il peccato originale?
R. – Sì. Il peccato di Adamo ed Eva imputato a tutti gli uomini, che senza il battesimo finirebbero dritti all’inferno, compresi i bambini. Il peccato originale è una invenzione cattolica, di sant’Agostino. Fatta per giustificare il battesimo. Dato che tra il battezzato e il non battezzato non si vede alcuna differenza, perché sia l’uno che l’altro continuano a far fatica, a concupire, a morire, insomma a condividere le stesse condizioni assegnate dall’Antico Testamento all’umanità decaduta, ecco la trovata del peccato originale. È lì la differenza tra chi è battezzato e chi no: il battesimo lo toglie e quindi salva, mentre senza il battesimo si va comunque all’inferno.
D. – Ma l’inferno non è un’invenzione della Chiesa cattolica. C’è nei Vangeli.
R. – Certo. Il solo Vangelo di Matteo parla 23 volte di tenebre, di fuoco eterno, di verme, di Geenna, di pianto e stridor di denti. Gesù era completamente dominato dall’idea dell’inferno. Altro che buona novella! La sua novella è la più spaventosa che mai sia stata annunciata all’uomo. Ma tutti se lo sono scordati. Si dice che Gesù era buono e caso mai è la Chiesa a essere cattiva. Sbagliato. Gesù era cattivissimo».
[Allora: ha sbagliato la Cattolica a togliere la cattedra ad un siffatto professore o ancora una volta Strasburgo ha dato prova di non aver capito proprio nulla?].

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 21 ottobre, 2009)

Firenze, Don Santoro sfida il vescovo e sposa la donna nata uomo

Sandra Alvino 64 anni, nata uomo e ora donna, e Fortunato Talotta, 58 anni, si sono sposati davanti a don Alessandro Santoro, il parroco della comunità delle Piagge, un quartiere alla periferia di Firenze. I due, già sposati civilmente da 25 anni, non hanno pronunciato il classico 'si'' ma si sono scambiati gli anelli e hanno ricevuto la benedizione dal sacerdote al quale da molto tempo avevano chiesto di potersi unire in matrimonio in chiesa.
Due anni fa il matrimonio religioso venne bloccato dall' allora arcivescovo di Firenze, cardinale Ennio Antonelli e, secondo quanto si è appreso, anche l'attuale vescovo, Giuseppe Betori avrebbe chiesto a don Santoro di non fare la cerimonia. Secondo la Chiesa il loro matrimonio non è valido in quanto il canone 155 del diritto canonico richiede l'eterosessualità. Alvino, oltre 30 anni fa, si sottopose ad un'operazione per il cambio di sesso. Testimoni dei due sposi sono stati Massimo Caponnetto, figlio dell'ex giudice di Palermo Antonino e la moglie Gianna Barucci. Entrambi conoscono gli sposi e don Santoro da molti anni. La cerimonia si è svolta nei locali della comunità davanti a circa 200 persone molte delle quali non sono riuscite a trattenere le lacrime durante la lunga omelia.
"Sandra e Fortunato, così come il sottoscritto, sono consapevoli che, quando l'atto sacramentale di matrimonio arriverà in diocesi, verrà annullato, ma non sarà annullato per noi, per questa comunità, agli occhi di Dio", ha detto don Alessandro Santoro, prima di impartire la benedizione finale del matrimonio. Santoro ha voluto chiudere la lunga celebrazione con una canzone di Fabrizio De André, 'Smisurata preghiera', quasi per fare proprie le parole del cantautore "in direzione ostinata e contraria". Un modo per dire di essere consapevole che anche per lui, quasi certamente, ci saranno delle conseguenze. "Ma io, da sempre, ho obbedito fino in fondo a questa comunità, così come obbedirò - ha aggiunto riferendosi alla curia ed al vescovo Giuseppe Betori - da domani a qualunque cosa sarà decisa".
Quindi, rivolgendosi alla sua comunità, ha aggiunto: "non permetterò a nessuno di fare niente che sia in senso contrario a ciò che verrà deciso". Poi, prima di salutare gli sposi ai quali la comunità ha preparato un rinfresco, ha detto: "Ora ho bisogno di rimanere da solo". Più volte durante l'omelia Don Santoro si è fermato, chiaramente emozionato, ribadendo che la decisione di celebrare il sacramento "non è per fare un gesto di rottura e di ribellione e di 'sfida' nei confronti dell'autorità della Chiesa ma per fare un gesto di fedeltà e di obbedienza profonda a Dio e al vostro amore, un gesto di accoglienza e di verità". La decisione della Chiesa, per la quale "gli atti canonici sarebbero nulli, ed hanno il potere per dichiararlo", secondo il parroco delle Piagge "é sbagliata" e, citando don Lorenzo Milani, ha proseguito spiegando che "si è veramente obbedienti solo quando si ha il coraggio della franchezza e dell'accoglienza". Tuttavia la decisione della Chiesa "non cambia la realtà: voi siete una coppia di credenti - ha aggiunto - che vive nella chiesa il suo essere coppia e questo il Dio della Vita benedice e accarezza". Nel corso dell'omelia il sacerdote oltre a don Milani ha citato Alex Lang, il leader dei Verdi suicidatosi 14 anni fa a Firenze, il vescovo Tonino Bello "uno dei pochi vescovi italiani che probabilmente aveva un briciolo di fede", l'arcivescovo brasiliano Helder Camera e Fabrizio De André.
A seguito di ciò l’arcivescovo di Firenze monsignor Giuseppe Betori ha sollevato don Santoro dalla cura pastorale della “comunità delle Piagge” e gli ha chiesto di "vivere un periodo di riflessione e di preghiera". Secondo la diocesi, ieri mattina si è compiuta "la simulazione di un sacramento, ponendo un atto privo di ogni valore ed efficacia, in quanto mancante degli elementi costitutivi del matrimonio religioso che si voleva celebrare". "Tale simulazione è stata posta in atto da don Alessandro Santoro in contrasto con le disposizioni più volte dategli dai superiori", ah spiegato Betori puntualizzando che "l’atto assume particolare gravità in quanto genera inganno nei riguardi delle due persone coinvolte, che hanno potuto ritenere di aver celebrato un sacramento laddove ciò era impossibile, nonchè sconcerto e confusione nella comunità cristiana e nell’opinione pubblica, indotta a pensare che per la Chiesa siano mutate le condizioni essenziali per contrarre matrimonio canonico".
Secondo Betori, "gesti come quello posto da don Alessandro Santoro contraddicono il ministero di pastore di una comunità, per la quale il sacerdote deve rappresentare la voce autentica dell’insegnamento dottrinale e della prassi sacramentale della Chiesa cattolica". "All’arcivescovo di Firenze - ha, infine, concluso la nota - non resta pertanto che riconoscere con dolore e preoccupazione questo dato di fatto e, come preannunciato allo stesso don Santoro, sollevarlo a partire da questo momento dalla cura pastorale della comunità delle Piagge che gli era stata formalmente affidata come cappellania il 14 settembre 2006, ma presso la quale egli ha svolto azione pastorale fin dal 1994".

(Fonte: Il Giornale, 26 ottobre 2009)

«Basta far politica sull’altare». Il Vaticano frena il prete rosso

Il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone scrive una lettera pubblica per bacchettare don Paolo Farinella, il prete contestatore di Genova, celebre per le sue stravaganti liturgie, le omelie-comizio e iniziative a dir poco singolari come quella di attribuire alla Madonna di Lourdes una dichiarazione di voto («turandosi il naso») in favore di Walter Veltroni e del Pd in occasione delle politiche 2008.Farinella, dopo Maria, i santi e Papa Ratzinger, da lui attaccato duramente durante un’omelia di un anno fa («Ha tradito la missione di Pietro, ha la mente offuscata dal potere»), più di recente se l’è presa con il primo collaboratore di Benedetto XVI, il cardinale Bertone, accusandolo di essere stato come «un compare di nozze», accanto «all’utilizzatore finale di prostitute a pagamento» Silvio Berlusconi, in occasione dell’inaugurazione, lo scorso 17 ottobre, della mostra «Il Potere e la Grazia», allestita, grazie all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, a Palazzo Venezia. «Non so se lei si sia reso conto – concludeva don Farinella nella lettera pubblica indirizzata a Bertone – del danno che ha provocato alla Chiesa universale e alla Chiesa che è in Italia in modo particolare».Il Segretario di Stato, dopo aver a lungo pazientato, ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al sacerdote, pubblicata ieri sulla prima pagina del settimanale diocesano Il Cittadino. La missiva è datata 16 ottobre, ed è accompagnata da una lettera dell’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Bertone sente il bisogno, «il dovere di rispondere» dopo «un periodo di silenzio e di paziente sopportazione», senza commentare «le tue esternazioni, tanto sono marcate da accuse e interpretazioni infondate». «Ti ricordo solamente – aggiunge – che come sacerdoti possiamo e dobbiamo lavorare con cuore puro, senza odio e senza preconcetti ideologici, ma con la forza dell’annuncio evangelico, per il bene della Chiesa e di ogni persona umana: io lo faccio ora con una responsabilità di carattere universale, approfittando di tutte le forme istituzionali e pastorali che mi sono offerte». «Mi addolora il tuo comportamento – continua Bertone – anche perché nei tuoi confronti ho sempre agito con benevolenza durante il mio episcopato genovese» e «nei nostri colloqui fraterni ho raccolto le tue difficoltà personali cercando di aiutarti. Che cosa, in realtà, ti fa agire in questo modo offensivo verso di me, verso la Chiesa che è in Genova, il suo presbiterio e il suo pastore?» Anche Bagnasco interviene, con una lettera datata 18 ottobre e pubblicata sotto quella del Segretario di Stato, ricordando a don Farinella di avergli manifestato «nei ripetuti colloqui che abbiamo avuto anche di recente», il suo dispiacere per «il comportamento che da tempo hai assunto verso la persona e l’operato del cardinale Bertone». «La facilità di giudicare tutto e tutti, senza peraltro conoscere molti aspetti delle questioni e attribuendo gratuitamente intenzioni a chi è da te giudicato, oltre a non portare nulla di costruttivo, è un atteggiamento che suscita in molti non poco stupore e disappunto», conclude il presidente della Cei.Due lettere pacate e benevolenti. Del resto fino ad oggi il sacerdote ribelle è stato trattato da Bagnasco, che ha scritto quelle righe soltanto dopo l’intervento di Bertone, con estrema benevolenza. E c’è anche chi fa notare come fino ad oggi non hanno mai provocato reazioni e nemmeno pubbliche prese di distanze delle autorità ecclesiastiche, le invettive durissime di don Farinella pronunciate contro Benedetto XVI dal pulpito della chiesa genovese di San Torpete durante la messa domenicale e rese note dai giornali.

(Fonte: Andrea Tornielli, il Giornale, 23 ottobre 2009)

Bagnasco: impegno di dar voce ad una Chiesa “del si”

Il filo rosso nelle prese di posizione del presidente della Cei é l’impegno costante, attento, preciso, a dare voce ad una Chiesa “del sì”. Ha ribadito questa linea anche in un’ampia intervista del 18 ottobre al “Corriere della Sera”. Sì alla coesione sociale, istituzionale, morale del Paese, sì alla testimonianza franca dei cattolici, sì all’equilibrio di fronte ai grandi temi, vecchi e nuovi, nell’agenda del dibattito pubblico, dal fine-vita all’immigrazione, sì al magistero del Papa e all’impegno di evangelizzazione, perché la Chiesa “è inviata ad annunciare a tutti la grande speranza che è il Signore Gesù”.
In questo senso il presidente della Cei ha sottolineato il rapporto strettissimo della Chiesa in Italia con il Papa, per cui la Cei, tanto nell’”era” Ruini che in quella del suo successore non ha una linea propria, quanto sviluppa, interpreta, attua, le indicazioni del Papa, cui l’Italia e gli italiani vogliono bene. Questo legame speciale è una grande risorsa. Si chiarisce molto bene in questo senso anche il rapporto tra Cei e Curia romana, operando questa con un respiro più internazionale, sul registro dei rapporti diplomatici con i singoli Stati. Molto calzante a questo proposito, così da informare correttamente non pochi “retroscenisti”, la citazione della lettera apostolica “Apostolos suos”, sulle competenze delle Conferenze episcopali. Ma basta proprio il dato essenziale del rapporto diretto e privilegiato del Papa, primate e vescovo di Roma, con Roma stessa e con tutta l’Italia: una realtà sotto gli occhi di tutti.
Ne viene di qui una sorta di vocazione speciale dell’Italia stessa, che i Papi non hanno mancato di sottolineare. Ne viene anche quell’appello accorato non tanto e banalmente al “disarmo” tra le parti politiche, quanto, più in profondità, a “superare la nostra atavica tendenza a dividerci piuttosto che ad affrontare le questioni nodali del Paese”. A chi giova lo scontro sistematico su tutto, alimentato ad arte, cercato come fine a se stesso? Non giova a nessuno, perché è espressione del nulla. Secondo il cardinale Bagnasco ha delle radici morali, nel “virus individualista” che spinge ad una sorta di lotta di tutti contro tutti.
Ecco, allora, la bussola dell’impegno, della testimonianza, ecco il richiamo morale e non moralistico al bene comune, ecco l’attenzione del pastore alle concrete esigenze del popolo. La Chiesa in Italia è una Chiesa di popolo proprio perché conosce la vita concreta delle persone. Proclama i principi e sa applicarli nella vita reale, è vaccinata contro l’astrattismo. Per questo il presidente della Cei rifiuta gli schemi di un certo modo di fare comunicazione, che pretendono di far recitare sempre ai cattolici un copione già scritto, luoghi comuni e interpretazioni “superate dalla storia”. Bisogna invece saper guardare avanti, e farlo in modo aperto, incerto, libero e condiviso. Una storia accelerata non fa sconti a nessuno.

(Fonte: Francesco Bonini, Sir, 21 ottobre 2009)

E il Nobel Saramago se la prende con Dio: è cattivo

«Vendicativo, rancoroso, cattivo e indegno di fiducia». Questo losco figuro, secondo lo scrittore portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura, è il «Dio della Bibbia». In quanto alla Chiesa cattolica, essa «scatena nuovi odii alimentando rancore».Il motivo di tanto risentimento verso il «Dio della Bibbia» è presto detto. Saramago ha appena pubblicato in Portogallo Caino romanzo in cui reinterpreta il fratricidio biblico. Lo spot del libro, un vero e proprio trailer, ha come slogan: «Che diavolo di Dio è questo che, per innalzare Abele, disprezza Caino?». Il lancio, a fine agosto, aveva suscitato scalpore ma non abbastanza, nonostante l’impegno dell’autore prodigatosi in affermazioni nelle quali qualcuno ha visto una sfumatura di antisemitismo: «Mi risulta difficile comprendere come il popolo ebraico abbia scelto per testo sacro l’Antico Testamento. È un tale miscuglio di assurdità che non può essere stato inventato da un uomo solo. Ci vollero generazioni e generazioni per produrre questa mostruosità».Comunque sia, l’uscita del romanzo ha lasciato perplessa la chiesa lusitana, rinnovando così uno scontro iniziato negli anni Novanta, quando Saramago aveva mandato in libreria Il vangelo secondo Gesù, storia di come Cristo perse la verginità con Maria Maddalena. I vescovi del Paese hanno accusato lo scrittore di offendere i cattolici e bollato Caino come «una operazione pubblicitaria irriverente». Saramago non aspettava altro, e calatosi nella parte del perseguitato ha convocato una conferenza stampa durante la quale si è prodotto nelle dichiarazioni di cui sopra. «Nella Bibbia - ha poi aggiunto - si narrano crudeltà, incesti, violenze di ogni genere, carneficine. Tutto ciò è incontestabile, ma è bastato che lo dicessi io, per suscitare una polemica». E ha concluso con un sentito richiamo al «diritto di riflettere» che «appartiene a ciascun individuo» e con una vibrante denuncia della «intolleranza delle religioni organizzate».Ecco, la «intolleranza delle religioni organizzate». Un tema già affrontato da Saramago, ateo e comunista, in modo alquanto sorprendente. Lo scrittore portoghese, infatti, quando vede i simboli del cristianesimo è come un toro nell’arena davanti al drappo rosso: carica a testa bassa. Diventa però mansueto se alla croce si sostituisce la mezzaluna islamica. Nel 2007 in Spagna fu pubblicato, con denaro pubblico, un libro fotografico con immagini choc: tanto per dirne una, la Madonna con in braccio un maiale. Comprensibile la reazione, ferma ma composta, dei cattolici spagnoli, ovviamente indignati. Saramago insorse contro chi protestava, gridando alla tentata censura: «Crediamo fermamente che un valore fondamentale delle società democratiche, come quello della libertà di espressione e di creazione, non possa essere sottomesso o soggiogato a regole morali».Pochi mesi prima era scoppiata la questione delle vignette danesi sul profeta Maometto, le vergini, i kamikaze. I musulmani scesero in piazza e già che c’erano bruciarono qualche ambasciata. Anche in quel caso il premio Nobel insorse. Ma contro i disegnatori: «Quello che mi ha davvero spiazzato è l’irresponsabilità dell’autore o degli autori di quei disegni. Alcuni ritengono che la libertà di espressione sia un diritto assoluto. Ma la cruda realtà impone dei limiti».Ecco, la «cruda realtà» è questa: per Saramago tutte le religioni sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre. La «intolleranza delle religioni organizzate»? In alcuni casi lo scrittore la giustifica. In quanto alla libertà d’espressione, è un valore relativo, dipende da chi chiede la parola. Un eventuale Nobel per la doppia morale non glielo toglierebbe nessuno.

(Fonte: Alessandro Gnocchi, Il Giornale, 25 ottobre 2009)

Ecumenismo e "uniatismo": che vuol dire?

Un lettore mi fa notare che, nell’editoriale di Avvenire del 21 ottobre, Salvatore Mazza ha scritto riferendosi al rientro degli Anglicani: «Certo, per la Chiesa cattolica sarebbe stato facile ricorrere a soluzioni più semplici, come una qualche forma di “uniatismo”». E mi chiede: «Ma che significa? Non le sembra offensivo per i nostri fratelli Cattolici Orientali? Ma che cos’è questo disprezzo per l’uniatismo?».
Anch’io mi chiedo che cosa intendesse Mazza con la sua affermazione, che non mi pare per nulla chiara. Non mi sembra però di ravvisare nelle sue parole alcunché di offensivo nei confronti dei nostri fratelli orientali. Anche se — va riconosciuto — oggi è diventato abbastanza di moda guardare con un certo disprezzo a tale forma di ecumenismo “d’altri tempi”.
Sappiamo che gli ortodossi hanno sempre rifiutato categoricamente il fenomeno uniate, e lo considerano come uno degli ostacoli sul cammino ecumenico. E non c’è da meravigliarsi: nella loro concezione ecclesiologica, è impensabile che sullo stesso territorio ci possano essere piú giurisdizioni. L’Oriente è “territorio canonico” della Chiesa ortodossa; non possono esistere, in quelle regioni, altre Chiese, siano esse di rito latino o anche orientale; un cristiano nell’Est non può che essere ortodosso. Anche se poi, abbastanza incomprensibilmente, loro stessi hanno in Occidente i loro Vescovi che assistono pastoralmente i fedeli ortodossi. Chiedo: l’Occidente non dovrebbe essere “territorio canonico” della Chiesa latina?
L’uniatismo è stato il modo in cui la Chiesa cattolica “ha fatto ecumenismo” nel passato, fino al Concilio. Questo è importante ricordarlo, perché talvolta sembra che la preoccupazione per l’unità dei cristiani sia nata col Vaticano II. Non è affatto vero: la Chiesa ha sempre sentito vivo l’anelito verso l’unità; solo, lo ha perseguito con modalità diverse da quelle odierne. Anziché avere colloqui ecumenici con le altre confessioni (allora semplicemente impensabili), la Chiesa cattolica ristabiliva la piena comunione con alcuni gruppi di cristiani appartenenti a quelle confessioni: in alcuni casi (in Oriente), conservando gli elementi caratteristici della loro tradizione; in altri casi (in Occidente), ristabilendo una gerarchia parallela di rito romano (nei paesi protestanti); in alcuni casi (come in Inghilterra), facendo attenzione a non dare alle sedi vescovili lo stesso nome di quelle anglicane: il Vescovo cattolico di Londra, per esempio, non si chiama in questo modo, ma “Arcivescovo di Westminster” (che è il nome di un quartiere di Londra).
Che giudizio esprimere oggi sul fenomeno uniate? Personalmente, ritengo che le Chiese sui juris (questo è il loro nome tecnico, secondo il Codice dei canoni delle Chiese orientali) svolgano un ruolo importantissimo: esse dimostrano che l’unità (un unità — si badi bene — che non è sinonimo di uniformità e appiattimento) è possibile. È possibile conservare le proprie tradizioni e, allo stesso tempo, vivere in piena comunione con il Romano Pontefice. Ma non penso che questo sia solo il mio pensiero. Perché lo stesso Concilio, al di là delle sue semplicistiche interpretazioni posteriori, ha valorizzato moltissimo le Chiese orientali. Tanto è vero che soltanto negli anni recenti, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato promulgato un Codice di diritto canonico esclusivamente per loro.
Tali Chiese cattoliche orientali sono d’intralcio al cammino ecumenico? Non lo credo proprio. Se ci sono dei cattolici che si sentono profondamente solidali con i loro fratelli non-cattolici appartenenti allo stesso rito, questi sono proprio i cattolici orientali. Che poi ci possano essere delle beghe a livello locale, riguardanti magari le proprietà, è vero; ma queste cose esistono da che mondo è mondo anche fra i cattolici o fra gli stessi ortodossi.
Il problema vero è capire che cosa si intenda per ecumenismo. Se ecumenismo significa incontrarsi semplicemente per discutere e pregare insieme, e poi ciascuno continua ad andare per la propria strada, mi chiedo a che cosa serva tale ecumenismo. Faccio un esempio, tratto proprio dal caso anglicano: non avrebbero dovuto gli anglicani, prima di introdurre certe novità, come il sacerdozio e l’episcopato alle donne, interrogarsi sulle conseguenze “ecumeniche” che tali decisioni avrebbero avuto? No, sono andati per la loro strada, infischiandosene non solo delle reazioni all’interno della loro Chiesa, ma anche della tradizione seguita da cattolici e ortodossi. Tanto per far notare la differenza di stile, vi siete accorti di come la Chiesa cattolica in questa ultima vicenda sia stata attenta alle motivazioni ecumeniche? Teoricamente, essa avrebbe potuto permettere che i Vescovi anglicani sposati, rientrando nella Chiesa cattolica, potessero essere ordinati Vescovi rimanendo sposati. No, per ragioni di carattere ecumenico e storico non lo ha permesso. Questo si chiama ecumenismo; non l’ecumenismo alla “tarallucci e vino”.
Per tornare all’affermazione di Mazza, dicevo che non mi è per nulla chiara. Che significa dire che la Chiesa avrebbe potuto scegliere soluzioni più semplici “come una qualche forma di uniatismo”? A me sembra — posso sbagliarmi — che la decisione papale di istituire “ordinariati personali” per gli anglicani che chiedono di rientrare nella piena comunione con Roma sia esattamente “una qualche forma di uniatismo”. Ed è per questo che essa è stata digerita con difficoltà, a quanto pare, sia dagli anglicani (nonostante la dichiarazione congiunta di Londra), sia dall’episcopato cattolico britannico, sia soprattutto dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani (assente alla conferenza stampa dell’altro giorno in Vaticano).Leggo ora con piacere sul blog Settimo cielo, che John Henry Newman «aveva studiato un piano per creare una sorta di Chiesa anglicana “uniate”, simile a quelle di rito orientale unite a Roma. Il piano aveva l’appoggio del cardinale Manning, all’epoca arcivescovo di Westminster». Praticamente si tratta della medesima soluzione da me auspicata in questo blog (la costituzione di una Chiesa cattolica sui juris di rito anglicano); una soluzione che però probabilmente è ancora prematura. Prematura perché non esistono ancora Chiese sui juris in Occidente; le uniche esistenti sono quelle orientali. Ma non vedo che cosa possa impedire la costituzione di simili Chiese anche in Occidente. Personalmente ritengo che sia l’unica soluzione del problema ecumenico: dare alle comunità separate la possibilità di rientrare nella piena comunione con Roma, conservando le loro tradizioni. Ma comunque diamo tempo al tempo. Per il momento, vanno benissimo gli “ordinariati personali”.
Personalmente ritengo che la decisione del Papa sia veramente importante (qualcuno l’ha chiamata “storica”), perché segna una svolta nell’ecumenismo. È come se Benedetto XVI, dopo aver preso atto degli scarsi risultati raggiunti in questi anni dall’ecumenismo ufficiale, dicesse: “OK, è ora di cambiare registro”. Non riusciremo forse a ristabilire la piena comunione con la Comunione anglicana nel suo insieme (ma come è possibile questo dopo le scelte che essa ha fatto?); ma almeno possiamo ristabilire la piena comunione con alcuni gruppi anglicani. Mi sembra una posizione ragionevole, perché segna il ritorno a una delle caratteristiche che ha sempre contraddistinto Chiesa cattolica e che negli anni recenti sembrava un tantino offuscata: il realismo. L’ottimo è sempre stato nemico del bene: in questi anni ci siamo illusi che fosse possibile ristabilire l’unità con le Chiese e le comunità non-cattoliche semplicemente sedendoci intorno a un tavolo. Dopo quarant’anni, è giunta l’ora di tirare le somme. Quel che si è fatto finora certamente non è stato inutile: forse il risultato ottenuto oggi non sarebbe stato possibile senza quei colloqui, che hanno dimostrato che le differenze non sono poi così grandi. Ma non ci si può dimenticare che, oltre alle questioni dogmatiche, ci sono tanti altri elementi (di carattere storico, politico, emotivo, ecc.) che si frappongono sul cammino verso l’unità. Era necessario rompere gli indugi. Benedetto XVI l’ha fatto. È come se avesse detto: Rinunciamo pure a una ipotetica unità universale, che appare sempre più astratta e lontana; e accontentiamoci di una unità reale, possibile, con quei gruppi che desiderano e sono nella condizione di vivere in comunione con la Chiesa cattolica. Un risultato parziale, ma sicuro, di fronte a prospettive forse affascinanti, ma sempre più evanescenti.

(Fonte: Padre Giovanni Scalese, Querculanus, 23 ottobre 2009)

giovedì 22 ottobre 2009

Ora di religione islamica nelle scuole?

L’ora di religione islamica nelle scuole pubbliche e private? Facoltativa e alternativa a quella cattolica? E chi la dovrebbe insegnare? Docenti riconosciuti italiani, al limite anche imam a patto che abbiamo i requisiti e siano registrati in un apposito albo? Messa giù così no davvero! E coloro che protestano hanno le loro buone ragioni. Vi dirò le mie.
1. Il Concordato, rivisto nel 1984, non prevede nulla di tutto ciò. Innanzi tutto all’articolo 9 sostiene che l’Insegnamento della Religione Cattolica (=IRC) è parte integrante della nostra storia e della nostra cultura. Ed è per questo che l’Italia si impegna ad assicurare tale insegnamento come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola di ogni ordine e grado a chi intenda avvalersene facendone esplicita richiesta.
2. Si badi bene: insegnamento della religione, non catechesi; cioè non educazione alla fede. La proposta è storico/culturale, ma della religione cattolica, che è patrimonio culturale del popolo italiano. Ciò che conferisce all'insegnamento religioso scolastico la sua peculiare caratteristica è il fatto di essere chiamato a penetrare nell'ambito della cultura e di relazionarsi con gli altri saperi.
3. Per coloro che non intendono avvalersi dell’insegnamento della Religione Cattolica, ogni Istituto è tenuto a organizzare delle ore di insegnamento alternativo all’IRC.
4. Parlare, pertanto, di insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche e private in alternativa all’IRC significa snaturare la cultura del popolo italiano.
5. Nessuna difficoltà, al contrario, se gli Istituti scolastici che lo ritenessero opportuno, dovessero promuovere, tra le ore alternative all’IRC lo studio della religione islamica per chi ne volesse avvalersene. Il nodo della questione è proprio qua; infatti la cosiddetta “ora alternativa” è in realtà “l’ora che non c’è”.
Non vedrei, pertanto, alcuna difficoltà se l’insegnamento della religione islamica fosse contestualizzato nell’ambito dell’ora alternativa per chi intesse avvalersene, anche se dal punto di vista pedagogico faccio molta fatica a ritenere che esso corrisponda alle finalità della scuola italiana; obiettivo a cui tutti i saperi debbono tendere.
Ma, continuando la nostra riflessione, occorre ribadire con semplice chiarezza che:
a. la religione della assoluta maggioranza del popolo italiano è la religione cristiana/cattolica.
b. chi viene in Italia deve accettare la Costituzione italiana con tutto ciò che i Trattati annessi contemplano, senza equivoci, senza deroghe e senza svilire l’identità del popolo italiano.
c. la scuola, come ambiente formativo ed educativo, è chiamata sì a favorire il rispetto di ogni persona umana, l’integrazione di coloro che giungono nel nostro Paese, senza dimenticare, tuttavia che l'integrazione si ottiene promuovendo la nostra specifica identità.
Non si può, tuttavia, rifuggire da un serio interrogativo a riguardo dell’insegnamento della religione islamica anche se collocata nella prevista ora alternativa: di quale religione islamica parliamo? Pensare che l'Islam sia “una cosa sola” è un grave abbaglio! L'Islam ha mille volti e mille espressioni. L’Islam – non dimentichiamolo mai – è strettamente imparentato anche con forti espressioni del fondamentalismo.
Un’ultima riflessione. Si parla tanto di formazione alla integrazione culturale.
Ebbene: la conoscenza del fatto religioso cattolico è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile. L’insegnamento della religione nella scuola mentre costituisce un’esigenza della concezione antropologica aperta alla dimensione trascendente dell’essere umano favorisce la formazione morale favorendo lo sviluppo della responsabilità personale e sociale e le altre virtù civiche e costituisce dunque un rilevante contributo al bene comune della società.
Ma occorre affermare con altrettanta decisione che i valori della nostra civiltà europea non hanno nulla a che vedere con la cultura islamica! Mai dovrà essere messa in discussione la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra appartenenza.
Pertanto, dando per possibile, anzi auspicabile l’eventuale servizio che la scuola italiana potrebbe offrire agli alunni di religione islamica - da collocare in ogni caso solo ed esclusivamente nell’ora alternativa all’IRC - resta assolutamente fermo che l’integrazione culturale non avviene proponendo agli italiani i valori dell’Islam, ma agli islamici in Italia i valori della cultura a cui si ispira e sono fondamento del popolo italiano e che la Costituzione sancisce.
[Aggiungo: non mi spiego - o meglio me lo spiego benissimo - perché tanti parlamentari si diano così attivamente da fare per introdurre l’insegnamento della religione islamica, quando invece ancora oggi sono molto critici nel mantenere nelle scuole l’ora di religione cattolica: una situazione questa, purtroppo, ancora mal digerita e accettata solo obtorto collo! –n.d.m].

(Fonte: Tommaso Stenico, Umanesimo Cristiano, 19 ottobre 2009)


Una società avviata a piccoli passi verso la barbarie

Più volte l’abbiamo ribadito su queste colonne e con forza l’abbiamo affermato in più occasioni: ci stiamo dirigendo a piccoli passi verso la barbarie. In questi ultimi tempi l’andatura è sempre più accelerata e l’emergenza di alcuni fattori deleteri ci porta a riconoscere che ormai ci troviamo in una barbarie diffusa: non si tratta solo di assenza o debolezza della cultura, ma di una ferita alla civiltà inferta dall’affermazione di comportamenti indegni dell’uomo che non cercano la qualità della convivenza ma la oltraggiano. Assistiamo non allo scontro di civiltà profetizzato da Huntington, né alla fine della storia ipotizzata da Fukuyama ma, in modo più tragicamente banale, al piombare in un’epoca oscura, in cui è minacciata di sparizione la stessa democrazia. Quest’ultima, infatti, non può sussistere in una società in cui si disprezza la politica, cioè la gestione del bene comune, in cui non si avverte più come necessaria alcuna convergenza sull’orizzonte di senso della polis.
Nel Salmo 14 vi è un’amara constatazione: “tutti sono corrotti, nessuno fa il bene!”: grido tragico perché, se da un lato può essere denuncia di una situazione reale contingente, d’altro lato può attestare la presenza di una pandemia etica che dilaga e che perverte la natura stessa della convivenza civile. La violenza, l’aggressione innanzitutto verbale non è forse un habitat al quale oggi assistiamo attoniti, in un’impotenza a fare qualcosa che ci rende tristi e amareggia i nostri giorni? Basta accendere la televisione – cosa che personalmente mi capita assai di rado e solo fuori casa – per assistere a talk-show in cui si misura da subito il sistematico non ascolto dell’altro mentre il tono di voce gridato copre ogni opinione e passa sovente al disprezzo e all’insulto che negano l’altro nella sua soggettività e dignità. Così i telespettatori si abituano progressivamente ad assumere come propri nel quotidiano quegli atteggiamenti aggressivi. Questi divengono così la modalità consueta dei rapporti in famiglia, sul lavoro, nei luoghi di incontro: tutti si sentono non solo autorizzati, ma incoraggiati alla rissa, all’aggressione, al dileggio delle regole comuni. I ragazzi e i giovani, invece di essere contenuti e corretti nelle intemperanze proprie dell’età, di essere condotti alla consapevolezza di limiti e di freni essenziali e decisivi nei rapporti e nella comunicazione, si sentono stimolati a emulare i modelli di comportamenti incivili offerti dagli adulti: se incrociano un senzatetto lo scherniscono quando non lo malmenano, alla vista di una persona di colore partono insulti e sputi, gli immigrati sono oggetto di minacce e di intimazioni a tornarsene a casa loro...
Anche certa stampa ormai è divenuta palestra di combattimento, in cui non ci si arresta neppure davanti al mistero e alla dignità della persona, con accuse che vogliono solo distruggere il bersaglio preso di mira. Questi sono anni in cui molti italiani si sentono autorizzati dagli esempi provenienti da quanti occupano posizioni di rilievo anche istituzionale a far uso non solo di espressioni violente, volgari, offensive dell’altro, ma di un profondo disprezzo per qualsiasi regolamentazione. L’egolatria dominante reclama che i bisogni soggettivi siano accolti da tutti come diritti, anche se contro gli altri e contraddicenti l’umanizzazione, dimentica che accanto ai diritti ci sono sempre dei doveri, sembra negare ogni responsabilità personale per inquadrare il male compiuto in una fisiologia della vita umana personale e sociale: tutto questo fa sì che la barbarie avanzi e che la stessa democrazia sia erosa.
In questo quadro sconsolante, la società, risulta afflitta da una progressiva perdita di memoria, e un paese senza memoria non ha passato, non riconosce l’eredità che gli è propria e perde così la capacità di vivere il presente con consapevolezza e il futuro con speranza e progettualità. Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che l’hanno generata è essenziale: è proprio nella memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come valore. Ora, un individuo sradicato dal proprio passato, senza vera appartenenza che non sia quella localista o quella dettata da meri interessi economici, non può essere un cittadino di una società autenticamente democratica. Quando l’identità è negata a livello di polis ed è valorizzata solo con atteggiamenti etnicistici, innesca infatti una regressione alla dimensione tribale, alla tirannia di gruppi “consanguinei” e autoreferenziali che minano lo spazio della communitas. Va invece spezzata la contrapposizione tra cittadino e stato, tra individuo e società e riscoperta la dialettica tra queste due polarità perché l’ “io”, il “noi” senza “gli altri” depersonalizza e immiserisce: il “noi” assume la forma incontenibile dell’esclusione e, di conseguenza, l’altro assume i tratti della minaccia da scongiurare o da distruggere preventivamente. A questo punto la strada verso il razzismo è spalancata.
Non si dimentichi che le parole quando si caricano di odio diventano armi, che le accuse reciproche senza più limiti né rispetto spingono alla negazione e alla distruzione dell’avversario, che il continuare ossessivamente a indicare nell’avversario il Male genera a poco a poco una violenza che può arrivare ad assumere persino le forme del terrorismo più o meno elaborato ideologicamente.
Saremo capaci di un soprassalto di dignità umana e di etica democratica? Sapremo riscattare il senso alto della politica, oggi pesantemente affetta da una malattia autoimmune di svilimento? Non si tratta tanto di auspicare una tregua verbale posticcia, di aggiustare i toni di un confronto che da tempo ha cessato di essere tale ma, ben più in profondità, di favorire il passaggio dall’individuo al soggetto politico, innescando una logica non solo di diritti ma anche di doveri verso gli altri e con gli altri. Ritrovare la propria qualità di cittadini significa sentirsi attori di una storia collettiva, capaci di immaginare se stessi assieme agli altri, tesi a riscoprire valori comuni e principi etici condivisi attraverso i quali edificare la polis, rifiutando che sia la forza a prevalere. Certo, questo richiede volontà, assunzione della responsabilità comunitaria, senso dello Stato e capacità di elaborare, mantenere e alimentare un quadro sociale e istituzionale che garantisca a tutti la libertà nella giustizia. Ma è l’unico percorso per uscire dalla barbarie e rientrare nella civiltà.

(Fonte: Enzo Bianchi, Liberstef, 18 ottobre 2009 )

La “asimmetria” tra la Cei e il Vaticano, secondo Bagnasco

Con la sua intervistona di domenica 18 ottobre 2009 al “Corriere della Sera”, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della conferenza episcopale italiana, ha inviato un preciso promemoria oltre Tevere, ovvero al segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone. Per dirgli di smetterla di pretendere di fare lui da “guida” all’episcopato italiano sul terreno politico.
Niente “scontri” tra la Cei e la segreteria di Stato, ha detto Bagnasco. Ma una “divisione dei compiti” sì. Diversa la fisionomia delle due realtà, e quindi “asimmetriche” le responsabilità di ciascuna.
Per rivendicare le competenze della CEI, Bagnasco ha messo in campo nientemeno che la lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Apostolos suos” del 21 maggio 1998, sulla natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali:
«La CEI, come del resto ogni conferenza episcopale del mondo, ha come compito, secondo le indicazioni esplicite della lettera apostolica “Apostolos suos”, al numero 15, “la promozione e la tutela della fede e dei costumi, la traduzione dei libri liturgici, la promozione e la formazione delle vocazioni sacerdotali, la messa a punto dei sussidi per la catechesi, la promozione e la tutela delle università cattoliche e di altre istituzioni educative, l’impegno ecumenico, i rapporti con le autorità civili, la difesa della vita umana, della pace, dei diritti umani, anche perché vengano tutelati dalla legislazione civile, la promozione della giustizia sociale, l’uso dei mezzi di comunicazione sociale”».
Dopo questo fuoco di fila, a Bertone che cosa rimane? Solo il côté diplomatico, ha concluso Bagnasco:
«Differente e decisamente con un respiro più internazionale è il lavoro della Santa Sede che si fa carico sul piano diplomatico dei rapporti con i singoli Stati».
“L’Osservatore Romano” del giorno dopo, nel rilanciare l’intervista di Bagnasco, ha omesso le frasi ora citate.
La “asimmetria” rivendicata da Bagnasco vale anche per gli altri episcopati nazionali, oltre che per quello italiano. Alla CEI come modello, e non alla segreteria di Stato vaticana, guarda in particolare l’episcopato spagnolo. Per la manifestazione di sabato 17 ottobre, a Madrid, in difesa della vita nascente contro una legge che amplia smisuratamente la facoltà di abortire, i vescovi spagnoli hanno lasciato ad altri di promuovere il corteo: a espressioni della società civile anche non cattoliche, a esponenti ebrei e musulmani. L’esempio era chiaramente il Family Day di due anni fa a Roma. Con la Chiesa attenta a non isolarsi, ma ad esprimere le attese di una larga parte della nazione.

(Fonte: Settimo cielo, 19 ottobre, 2009)

Bocciatura della legge contro l’omofobia: altre considerazioni

La scuola di comunità, l’attività formativa di CL, ci sta insegnando che la circostanza vissuta senza il giudizio, il criterio per capirne il senso, non diventa esperienza, partecipazione arricchente, ma genera confusione. Come è vero! Un esempio eclatante è la bocciatura, al Parlamento Italiano, di un progetto di Legge contro l’omofobia.La Camera, con uno scarto di 50 voti, ha di fatto respinto l’aggravante in caso di aggressione ad omosessuali. Parliamoci chiaro: questo è un reato di lesa maestà, perché non ci si deve permettere di avanzare dubbi sul parere delle lobby gay, e quindi si scatena la sarabanda: manifestazioni in piazza, intervento della Signora Navi Pillay, Alto Commissario Onu per i diritti umani, che ha affermato: “L’Italia ha fatto un passo indietro”, la Onorevole Binetti ha ritenuto che la cosa fosse opinabile, gli Onorevoli Franceschini e Bindi la vogliono cacciare dal Pd, e la Onorevole Concia, Relatrice del provvedimento, sbotta: “nel Pd o io o la Binetti”.Calma; vogliamo diradare un poco la confusione, vogliamo chiamare le cose con il loro nome? Bene, allora: • Siamo proprio sicuri che aggredire un omosessuale, fatto incivile da riprovare severamente e sanzionare penalmente, sia più grave che aggredire una qualsiasi persona, magari anziana,o ad esempio un handicappato? Oppure è lecito rifletterci?• Siamo sicuri che sia giusto andare in piazza a pretendere di imporre che aggredire gli omosessuali è più grave che aggredire chiunque altro? Oppure, come al solito da parte delle lobby gay non è cogliere la palla al balzo per propagandare un’ideologia bella e buona?• La Signora Navi Pillay, Alto Commissario Onu per i diritti umani, ha commesso una indebita ingerenza dettata da superficialità ed approssimazione, non consentite a chi ricopre il Suo ruolo, quindi dovremmo pretendere le Sue scuse!• Perché tutti i TG pubblici e privati sono così proni alle lobby gay? I Politici aspirano ad accaparrarsene i voti, ma i TG?• La Onorevole Binetti ha ritenuto che la cosa fosse opinabile, ed ha optato per ripensarci. Visto che é generalmente definita teo-dem, perché i catto-com Bindi e Franceschini, tra gli altri, acriticamente proni al relativismo dominante, lo vogliono impedire? Per quale altro motivo, oltre a volersi accaparrare i voti gay?La controprova di quello che diciamo? Le valutazioni differenti, le perplessità sono trasversali agli schieramenti! Come detto poco sopra l’onorevole Binetti viene definita anche nei TG nazionali: teo-dem (nell’uso comune politico il Teo-dem è il cattolico integralista di sinistra contrario, ad esempio, ad una normativa specifica di tutela delle coppie di fatto); a questo punto perché gli onorevoli Franceschini i Bindi non sono definiti catto–com (catto-comunisti) quali oggettivamente sono? Sul blog dell’Associazione Culturale «Civiltà Laica» movimento di pensiero per il neo-illuminismo, possiamo vedere la corretta (si fa per dire) interpretazione di teo-dem, eccola: « si scrive Teo-dem, si legge razzista. L’esponente di punta del movimento teo-dem Paola Binetti ha finalmente tolto la maschera buonista e fatto vedere a tutti di cosa è capace pur di difendere il Vaticano, i suoi dogmi e ovviamente i suoi tanti privilegi». Del tutto superfluo commentare assurde farneticazioni di questo genere; ma allora perché l’ho riportato? Per due motivi; ciò illustra bene il relativismo dominante, che quasi sempre ha come obiettivo la Chiesa cattolica, perché di fatto nel mondo d’oggi è la sola voce autorevole, ed ascoltata, che ripropone, nel confronto culturale e sociale, la dignità umana e le sue conseguenze, ed inoltre “illustra” ancor meglio gli alleati di Franceschini e della Bindi, che a Loro piaccia oppure no.Una piccola nota a margine: la Signora Navi Pillay, Alto Commissario Onu per i diritti umani, ha criticato ancora una volta la circostanza aggravante della clandestinità contestata agli immigrati irregolari che commettano un crimine. “E’ una discriminazione. (...) Per punire lo stesso reato, dovrebbero esserci le stesse regole per chiunque.” Ma come, non è esattamente il contrario di ciò che ha sostenuto a proposito della Legge sull’omofobia? Circa l’immigrazione nessuno vuol dire che importanti presenze all’ONU, tra cui non poche ONG anche cattoliche, compresa la Signora Navi Pillay, vogliono definire “aventi diritto asilo” tutti i potenziali immigrati. Quanti sono nell’Africa subsahariana? 50 milioni? Di più? Queste sono le reali dimensioni di questo immenso dramma umano, ma se si intende che debbano essere accolti tutti obbligatoriamente, abbiamo il coraggio di dirlo chiaramente e ragioniamoci, non lanciamo inutili accuse di discriminazione che inaspriscono inutilmente il confronto, cosa che almeno l’ Alto Commissario Onu per i diritti umani dovrebbe evitare di fare. (chiusa la nota a margine)A conclusione di questa nota sulle recenti vicissitudini di una proposta di Legge sull’omofobia nel nostro Paese, purtroppo c’è comunque una considerazione che fa sorridere, sia pure con grande amarezza, si intende. Stiamo litigando e facendo un gran parapiglia per nulla, proprio per nulla: quando la Corte europea di giustizia emetterà una sentenza in materia di lotta all’omofobia in base alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, volenti o nolenti, qualunque sia questa sentenza, ci siamo impegnati a riconoscerne l’obbligatorietà, anche contro la nostra cultura e le nostre tradizioni. E allora? Non avremmo cose più serie, come ad esempio questa, su cui riflettere, invece di accapigliarci per questioni di principio molto mal poste?In Europa le lobby gay sono altrettanto forti, se non ancor più che in Italia. Ricordo che al Parlamento europeo l’Intergruppo più numeroso è l’Intergruppo Gay, Lesbiche, Bisessuali, Transessuali, Transgender. Inoltre a Vienna, dal 2008, ha sede l’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

(Fonte: Cultura Cattolica, 16 ottobre 2009)

L’invenzione dell’omofobia: alcune puntualizzazioni

La proposta di legge sulla cosiddetta omofobia era prevista nel programma elettorale di PD + IdV e non era prevista nel programma di PdL + Lega. PdL e Lega però non l’hanno voluta fermare in sede di Commissione, e così il 12 ottobre la proposta di legge (relatrice la PD Anna Paola Concia) è andata in discussione in Parlamento. Stoppata grazie alla pregiudiziale di incostituzionalità proposta dall’UdC e approvata a maggioranza, la proposta di legge tornerà, stavolta con un disegno di legge presentato dal Governo (promessa di Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità).
Tutto questo “volerla approvare a tutti i costi” è già una prima vittoria per la lobby gay, che ha inventato l’omofobia per zittire il dissenso.
Mia moglie e io nel 1980 formammo una famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, i cui diritti sono riconosciuti dalla Costituzione. Desideravamo dei figli, e questo veniva incontro alle necessità della società, che ha bisogno di 2,1 figli per donna per sussistere. I figli nacquero attraverso rapporti sessuali matrimoniali. Vedete qualcosa di anormale in questo percorso? Niente di anormale, è un percorso normale.
Eppure la lobby gay ci ribattezzò “eterosessuali”, e nessuno ha reagito. Io rifiuto la neolingua gay e riaffermo che il mio percorso non è “eterosessuale”, è semplicemente un percorso “normale”, non avendo in sé niente di anormale.
La distinzione da fare è tra rapporti sessuali e rapporti omosessuali: questi ultimi sono scelte personali (sottolineo “scelte”: una persona può avere tendenze omosessuali e scegliere di NON avere rapporti), sono infecondi e privi di rilevanza sociale. Ma la neolingua gay parlò di rapporti “eterosessuali e omosessuali”, come se fossero due opzioni sullo stesso piano. Io rifiuto la neolingua gay e continuo ad affermare la distinzione tra rapporti sessuali, potenzialmente fecondi e rilevanti per la società, e rapporti omosessuali, scelte personali infeconde e irrilevanti per la società.
Poi qualcuno cominciò a sostituire la parola “omosessuale” con la parola “gay”. Più spiccio, dicevano. Spiccio e falso: omosessuale e gay non sono sinonimi. Gli omosessuali non gay sono la maggioranza: sono persone riservate, che non amano il chiasso, che non vanno in TV e non sfilano in piazza, che non rivendicano diritti particolari. Ognuno di noi ne conosce qualcuno.
Nelle nostre menti però tutti gli omosessuali si sono trasformati in militanti gay, e questo falsa completamente il dibattito. Io rifiuto la neolingua gay e riaffermo che la maggioranza degli omosessuali sono “omosessuali non gay”.
Poi la lobby gay inventò il “genere”. Solo una parola elegante da usare al posto di “sesso”? No, un’invenzione ideologica che sostituisce i due sessi, reali e constatabili alla nascita di ognuno, con 5 o 7 opzioni di “genere”, di carattere culturale. Io rifiuto la neolingua gay e continuo ad affermare che i sessi sono due e sono un dato genetico constatabile da chiunque in natura; il resto sono opzioni personali, irrilevanti per la società.
Poi la lobby gay inventò l’omofobia. Ha un “suono” simile a una malattia (claustrofobia, aracnofobia,…), ma è una malattia inesistente, inventata dall’ideologia gay per i suoi scopi. Conoscete casi di persone rifiutate sul lavoro perché omosessuali? Conosco invece casi di ragazze rifiutate perché giovani spose a rischio di maternità.
Persone omosessuali siedono in Parlamento, sono ai vertici di diverse regioni, sono presenti nel mondo dell’arte, del teatro, della TV, del cinema, della letteratura, della moda, nelle università e nelle scuole di ogni ordine e grado, hanno una disponibilità di reddito ben superiore alla media, hanno organizzazioni nazionali a loro disposizione: la discriminazione non esiste, anzi qualche illustre personaggio afferma che l’essere gay l’ha aiutato nella carriera.
La finta malattia detta “omofobia” serve solo a zittire coloro che contestano l’ideologia gay (si dà dell’omofobo un po’ come un tempo si dava del fascista). Io rifiuto la neolingua gay e affermo che non esiste discriminazione basata “sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” (che sono libere opzioni personali modificabili nel tempo), mentre c’è una chiara discriminazione per la famiglia “costituzionale”, società naturale fondata sul matrimonio.
“Ma ci sono le aggressioni ai gay!”, dirà qualcuno. A parte che la fumosità delle statistiche su queste aggressioni è totale (ad esempio: nessuno ci comunica quante aggressioni a gay sono fatte da altri gay; nessuno fa una statistica sull’ambientazione di queste aggressioni), le aggressioni ai gay vanno perseguite e punite come ogni altra aggressione. Col passaggio di questa legge, accadrà che un’aggressione a me o a voi verrà punita con meno rigore rispetto all’aggressione a un gay. Io rifiuto l’ideologia gay e sostengo che un’aggressione alla mia persona debba essere punita con lo stesso rigore dell’aggressione a un gay.
Viene già usata la parola “omocrazia”? Prima o poi bisognerà usarla. In un’Italia in cui si può satireggiare chiunque fino all’insulto, con l’approvazione di questa proposta di legge un militante gay non potrà nemmeno essere contraddetto. Se passa la legge in Parlamento, nasce una nuova “casta” intoccabile.
Giovanni Lazzaretti - San Martino in Rio (RE)

Omofobia, oppure montature ben congegnate?

Il 12 ottobre è stato diffuso dagli organi di stampa la notizia dell’aggressione a Roma di due omosessuali, che è stata subito strombazzata come episodio di “omofobia”.
Da quello che si legge nella cronaca locale del 12 ottobre, nel giornale di Roma il Tempo, l’aggressione effettuata da sei teppisti fascistoidi non sembra essere avvenuta perché i due sono omosessuali, ma perché non hanno ricambiato il saluto fascista:
«Sei ragazzi sugli scooter li circondano e fanno il saluto fascista: “Camerata, camerata, camerata”. I due non ricambiano il gesto, sono gay: uno viene colpito col casco alla testa e con una ginocchiata ai genitali. Poi i tre scooter si dileguano».
Tutto l’episodio è ricostruibile dalle sole affermazioni degli aggrediti. Con questo non s’intende dire che se lo siano inventato; anzi è credibile proprio perché da quello che hanno riferito non risulta affatto che siano stati aggrediti in quanto omosessuali. A parte ciò che è riferito sopra, hanno anche affermato: «… hanno visto il nostro modo di vestire come un affronto [da notare: erano vestiti non in modo da apparire omosessuali, ma “in stile Skinhead sharp”, come si legge nello stesso articolo] o forse hanno solo capito che siamo una coppia gay». Quel «forse hanno solo capito che siamo una coppia gay», detto da chi vuol far intendere che si tratta certamente di un’aggressione “omofoba”, fa capire quanto egli stesso ne sia convinto…
Ma per essere equi con i due protagonisti, bisogna anche osservare che molto probabilmente non sono neanche stati loro a voler montare il caso. Infatti, sempre nell’articolo di cronaca, si legge che dopo l’aggressione (avvenuta – si badi – poco prima delle due del pomeriggio) sono tornati a casa; «ma le telefonate di solidarietà lo hanno convinto [quello dei due che ha subito il pestaggio] e ieri sera col suo fidanzato è andato al pronto soccorso del policlinico Umberto I, e stamattina presenteranno denuncia in Procura, assistiti dal legale dell'Arcigay». Quindi dalle ore 14 in cui hanno subito l’aggressione, sono andati al Pronto Soccorso la sera. Ma al Pronto Soccorso che si va a fare dopo diverse ore dall’incidente: per farsi un bicchierino o una partita a briscola?
Pare che, “decodificando e mettendo in chiaro” il “linguaggio” dell’articolo, si può capire come il malcapitato sia stato – diciamo così – persuaso (questa sembra la traduzione di “telefonate di solidarietà”) a creare il caso; e se no l’Arcigay che ci sta a fare? Resta comunque il fatto che nei giorni successivi non se n’è più sentito parlare. Né si è più saputo dalle cronache locali se davvero è stata presentata denuncia in Procura. Ma questo è secondario.
Un caso simile al precedente potrebbe essere quello di metà settembre scorso, anch’esso immediatamente bollato come “esplosione dell’odio omofobico” quando, in realtà, gli inquirenti hanno appurato che si trattò di un litigio per un sigaretta.
Infine, la notizia di poche ore fa: a Napoli un professore sarebbe stato aggredito da tre ragazzi perché omosessuale. Un lancio di venerdì 16 ottobre delle 12.14, informa invece che “Si sono presentati questa notte i tre ragazzi che ieri pomeriggio avrebbero aggredito un professore omosessuale, insultandolo e picchiandolo. I giovani hanno respinto ogni addebito di natura razzista, spiegando di aver litigato per altri motivi con l'uomo”. L’articolo poi è stato prontamente rimosso dall’edizione online. La cosa più curiosa di tutte è che solo a una piccola lobby etica sia venuto il dubbio che la stranissima epidemia omofobica italiana possa essere in realtà una montatura, mentre nessuna testata giornalistica professionista abbia ritenuto opportuno dedicare un servizio al tema.

(Fonte: FattiSentire.net)

L’Italia riscopre i suoi Migranti

L’altra Italia finalmente trova casa. In uno dei luoghi simbolo dell’unità nazionale. E sarà una memoria rimossa che rompe il silenzio. E torna a parlare. A più voci. Venerdì 23 ottobre alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, verrà inaugurato il Museo nazionale dell’emigrazione italiana allestito nel complesso del Vittoriano, a Roma. Dal 1861, l’anno dell’Unità, ad oggi, sono emigrati oltre ventinove milioni di italiani; undici milioni hanno poi fatto ritorno, gli altri no, generando un’Italia fuori d’Italia stimata in sessanta-settanta milioni di persone, tanti sono gli oriundi con i loro discendenti sparsi per il mondo. Chi ha varcato le Alpi, chi gli oceani: sedici milioni hanno cercato fortuna per l’Europa, quasi dodici milioni nelle Americhe, mezzo milione in Africa, gli altri in Asia e Oceania. C’è chi è espatriato in cerca di libertà, come gli esuli politici; chi invece, la quasi totalità, per lavoro, mossi dalla speranza in un futuro migliore. O dalla disperazione, in un’Italia giovane e fragile che negava pane e giustizia ai suoi figli più poveri. Che non avevano diritto di voto, lontana la meta del suffragio universale. Così votavano con i piedi. Abbandonando, con la morte nel cuore, le loro terre, città, comunità. E qui è bene parlare al plurale: perché l’Italia era fatta, gli italiani no. E chi partiva, partiva veneto, siciliano, lombardo, calabrese, non italiano. Tanti analfabeti, spesso nemmeno parlavano la lingua nazionale. Ma è all’estero che si scoprono italiani, che iniziano a essere guardati, a riconoscersi come tali. E proprio questa è la storia di storie che il nuovo museo dovrà raccontare: «Il modo in cui le molteplici esperienze di emigrazione, legate ai diversi contesti regionali e locali di partenza, hanno generato un movimento che ha segnato la storia del nostro Paese, la costruzione della sua unità, della sua identità – spiega il direttore del nuovo Museo, Alessandro Nicosia, alle spalle vent’anni di esperienza nell’organizzazione di mostre e musei –. Lo faremo con un percorso espositivo scientificamente rigoroso ma dal taglio divulgativo, che guarda al grande pubblico, in particolare agli studenti. Il museo – promosso dal ministero degli Esteri con la collaborazione del ministero per i Beni e le attività culturali – occupa circa quattrocenti metri quadrati all’interno del complesso del Vittoriano, rilanciato nel suo ruolo di luogo simbolo dell’unità nazionale in particolare durante il settennato del presidente Ciampi. Aprire un percorso dedicato alla grande emigrazione italiana sarà un modo per guardare a due anniversari importanti – i centocinquant’anni dell’Unità nazionale e il centenario del Vittoriano – con uno sguardo che recupera un capitolo trascurato della nostra storia e sa connettere identità nazionale e appartenenze territoriali». Il nuovo museo offrirà «un percorso cronologico – spiega ancora Nicosia – che allinea fotografie, documenti, lettere, cartoline, oggetti rari o legati alla vita quotidiana e al lavoro dei migranti, assieme a pannelli esplicativi, una biblioteca, una sala cinema e spazi di approfondimento interattivi con documentari, film, musica, canzoni e altri materiali multimediali e testimonianze dell’emigrazione, provenienti – ad esempio – dalle Teche Rai e dall’Istituto Luce». Una prima sezione del museo sarà dedicata alle migrazioni preunitarie. La seconda racconterà gli anni dal 1876 (quando iniziano le serie statistiche ufficiali) al 1915: sono gli anni dell’esodo di massa – il 54% degli espatri avviene prima della Grande guerra. La terza sezione copre il periodo fra le due guerre mondiali e rilegge l’emigrazione in rapporto al fascismo, al colonialismo e ai flussi migratori interni. La quarta sezione presenta le profonde trasformazioni che il fenomeno migratorio affronta tra il 1946 e il 1976, periodo di radicali mutamenti per l’intero Paese. Terminato il percorso storico, ecco gli spazi dedicati alla realtà odierna degli italiani nel mondo, ma anche al mondo che «approda» in Italia: è a partire dagli anni ’70 che diventiamo Paese d’immigrazione. Nel frattempo abbiamo mandato 5,8 milioni di italiani negli Stati Uniti, 4,4 in Francia, 4,3 in Svizzera, tre in Argentina, altrettanti in Germania, 1,5 in Brasile... Ma dietro i grandi numeri, dietro le moltitudini, ci sono esseri umani, volti, nomi. Aiuterà a riscoprirlo la banca dati che – grazie alla collaborazione del Centro AltreItalie – permetterà di ripercorrere le rotte e il destino dei propri avi accedendo alle informazioni nei registri di sbarco delle navi approdate nei porti di New York, Buenos Aires e Vitória. Il nuovo museo avrà inoltre un sito web che, fra l’altro, censirà la trama di iniziative esistenti a livello regionale e locale – musei, fondazioni, archivi, centri studi, associazioni – oltre a dar loro spazio nel percorso espositivo del Vittoriano.

(Fonte: Avvenire, 18 ottobre 2009)

Vilipendio dell’intelligenza nel salotto «colto» della Dandini

Con questo titolo, Francesco Ognibene sull’Avvenire lamenta la totale carenza di educazione, di buon gusto, di pulizia mentale, con cui vengono affrontate tavole rotonde, programmi di informazione e di intrattenimento. Nella satira poi, oltre ai personaggi politici, non manca occasione che anche il papa e la religione cattolica siano oggetto di scherno, con battute che rivelano una microcefalia allarmante. E questo soprattutto nelle trasmissioni della Tv di Stato. È veramente triste constatare come tale modus operandi rientri ormai nella normalità e sia riservato indistintamente a quanti non siano allineati con una ben determinata linea di pensiero laica, imposta dalla sinistra e dai media al suo servizio: recentemente, nel caso della bocciatura della Legge sull'omofobia, è toccato alla Binetti, e condividiamo il contenuto di sacrosanto sdegno dell’articolista:
«Ormai ci stanno abituando a tutto: polemiche violente, scambi di contumelie, colpi sotto la cintura, tanto che si fatica a ricordare un clima politico e culturale così avvelenato. E tuttavia, sebbene il tono del discorso pubblico abbia sfondato da tempo il livello di decibel tollerabili, dentro di noi esiste e resiste una soglia oltre la quale scatta più forte la reazione: è quando percepiamo violata un’area che, invece, vorremmo esente dai furiosi schizzi di fango che vanno così di moda.
Perché le idee possono diventare oggetto di confronti anche accesi, ma mai potremo restare indifferenti al cospetto dello scempio svagato della religione e davanti alla sua maligna denigrazione consumata con irridente indolenza da sussiegoso avanspettacolo. Se, poi, questo accade sulla tivù di Stato, all’indignazione si mescola lo sgomento per l’irresponsabile deriva di un «servizio pubblico» del quale ci ostiniamo ad avere un altro e alto concetto.
Abbiamo chiuso gli occhi, spento la tv e buttato il telecomando qualche sera fa quando a "Parla con me", su Rai3, Avvenire è stato fatto entrare, in modo tanto stolido quando diffamatorio, in un’aspra parodia delle obiezioni all’idea di introdurre un’aggravante penale specifica anti-omofobica. Ma quel che l’altra notte è andato in onda sullo stesso tema e dal medesimo telesalotto dello humour intellettuale progressista – che passa da Saramago a Vergassola, con l’ilare e pochissimo serena Serena Dandini a condurre – è il segno desolante e volgare di una certa Italia dove si profana tutto con l’aria di chi dice una cosa raffinatamente umoristica. Dentro un confessionale, una finta Paola Binetti nelle vesti del confessore maltratta un penitente mettendolo in guardia da orrendi peccati politici. Per espiare la grandinata di mancanze, snocciolate col tono di un Torquemada d’avanspettacolo, gli assegna infine un Padre Nostro straziato e deforme che passa a recitare tra lazzi e sghignazzi con Dandini capoclaque.
La grevità della scenetta è deprimente. Siamo alla messa alla gogna di un personaggio pubblico per la sua fede cristiana e all’offesa del sentimento religioso di decine e decine di milioni di italiani: fatto odioso solo a nominarlo e scelta "artistica" miserabile. La satira giunge al limite della bestemmia e, da arma contro i potenti, si fa attacco maramaldo a una donna e parlamentare coerente con la propria coscienza e perciò minacciata di espulsione dal suo partito, il Pd.
È questo il concetto di libertà coltivato sul divano rosso della signora Dandini, tra un sentenziare pensoso e risatelle garrule e, manco a dirlo, colte? E cosa c’è di più meschino del ridurre a grottesca messinscena i simboli religiosi – la Confessione, il Padre Nostro – per ribadire il proprio sovrano disprezzo verso le fedeltà e i sentimenti più antichi e profondi degli italiani? È così: sulla tivù di tutti, fa scandalo e merita irridente punizione il dirsi pubblicamente cattolici, e trarne le dovute conseguenze con scelte che suonano come uno schiaffo al torpido opportunismo del politicamente corretto.
No, non ci fa ridere la insulsa sceneggiatura di un sacramento. Non ci fa ridere, e non ci consente di limitarci a spegnere la televisione e a buttare il telecomando, lo scempio della preghiera più cara al cuore cristiano: l’invocazione che ci ha dettato Gesù stesso, dandoci il senso profondo della paternità di Dio e mettendo nella nostra storia d’uomini l’idea della fraternità e della libertà; l’inno cantato da generazioni di credenti e capace di affiorare, nelle ore buie della vita, anche sulle labbra di chi non ha fede.
Questi sono giorni in cui si parla spesso, a torto o a ragione, di vilipendio. Sulla Rai, servizio pubblico televisivo, è stato dimostrato a tutti di che cosa si tratta. Si è giochicchiato ignominiosamente con l’indisponibile patrimonio comune del nostro popolo. Persino prima che della religione, un tragico vilipendio dell’intelligenza».

(Fonte: Francesco Ognibene, Avvenire, 17 ottobre 2009)

Omofobia: botta e risposta a difesa e contro il progetto legislativo affondato

Dalle colonne de Il Giornale del 15 ottobre, l’Avv. Annamaria Bernardini De Pace ha usato parole piuttosto dure nello stigmatizzare quanti hanno contribuito all’affossamento del progetto di Legge contro l’omofobia. Tra l’altro l’articolista – prendendo lo spunto da una lettera “davvero omofoba” inviata al giornale “da un signore genovese eterosessuale” il quale escludeva l’esistenza di una qualsiasi discriminazione nei confronti dei “non eterosessuali” che al contrario avrebbero la massima visibilità invadendo tv e strade delle città – diceva: «È del tutto ovvio e scontato che gay, lesbiche e transessuali siano visibili nelle città, sui luoghi di lavoro e nei mezzi mediatici, in quanto solo in Italia sono quasi sei milioni, circa il 10% della popolazione. Altre stime suggeriscono che siano addirittura circa il 30% (quindi diciotto milioni di individui) e che, dunque, vi sia un 20% di loro silente e riservato…».
«In Italia vengono sdoganati e apprezzati tra loro quelli che si distinguono nello spettacolo, nella moda e nella politica. Gli altri, perseguitati dalla cultura omofobica o se vivono in ambienti culturalmente gretti, sono costretti a tacere e nascondersi. A soffocare la loro affettività, a vivere nel dolore, nella vergogna e nella fatica di affrontare sguardi, giudizi, disprezzo, irrisione e, a volte, emarginazione». In una parola dei martiri!
Per questo «ha un senso concreto il Gay-Pride. Hanno senso le battaglie a favore degli omosessuali. Come hanno avuto senso le battaglie che hanno fatto le donne perché si affermasse loro la pari dignità giuridica: che 40 anni fa era ancora un’utopia. Anche gli omosessuali in Italia - sei o diciotto milioni che siano - hanno diritto di essere riconosciuti dagli altri uguali, nella pari dignità giuridica, morale e affettiva; senza censure, persecuzione, sabotaggi. Senza dolore. Senza essere costretti a raccontarsi e a spiegarsi anche per superare l’atteggiamento residuale omofobico di chi li gratifica di patetica tolleranza».
E conclude: «La discriminazione contro il popolo Glbt (gay, lesbiche, bisessuali, transessuali) in Italia c’è ed è evidente nella società e nel diritto: se non si pone un immediato rimedio, la storia ci giudicherà allo stesso modo dei persecutori dei neri e degli ebrei». E scusate se è poco, aggiungiamo noi!. Del resto « Il signore di Genova (con la Binetti) dovrebbe, comunque sia, sapere che qualsiasi religione, con parole diverse, ripropone il comandamento di amare il prossimo come se stessi. Dunque, chi non ama, non rispetta, non comprende e non ha misericordia degli altri, pecca gravemente».
A tale infiammata arringa difensiva, risponde in maniera più pacata, puntualizzando e rintuzzando alcune affermazioni della legale, il Dr. De Matteo:
«Gentile avvocato, le scrivo in riferimento al suo articolo pubblicato da “Il Giornale” di giovedì 15 ottobre 2009. L’omosessualità, come ogni altra forma di perversione sessuale, non è una condizione naturale e biologica (come lei sostiene e come moltissime ricerche scientifiche hanno dimostrato) bensì una tendenza oggettivamente disordinata che non può dare a chi la pratica dei diritti speciali (che non ha chi invece non intende praticarla)».
«Sono infatti note le correlazioni tra omosessualità e pedofilia nonché tra omosessualità e diffusione dell’HIV. Inoltre, serie ricerche scientifiche hanno chiaramente dimostrato che l’aggressività e la violenza all’interno delle coppie gay è di gran lunga superiore a quella presente nelle coppie eterosessuali ed è un dato accertato che le unioni omosessuali sono molto meno stabili e durature rispetto a quelle naturali tra un uomo ed una donna».
«Il fatto che l’Organizzazione mondiale della sanità abbia rimosso nel 1974 l’omosessualità dall’elenco dei disturbi sociopatici della personalità e che il Parlamento europeo spinga oltre ogni misura affinché tutti i paesi europei varino leggi contro la morale naturale, non stupisce chi da molto tempo denuncia la deriva antiumana portata avanti con incredibile determinazione dalle lobby massoniche nazionali ed internazionali».
«D’altra parte, se corrisponde al vero ciò che lei afferma è altrettanto vero che fino a meno di quarant’anni fa il dato giuridico coincideva col dato naturale, anche su altri importanti temi come ad esempio l’aborto, riconosciuto in tutte le epoche precedenti come una grave deviazione dall’ordine naturale»
«In realtà, la presunta difesa dei diritti di alcune minoranze portata avanti da élite minoritarie ma estremamente potenti e strategicamente collocate, costituisce un’abile copertura al vero obiettivo che si vuole raggiungere, ossia la distruzione dell’istituzione familiare vista come residuo arcaico ed insopportabile dell’eredità cristiana. La vera discriminazione è quella perpetrata nei confronti di chi si rifiuta di allinearsi alla mentalità “moderna”. Solo per citare alcuni esempi, nelle scuole inglesi si fanno recitare a bambini delle elementari spettacoli in cui vengono “rielaborate” le principali fiabe con il principe e la principessa che diventano due lei o due lui, in modo tale da ben inculcare nelle menti dei bambini la perversa idea di società propagandata dagli adulti; alcuni mesi fa è apparsa sugli autobus pubblici di Roma la pubblicità di una linea telefonica per gay, patrocinata dal Comune, dalla Regione e dalla Provincia, quindi coi soldi dei cittadini, in larga parte né omosessuali né favorevoli a tali forme di “discriminazione positiva”».
«Chi ama veramente gli altri e dunque obbedisce al Comandamento dell’amore dettatoci da Cristo stesso, è chi difende ad ogni costo la morale naturale, a garanzia proprio dei più deboli. Pecca gravemente chi si ostina a negare la realtà dei fatti e a colludere colla cultura di morte dominante. Non si illuda caro avvocato, malgrado le forze del male siano straordinariamente agguerrite ed occupino i principali posti di potere ci sarà sempre un piccolo gregge pronto a sacrificare anche la propria libertà in nome della Verità e della Vita».

(Fonte: Dr. Alfredo De Matteo, Comitato verità e vita, 16 ottobre 2009)