domenica 24 luglio 2011

A proposito del Sacerdozio alle donne e della Cresima ai bambini. Ci sono vescovi e vescovi...

Se c’è una questione chiara, definitivamente risolta, questa è l’esclusione delle donne dal sacramento dell’Ordine. Tutti gli elementi per risolverla erano già contenuti nella dichiarazione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede Inter insigniores del 15 ottobre 1976. L’unico limite di quella dichiarazione era la sua “nota dottrinale”: essa veniva presentata come un documento “disciplinare, autorevole e ufficiale”, ma non “infallibile né irreformabile” (cfr. Enchiridion Vaticanum, vol. 5, pp. 1392-3, in nota). Forse proprio per tale motivo quella dichiarazione non pose fine alle discussioni in materia. Fu così che Giovanni Paolo II si sentì costretto a intervenire di nuovo, in maniera più autorevole, con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994. Non venivano portate nuove motivazioni a sostegno della non-ammissione delle donne al sacerdozio. Si trattava semplicemente di porre fine alle interminabili discussioni in materia:
«Benché la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti più recenti, tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare.
«Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4).
Le espressioni usate mi sembra che non lascino dubbi. Eppure anche in questo caso ci fu bisogno di un ulteriore intervento della Santa Sede per precisare il valore del pronunciamento pontificio. Ciò avvenne con la risposta a un dubbio da parte della Congregazione per la dottrina della fede in data 28 ottobre 1995:
«Dubbio: Se la dottrina, secondo la quale la Chiesa non ha la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne, proposta nella Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis, come da tenersi in modo definitivo, sia da considerarsi appartenente al deposito della fede. Risposta: Affermativa.
«Questa dottrina esige un assenso definitivo poiché, fondata nella Parola di Dio scritta e costantemente conservata e applicata nella Tradizione della Chiesa fin dall’inizio, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 25, 2). Pertanto, nelle presenti circostanze, il Sommo Pontefice, nell’esercizio del suo proprio ministero di confermare i fratelli (cfr. Lc 22:32) ha proposto la medesima dottrina con una dichiarazione formale, affermando esplicitamente ciò che si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede».
Tale intervento della CDF precisa che la dottrina contenuta nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis è definitiva e infallibile (praticamente si tratta del secondo caso in cui è stata esercitata l’infallibilità pontificia dopo la sua definizione nel Concilio Vaticano I; la prima volta era stata con il dogma dell’Assunzione). A questi interventi specifici vanno aggiunti il can. 1024 («Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile») e, se questo non dovesse apparire sufficiente per il suo carattere giuridico, il n. 1577 del Catechismo della Chiesa cattolica:
«Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile [“vir”]”. Il Signore Gesù ha scelto uomini [“viri”] per formare il collegio dei dodici Apostoli, e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il collegio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione delle donne non è possibile».
Che altro ci si dovrebbe aspettare dalla suprema autorità della Chiesa per porre fine alle discussioni su una determinata questione?
Eppure recentemente il Patriarca di Lisbona, il Card. José da Cruz Policarpo (quindi non Hans Küng o un qualsiasi altro teologo progressista), in una intervista ha avuto la dabbenaggine di affermare che non esiste nessun ostacolo fondamentale dal punto di vista teologico all’ordinazione delle donne; si tratterebbe solo di una tradizione risalente ai tempi di Gesù. «Giovanni Paolo II in un certo momento è sembrato dirimere la questione. Penso che la questione non si possa risolvere così. Teologicamente non c’è alcun ostacolo fondamentale; c’è questa tradizione, diciamo così: non si è mai fatto in altro modo». Mi piacerebbe capire quale nozione abbia il Card. Policarpo di “teologia” e di “tradizione”. Ma, a parte questo, ciò che lascia più allibiti è che un Vescovo-Patriarca-Cardinale non riesca a cogliere il valore degli interventi pontifici: un Papa dirime in maniera definitiva e infallibile una questione, e il Vescovo-Patriarca-Cardinale che fa? Si sente in diritto di affermare: «Penso che la questione non si possa risolvere così». Di grazia, ci dica Sua Eminenza: come si dovrebbe risolvere?
Accortosi della gaffe, il Card. Policarpo ha cercato di correre ai ripari. Lo ha fatto scrivendo una lettera, nella quale riconosce di non aver mai trattato sistematicamente la questione (ma allora, perché ne ha parlato?). «Le reazioni a questa intervista mi hanno costretto a considerare il tema con più attenzione, e ho verificato che, soprattutto per non aver tenuto in debito conto le ultime dichiarazioni del Magistero sul tema, ho dato luogo a queste reazioni» (c’era bisogno che qualcuno si indignasse per accorgersi di non “aver tenuto in debito conto le ultime dichiarazioni del Magistero sul tema”?). Passa quindi a riaffermare la sua assoluta comunione col Santo Padre (se è comunione l’ignorare o il prendere sottogamba il suo magistero infallibile…) e la dignità della donna nella Chiesa (che nessuno si era mai sognato di mettere in discussione). Termina ribadendo che solo inizialmente poteva sembrare che si trattasse di una questione aperta; gli interventi più recenti del Magistero interpretano la tradizione di ordinare esclusivamente uomini «non solo come un modo pratico di procedere, che può cambiare al ritmo dell’azione dello Spirito Santo, ma come espressione del mistero stesso della Chiesa, che dobbiamo accogliere nella fede». Mi chiedo: queste cose perché non le ha dette nell’intervista? Doveva aspettare le polemiche, per approfondire la questione e giungere a tali conclusioni? In poche parole, una toppa peggiore dello strappo.
Ma, a quanto pare, non si finisce mai di stupirsi. Sono di questi giorni le dichiarazioni di solidarietà dei Vescovi portoghesi col Card. Policarpo. Essi trovano “esagerate” le pressioni che hanno costretto il Patriarca a pubblicare la precisazione. Sembra che anche i confratelli del Patriarca non si rendano ben conto delle loro affermazioni. Essi infatti sostengono che le dichiarazioni di Dom Policarpo sono di indole teologica e non intendono in alcun modo mettere in causa le regole della Chiesa (e ci risiamo: continuano a considerare la questione come puramente disciplinare, mentre essa è stata risolta, in maniera definitiva, proprio sul piano dottrinale!): «Non si tratta di una questione dogmatica e, come tale, può essere discussa»; «La questione deve essere dibattuta e studiata dai teologi»; «Questo richiederà un dibattito molto lungo e allargato e la convocazione di un sinodo o anche di un concilio». E questi sarebbero i Vescovi portoghesi? Due sono le cose: o sono eretici, o sono ignoranti. Non volendo mettere in dubbio la loro buona fede, sono costretto a concludere che sono semplicemente ignoranti, che cioè non hanno mai letto né il Codice di diritto canonico né il Catechismo della Chiesa cattolica né, tanto meno, la dichiarazione Inter insigniores o la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis. E, oltre a ciò, non sanno come funziona la Chiesa. Ma è proprio questo che lascia di stucco: come fanno certe persone a diventare Vescovi?
Per fortuna non tutti i Vescovi sono così, quando si esprimono sulla disciplina dei sacramenti. Ho letto con grande piacere la notizia che il Vescovo di Fargo, in North Dakota, Samuel J. Aquila, ha sostenuto di recente, in una conferenza, la necessità di amministrare il sacramento della Confermazione prima della prima Comunione. Oggi è diventato pressoché un dogma affermare che la Cresima è il “sacramento della maturità cristiana”, e si fa discendere da tale affermazione, affrettata e superficiale, la prassi pastorale di conferire tale sacramento durante l’adolescenza (il compianto Padre Nocent sosteneva che si era fatto della Cresima il “sacramento degli sbarbatelli”). Mettere la Confermazione dopo la prima Comunione non fa che oscurare il primato dell’Eucaristia come completamento dell’iniziazione cristiana. Secondo il vescovo Aquila i bambini dovrebbero ricevere la Confermazione e la prima Comunione durante la stessa Messa (come avveniva una volta anche da noi). La lunghezza della preparazione alla Cresima potrebbe dare l’impressione che essa sia più importante del Battesimo e dell’Eucaristia. La convinzione che la Confermazione sia per un giovane il modo per prendere un impegno personale nella vita cristiana distorce il sacramento: «La Confermazione non è caratterizzata dalla scelta di credere o non credere nella fede cattolica. Piuttosto, come discepoli, noi siamo scelti da Dio per ricevere la pienezza dello Spirito Santo, per essere segnati con il dono dello Spirito Santo generosamente accordato da Dio, e noi siamo chiamati a cooperare con questa grazia». La Cresima è ordinata all’Eucaristia: appare strano far partecipare uno alla vita eucaristica della Chiesa quando non ha ancora ricevuto «il sigillo dello Spirito Santo, che perfeziona il vincolo personale con la comunità». Alcuni dicono che è necessario essere maturi per ricevere il sacramento; il vescovo Aquila sostiene che anche i bambini possono essere maturi spiritualmente: «Se sono abbastanza maturi per ricevere l’Eucaristia, che è il culmine dei sacramenti, non sono forse abbastanza maturi per ricevere il sacramento ad essa ordinato?».
Questi si che sono Vescovi! E, oltre a essere Vescovi, sono anche teologi, che non perdono tempo a discutere questioni su cui non c’è niente da discutere, ma che ragionano con grande libertà su questioni di vitale importanza per la vita della Chiesa. Che il Signore ci doni tanti di questi Vescovi!

(Fonte: Padre Giovanni Scalese, Senza peli sulla lingua, 10 luglio 2011)


domenica 17 luglio 2011

Il card. Bertone vuole il San Raffaele

Mentre Benedetto XVI è nella quiete di Castel Gandolfo, nella segreteria di stato vaticana si susseguono giornate febbrili. A far salire la febbre non sono soltanto le ordinazioni episcopali illecite in Cina. La segreteria di stato è impegnata allo spasimo anche in quello che considera il suo cortile di casa, l'Italia.
Il cardinale Tarcisio Bertone vuole creare in Italia un polo cattolico di eccellenza nel campo della sanità. Riunendo sotto il controllo e la guida del Vaticano tre ospedali di avanguardia quali il Bambino Gesù, il Gemelli e il San Raffaele. Il Bambino Gesù, ospedale specializzato in pediatria con sede centrale a Roma, il segretario di stato l'ha già sotto controllo dal 2008, da quando ha collocato alla sua presidenza un manager di sua stretta obbedienza, Giuseppe Profiti, da lui già apprezzato come vicepresidente di un altro importante ospedale, il Galliera di Genova, negli anni in cui lo stesso Bertone era arcivescovo di quella città e quindi, per statuto, anche presidente di quell'ospedale.
Ma il Gemelli e il San Raffaele no. Non dipendono in nulla dalla segreteria di stato vaticana. Per ora. L'attività frenetica che Bertone sta sviluppando punta precisamente alla loro conquista. E il successo o no dell'operazione ha tempi strettissimi, sul filo dei giorni.
Il policlinico Agostino Gemelli
Famoso in tutto il mondo perché ospitò e curò Giovanni Paolo II dopo avergli salvato la vita dal terribile attentato del 1981, è l'ospedale e la facoltà di medicina dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. La sua conquista passa quindi per il controllo dell'istituto fondatore e promotore di questa università: l'Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori.
Il Toniolo è composto da undici membri. Una decina di anni fa vi comandavano due politici di lungo corso, Emilio Colombo, già presidente del consiglio, e Oscar Luigi Scalfaro, già presidente della repubblica. Il loro patrono ecclesiastico era il segretario di stato dell'epoca, il cardinale Angelo Sodano, mentre il loro manager di riferimento era il direttore amministrativo dell'Università Cattolica, Carlo Balestrero. La svolta si ebbe tra il 2002 e il 2003, con la nomina a rettore della Cattolica del professor Lorenzo Ornaghi e con la nomina a presidente del Toniolo dell'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi: quest'ultima nomina voluta da Giovanni Paolo II in persona. Grazie a questa svolta e all'uscita di scena di Colombo e di Scalfaro, il controllo del Toniolo passò di fatto alla conferenza episcopale italiana, all'epoca presieduta dal cardinale Camillo Ruini. Nel Toniolo entrarono successivamente altre personalità a lui legate, tra cui, nel 2004, l'allora direttore del quotidiano della CEI "Avvenire", Dino Boffo. Come direttore amministrativo dell'università, a Balestrero subentrò Antonio Cicchetti, il creatore del Gemelli. Ornaghi fu poi per altre due volte confermato rettore. Gli sconfitti però non si diedero per vinti. Contro Cicchetti, Ornaghi e Boffo cominciarono a circolare delle carte diffamatorie, spedite anonimamente, a più riprese, a cardinali, a vescovi, ad autorità civili, a giornalisti.
Una di queste carte false, contro Boffo, il 28 agosto 2009 uscì clamorosamente sulla prima pagina de "il Giornale". E né la segreteria di stato vaticana retta dal cardinale Bertone, né il quotidiano che da essa dipende, "L'Osservatore Romano" diretto da Giovanni Maria Vian, fecero alcunché in difesa del diffamato. Anzi, proprio in quei giorni Vian, in un'intervista al più diffuso giornale italiano, il "Corriere della Sera", imputò a Boffo d'essere un cattivo direttore.
Colpendo Boffo e "Avvenire", era evidente che il bersaglio ultimo era la CEI di Ruini e del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco; così come il "progetto" da essi perseguito di una Chiesa molto presente e attiva nella società e nella cultura.
Che il cardinale Bertone volesse – e voglia tuttora – essere lui la guida della Chiesa italiana "per quanto concerne i rapporti con le istituzioni politiche" non è un segreto. Quando, il 25 marzo del 2007, Bagnasco entrò in carica come presidente della CEI, fu lo stesso Bertone a scriverglielo nero su bianco, in una lettera pubblica. Di quella lettera, Bertone neppure aveva avvertito al papa. L'aveva scritta tutta da solo, incurante di contraddire il documento pontificio "Apostolos suos" del 1998, che attribuisce non alla segreteria di stato ma alle conferenze episcopali "i rapporti con le autorità civili, la difesa della vita umana, della pace, dei diritti umani, anche perché vengano tutelati dalla legislazione civile, la promozione della giustizia sociale, l’uso dei mezzi di comunicazione sociale". Nel 2010, l'offensiva contro il Toniolo si sviluppò in tre lettere indirizzate al cardinale Tettamanzi e fatte trapelare sulla stampa, firmate dal professor Alberto Crespi, già preside della facoltà di giurisprudenza dell'Università Cattolica. Nelle lettere si accusava di "cattiva gestione" il Toniolo e si lamentava, tra l'altro, che avesse cooptato tra i suoi membri Boffo invece del professor Giovanni Maria Flick, già presidente della corte costituzionale, uomo di fiducia del cardinale Bertone. Nel 2011 è lo stesso Bertone ad agire in prima persona. Il 18 febbraio scorso, il segretario di stato scrive al cardinale Tettamanzi per rinnovargli le critiche e per chiedergli di dimettersi dalla presidenza del Toniolo, di farvi entrare al suo posto Flick e di accelerare la sostituzione di altri tre membri del comitato. Il tutto in tempi strettissimi, prima del cambio di arcivescovo a Milano, previsto per fine giugno. Tettamanzi risponde inviando una memoria scritta a Benedetto XVI, nella quale respinge punto per punto le accuse di cattiva gestione e anzi, mette in luce le iniziative adottate a sostegno dell'Università dallo stesso Toniolo e dal nuovo direttore amministrativo della Cattolica, Enrico Fusi. Il 30 aprile, Benedetto XVI riceve in udienza Tettamanzi. Lo ascolta, fa entrare Bertone e ordina che nel Toniolo nulla si cambi fino a dopo l'arrivo a Milano del nuovo arcivescovo, che sarà il cardinale Angelo Scola, notoriamente inviso allo stesso Bertone.
Ma il segretario di stato non si arrende e – con Scola già nominato arcivescovo di Milano ma non ancora entrato in diocesi – chiede di nuovo a Tettamanzi di farsi da parte, in nome di un necessario e urgente "rinnovamento" che comprenda anche la riscrittura degli statuti del Toniolo e della stessa Università Cattolica, con l'attribuzione al Vaticano di poteri di guida che oggi non ha.
Boffo, nel frattempo diventato direttore generale di TV 2000, la tv di proprietà della CEI, interpellato dai giornalisti, il 7 luglio dice: "La logica della lotta di potere mi sembra sia avulsa da questo pontificato e quindi mi auguro che le indiscrezioni vengano smentite". Ma una "fonte vicina alla segreteria di stato", anonima ma riconoscibilissima, gli replica l'indomani, sul "Corriere della Sera", chiamando a sostegno proprio il pontefice: "Il cardinale Bertone si identifica con il papa, è Benedetto XVI a volere il cambiamento e la trasparenza; chi distingue tra il pontefice e il suo segretario di stato o è in malafede o non ha capito nulla". I fatti dicono l'opposto, In ogni caso, l'arrivo di Scola a Milano, il 25 settembre, scriverà la parola fine sulla fallita campagna di Bertone per la conquista del Toniolo, e quindi del policlinico Gemelli.
Il San Raffaele
Ancor più incerto, poi, appare l'esito dell'altra campagna in cui Bertone si è impegnato allo spasimo, quella per la conquista del San Raffaele.
Il San Raffaele è un grandioso polo ospedaliero d'avanguardia, fondato e presieduto a Milano da un sacerdote, Luigi Maria Verzé, che però non ha nulla nei suoi statuti che lo leghi alla Chiesa, e ha poco di cattolico anche in quello fa. Basti dire che vi si pratica la fecondazione artificiale, condannata dalla Chiesa, e che nei suoi modernissimi laboratori si compiono ricerche svincolate dai criteri etici affermati dal magistero.
Non solo. Nell'annessa Università Vita-Salute, dedicata agli studi umanistici, vi insegnano filosofia, teologia e materie scientifiche docenti in plateale contrasto con la visione cattolica, da Emanuele Severino a Massimo Cacciari, da Roberta De Monticelli a Vito Mancuso, da Edoardo Boncinelli a Luca Cavalli-Sforza. Lo stesso don Verzé ha più volte impensierito le gerarchie cattoliche, con dichiarazioni confusamente favorevoli all'eutanasia o all'utilizzo degli embrioni. Ciò non toglie che il San Raffaele, guardato all'inizio con forti sospetti da un arcivescovo di Milano come Giovanni Battista Montini, abbia poi raccolto consensi e simpatie da parte soprattutto di un altro arcivescovo, Carlo Maria Martini.
Oggi a concentrare l'interesse sul San Raffaele è il cardinale Bertone. Che ha pensato addirittura di annetterne la proprietà. L'occasione è data dal colossale debito, di quasi un miliardo di euro, che ha portato il San Raffaele sull'orlo della bancarotta. Nei mesi scorsi si erano affacciate diverse ipotesi di salvataggio. Queste però si sono ritirate quando sono entrati in campo, a fine giugno, Bertone e lo IOR, Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana. Lo IOR si è detto pronto a versare subito 200 milioni di euro, mentre un miliardo in 3-5 anni lo assicurerebbe una "charity" internazionale finora avvolta nel mistero (il finanziere George Soros ha smentito di essere parte dell'affare). In cambio, il cardinale Bertone ha preteso l'ingresso nel consiglio d'amministrazione della Fondazione Monte Tabor, che governa l'intero complesso, di quattro suoi fiduciari: Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR, Giuseppe Profiti, presidente dell'ospedale Bambino Gesù, Giovanni Maria Flick, aspirante presidente, come s'è visto, dell'Istituto Toniolo, e l'industriale genovese Vittorio Malacalza.
Riunitosi con i suoi fedelissimi il 7 luglio, don Verzé si è detto pronto ad accettare l'offerta di salvataggio vaticana e l'ingresso dei quattro fiduciari di Bertone nel consiglio della Fondazione. Con loro, entrerebbero anche Massimo Clementi, preside della facoltà di medicina e chirurgia dell'Università VIta-Salute, e il professor Maurizio Pini, dell'Università Bocconi, in rappresentanza della "charity". A don Verzé i nuovi arrivati conserverebbero il ruolo di presidente onorario. Lui però insiste a volere di più, a mantenere tutti i poteri e ad aumentare da sette a nove il numero dei consiglieri, per far posto a due sue fedelissime, Gianna Zoppei e Laura Ziller.
I tempi per il salvataggio sono strettissimi. Tutto si deciderà nei prossimi giorni. Ma se l'operazione è già piena di incognite sul terreno finanziario, ancor di più lo è su ciò che dovrebbe più stare a cuore alle autorità della Chiesa. Infatti, se la Santa Sede diventasse proprietaria del San Raffaele, non potrebbe accettare che lì si continuino ad insegnare e a praticare cose contrarie al magistero cattolico.
Incredibilmente, però, risulta che il cardinale Bertone non abbia soppesato questo problema, né che ne abbia discusso con i suoi uomini di fiducia, prima di avventurarsi nella conquista del San Raffaele. Solo in questi ultimissimi giorni la questione è stata posta per la prima volta all'attenzione del segretario di stato. Quella che egli ha concepito come una "rivoluzione epocale" rischia così di trasformarsi, se non fermata in tempo, in un costoso e disastroso boomerang.
Perché rifondare da capo, su basi cattoliche, un complesso come il San Raffaele che cattolico non è mai stato, è semplicemente un'impresa impossibile.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa.espressonline.it, 15 luglio 2011)


mercoledì 13 luglio 2011

L'ortodossia cattolica alla riscossa: chiare parole di padre Giovanni Cavalcoli

La restaurazione dell'ortodossia cattolica, arduo e contrastato progetto del pontificato di Benedetto XVI, richiede anzi tutto l'impegno severo e animoso di teologi dotati di profonda dottrina e di risoluto coraggio. Ai teologi oggi è richiesto di contrastare l'odio contro la verità diffuso da potenti sette anticristiane (finanza iniziatica, massoneria, club pederastici, associazioni malthusiane, cattedre di medicina disumana, stampa sedicente progressista, partiti politici impegnati alla corruzione della famiglia ecc.), associazioni che sanno approfittare abilmente della codardia e del conformismo al rimbalzo tra le paure e gli smarrimenti del clero e le vanità dei cattolici sedicenti adulti.
In breve: l'impegno richiesto per il bene della Chiesa cattolica contempla anzi tutto la carità che congeda il buonismo, maschera del trionfante pensiero debole e (non è un gioco di parole) causa primaria delle debolezze (e dolcezze) di pensiero incombenti sulla cultura cattolica.
Vissuto con virile coraggio, il pensiero cristiano può affrontare efficacemente i rovinosi fantasmi di una teologia effeminata e devastata dai luoghi comuni.
In qualunque momento, la vera fede può sostituire le chiacchiere sincretiste, la carità può sorpassare le debolezze di un ecumenismo artefatto, la speranza può animare la resistenza contro la tentazione di capitolare o di scendere a patti con l'assoluto mondano. La condizione è l'attività di uomini dotati di idee chiare e di coraggio a tutta prova.
Nello scenario della riscossa cristiana, si situa l'opera del ravennate Giovanni Cavalcoli o. p., "uno dei più illustri teologi, la cui lunga e ricca produzione pubblicistica è nota dovunque", scrive opportunamente Paolo Deotto nella prefazione a "Parole chiare sulla vita della Chiesa", raccolta di scritti, edita in questi giorni dal dinamico Giovanni Zenone per i tipi della veronese Fede & Cultura.
Idee chiare declinate secondo la carità. Visione realistica, dalla quale ha origine il fermo richiamo all'obbligo di contrastare l'errore: «dopo il Concilio Vaticano II e in nome di esso, è sorto un potente movimento di idee nel mondo cattolico, il quale ha ulteriormente minimizzato il riferimento conciliare all'ostilità del mondo contro la Chiesa e quindi la necessità di una lotta contro il mondo ... per cui si è giunti a vedere il rapporto Chiesa-mondo solo in termini di dialogo e di confronto costruttivo e ci si è fatti la convinzione che la Chiesa non ha nemici e che quindi non deve combattere nessuno».
Definito con chiarezza l'errore che ha disarmato i cattolici, padre Cavalcoli rammenta agli smemorati che «tra le forze storiche tradizionalmente e apertamente ostili alla Chiesa, le quali al tempo del Concilio parevano aver attenuato la loro attività demolitrice, apparve in qualche modo la Massoneria, che non è più citata nel nuovo Codice di Diritto Canonico, benché esso faccia riferimento a società segrete che tramano contro la Chiesa».
Il buonismo ha soffocato o attenuato la coscienza del mortale pericolo costituito dalla massoneria. Per l'incontrollato e intemperante ottimismo intorno alle intenzioni degli antichi nemici, l'argomento massoneria è stato frettolosamente respinto ai margini degli studi cattolici e quasi abbandonato alle improvvisazioni di inquisitori dilettanti. L'autorevole e per ora solitario intervento di padre Cavalcoli riapre il discorso sulla inimica vis, e sollecita il risveglio della cultura in sonno tra le braccia dell'ottimismo ingiustificato.
Ora l'infermità che affligge una vasta frazione del clero è «la falsità nelle cose di Dio - ecco l'eresia - che nasce da superbia, empietà, egocentrismo, autoreferenzialità, ambizione, invidia, ipocrisia, odio deliberato e prolungato, calunnia prepotenza, brama del potere, rifiuto di perdonare e di chiedere perdono».
Per combattere il disordine mentale - il fumo di satana nella Casa di Dio [paventato dal grande Paolo VI, ndr] - padre Cavalcoli indirizza ai pastori due suggerimenti desunti dall'intramontabile dottrina di San Tommaso: ridare al peccato di eresia l'importanza che si merita, operare per la buona formazione del clero, cioè preoccuparsi «che i futuri preti siano dei grandi amanti della verità e sappiano respingere con evangelica fermezza gli errori contrari. È infatti soltanto sulla base della verità che può nascere quella carità che ci porta a purificarci dei nostri peccati e a conquistare la santità».
La lettura dei saggi di padre Cavalcoli è pertanto consigliata e vivamente raccomandata ai fedeli smarriti dalla confusione in cui versa la teologia giornalistica e tentati di cedere alla sfiducia nella Chiesa cattolica. I testi di padre Cavalcoli, infatti, dimostrano che la roccia di Pietro resiste agli assalti dei nemici. Le incertezze e le oscurità dei testi conciliari e le loro arbitrarie e devastanti interpretazioni hanno turbato la tranquillità nell'ordine ma non hanno rovesciato l'ortodossia, come era nei disegni delle sette nemiche. L'equilibrio e la saggezza di padre Cavalcoli inducono a rinnovare la fede nelle promesse di Cristo alla Chiesa.

(Fonte: Piero Vassallo, Riscossa Cristiana, giugno 2011)

Missione metropoli: La nuova evangelizzazione in Europa

Per evitare il rischio che la nuova evangelizzazione diventi solo una fortunata formula adatta a ogni stagione, è importante che essa venga riempita di contenuti in grado di qualificare l'azione pastorale delle diverse comunità cristiane. In questo senso, la pastorale di ogni giorno, che anima da sempre la vita della Chiesa, dovrà prendere maggiore consapevolezza di dover diventare nuova nella sua proposta e nelle modalità di attuazione.
Benedetto XVI, parlando alla prima plenaria del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, ha detto quanto sia decisivo andare oltre la frammentarietà e presentare segni concreti capaci di dare risposta alle grandi sfide presenti nella società. Per corrispondere a questa esigenza, si è pensato di porre in atto una "missione metropoli". Lo scopo è semplice: dare un segno di unità tra diverse diocesi presenti in grandi città europee particolarmente segnate dal secolarismo.
L'iniziativa, al momento, è limitata ad alcune grandi diocesi europee per verificarne più concretamente l'efficacia. Il progetto, comunque, dovrebbe estendersi oltre i confini del vecchio continente, pur con modalità rispettose delle diverse tradizioni culturali ed ecclesiali.
La scelta dell'Europa è determinata dal fatto che ben due sinodi hanno riflettuto sull'attuale situazione. Nel 1991 e nel 1999 i vescovi hanno analizzato con franchezza non solo le condizioni sociali e culturali di questi Paesi, ma soprattutto in quale modo le Chiese avrebbero potuto dare una risposta adeguata. Con Ecclesia in Europa Giovanni Paolo II indicava un percorso per recuperare un impegno unitario delle Chiese.

In questo senso, la "missione metropoli" intende essere un primo passo. Essa si qualifica per la realizzazione di iniziative comuni e contemporanee, che troveranno spazio nella pastorale ordinaria con un impegno specifico nella formazione, e nella quaresima del 2012 con segni pubblici offerti alla città. Proprio questa idea di iniziative comuni realizzate nello stesso tempo fornisce una nota di originalità. È un'esperienza pastorale che vuole porre tutta la comunità cristiana in stato di evangelizzazione.
La cattedrale sarà il luogo centrale per questi segni. Anzitutto, lettura continuata dei vangeli per porre al centro la Parola di Dio; poi, tre catechesi del vescovo dedicate ai giovani, alle famiglie e ai catecumeni sulle tematiche della fede; quindi, una celebrazione del sacramento della riconciliazione per attirare l'attenzione sulla confessione, anche per il suo alto valore antropologico. Un gesto di carità renderà completa l'esperienza per evidenziare che la fede professata e pregata deve essere anche testimoniata. Da ultimo, un segno di spiritualità e di carattere culturale sarà dato dalla lettura di alcuni testi significativi, tratti ad esempio dalle Confessioni di sant'Agostino.
Queste iniziative partiranno dalla cattedrale per il suo alto valore simbolico, ma con l'intento di estendersi alle parrocchie della diocesi per un'azione più diretta nel territorio. Insomma, la "missione metropoli" desidera raggiungere quanti vivono la fede, ma spesso senza la consapevolezza della peculiarità che essa infonde nello stile di vita, e quanti, pur lontani dalla fede, sono però attratti dalla persona di Gesù Cristo, perché con lui incontrino anche la sua Chiesa.
Grazie a questa iniziativa, le diocesi camminano insieme per un progetto comune, forti delle esperienze proprie e peculiari a ognuna già fatte nel passato; si sostengono a vicenda per le comuni difficoltà che si incontrano, e guardano al futuro con la speranza di unità di intenti per un recuperato senso di partecipata responsabilità e per favorire l'apporto creativo e credibile dei cristiani.

(Rino Fisichella, ©L'Osservatore Romano 13 luglio 2011)


La Madonna di Michela Murgia

A “Caffeina Cultura”, il festival del pensiero che si tiene a Viterbo fino al 16 luglio (invitati quasi esclusivamente i rappresentanti di una certa “kultura” alla “Telekabul”), giovedì scorso è sbarcata Michela Murgia, l’autrice del libro “Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna”. La Murgia, tra una battuta e l’altra, muovendosi disinvoltamente in mezzo ai luoghi comuni, leggendo in modo del tutto tendenzioso i Vangeli, enfatizzando certi aspetti e furbescamente tacendone molti altri, ha diffuso il solito stereotipo secondo il quale la condizione di minorità della donna e, soprattutto, il suo incasellamento in un ruolo ben definito è, gratta gratta, colpa della Chiesa cattolica.
Chi ha partecipato all’incontro si è portato a casa l’immagine di uomini di Chiesa, un po’ ottusi e conservatori, che deformano il Vangelo; che nei secoli hanno tramandato una figura della Madonna lontana anni luce dalla Maria “reale”; che, esercitando il loro immenso potere, hanno generato una tradizione che in realtà è un “tradimento”. Papi, vescovi, preti: la solita casta di manipolatori inaffidabili. All’accusa non è sfuggito neanche il beato Giovanni Paolo II: la sua enciclica “Mulieris dignitatem” altro non sarebbe stata che una furba “operazione di marketing” con la quale, in sostanza, il Papa ha mantenuto la condizione d’inferiorità femminile trasformandola abilmente in “genio femminile”.
La tesi della Murgia è evidentemente figlia delle sue idiosincrasie, dei suoi pregiudizi, delle sue preclusioni ideologiche. E’ stata lei, in realtà a fare quella sovrapposizione di narrazioni, quella manipolazione delle fonti che rimprovera agli altri. Basta una battuta: secondo la Murgia le sante sono tutte o suore, o vergini stuprate o (con riferimento a santa Gianna Beretta Molla) madri eroiche che, pur avendo il cancro hanno portato avanti la gravidanza. E’ una esemplificazione superficiale e inaccettabile: per confutarla basta pensare a Santa Cristina di Bolsena, a Santa Rosa da Viterbo, a Santa Rosa Venerini, tanto per rimanere dalle nostre parti. Nei suoi due millenni di storia il cristianesimo, meglio, il cattolicesimo ha conosciuto e posto alla venerazione di tutti figure femminili di straordinaria dignità e grandezza e le ha proposte come tali alla venerazione dei fedeli. La Murgia ha liquidato questa gloriosa tradizione (che tra l’altro ha reso possibile una reale emancipazione della donna del tutto inimmaginabile, come ancora constatiamo, presso altre culture) con una battuta.
Nell’incontro è stato anche detto che la Chiesa cattolica è molto indietro rispetto alla chiese “sorelle” (quelle protestanti). Ma la Murgia ha assicurato che resterà cattolica. Non perché riconosce nel suo cattolicesimo una storia, un valore, ma perché nella Chiesa cattolica c’è da lottare per portarla, “dal basso”, verso “nuove narrazioni” basate su nuove letture teologiche.
Da un festival come Caffeina ci si poteva aspettare una conferenza del genere. I preti e i vescovi sono bene accetti se parlano di camorra o se spiegano le strategie di comunicazione sul web. La tradizione cattolica, i Vangeli, l'antropologia sono invece riservati agli intellettuali organici.
Quello che più rattrista è che a sferrare l’attacco, tra una battuta e un’altra, sia stata un’intellettuale che ama esibire i suoi trascorsi nell’Azione Cattolica e il suo cattolicesimo DOC.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 8 luglio 2011)
 

mercoledì 6 luglio 2011

Vito Mancuso: un “cattolico democratico” senza essere cattolico

Commentando la nomina del cardinale Scola a Milano, ha spiegato che “la questione è politica” (curioso modo di considerare la Chiesa): siccome la Curia di Milano è stata per trent’anni nell’orbita di Martini e della sua corrente, secondo Mancuso tale doveva restare.
Invece con Scola il “cattolicesimo democratico” avrebbe subito – a suo dire – “un’umiliazione pesante” perché avrebbe perso “l’unico punto di riferimento nazionale”.
Benedetto XVI – afferma l’intellettuale di Repubblica – scegliendo Scola ha scelto di “contrastare frontalmente” la linea “cattolico democratica”. Testualmente scrive: «ai cattolici progressisti di questo paese è stata tolta anche l’ultima possibilità di avere un punto di riferimento nella gerarchia, e non so se questo sia davvero il volere dello Spirito Santo che ha sempre amato il pluralismo visto che di Vangeli ne ha ispirati quattro, e non uno solo”.
In pratica, se così stessero le cose, dovremmo concludere che il papa ha deciso di restituire a Milano il cattolicesimo tout court, senza aggettivi. E ci sarebbe solo da rallegrarsene.
Ma la chicca dell’articolo di Mancuso è quella in cui si apprende che egli è il confidente segreto dello Spirito Santo. Evidentemente lo Spirito Santo ha detto a Mancuso che sarebbe stato meglio Ravasi.
La singolare idea del cattolicesimo che ha Mancuso è stata bocciata duramente, mesi fa, da Civiltà Cattolica e da Vincenzo Vitale nel libro “Volti dell’ateismo”.
Quelle pagine mostrano che Mancuso sarà anche all’interno del “cattolicesimo democratico”, ma – visti tutti i dogmi di fede che nega (quali peccato originale, immacolata concezione, immortalità dell'anima, eternità dell'inferno) – sta sicuramente al di fuori del cattolicesimo autentico.
Mancuso, per esempio, nega la dottrina del peccato originale;  a suo dire sarebbe stato inventato nel V secolo da S. Agostino e nel 418, al Concilio di Cartagine, la Chiesa avrebbe reso dogma questo pensiero. Egli ignora il pensiero di San Paolo, all’origine del cristianesimo, e quindi molto prima di Agostino. A suo dire in san Paolo vi sarebbe soltanto il parallelismo fra Adamo e Cristo. Possibile che un sedicente teologo cattolico non abbia presente che San Paolo ha scritto, all’incirca nell’anno 58, la fondamentale Epistola ai Romani e che nel capitolo quinto di tale Epistola si trova già espressa nel dettaglio la dottrina del peccato originale? Non contento di quella topica Mancuso nega che il peccato originale sia una condizione dell’uomo e insiste nel dire che la Chiesa imputa agli uomini un peccato non commesso. Mah, c’è da invitare Mancuso a leggersi almeno il Catechismo della Chiesa Cattolica dove sta scritto a chiare lettere che il peccato originale è stato da noi “contratto”, ma non “commesso”, e che è “condizione di nascita e non atto personale” (n. 76).
Chissà a quale vangelo allude Mancuso, quando parla del “suo” vangelo: esiste forse un vangelo “cattolico democratico” o “progressista”? E dei quattro che abbiamo, quale sarebbe in particolare?

(Liberamente tratto da Antonio Socci, Libero, 26 giugno 2011)

Convegno missionario dei Carmelitani: Mons. Fisichella su “Nuova evangelizzazione”

Nell’ambito del Convegno missionario dal tema “Sono pieno di zelo per il Signore Dio dell’universo”, organizzato dalla Provincia Italiana dei Padri Carmelitani e tenutosi in Sassone (Roma) dal 22 al 24 giugno u.s., magistrale è stato l’intervento di sua Ecc.za Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, il cui testo mi è stato richiesto da molti e che pertanto riporto integralmente qui di seguito:  
«Il senso di una domanda.
"Cosa dobbiamo fare?" La domanda è presente almeno due volte nel Nuovo Testamento. La prima, nel discorso eucaristico, là dove Gesù dopo aver compiuto la moltiplicazione dei pani rimprovera la folla che era andata a cercarlo non perché avevano colto il segno compiuto, ma perché si erano fermati al pane che avevano mangiato (cfr Gv 6,26). Di fronte alle parole di Gesù: "Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà" (Gv 6,27), la folla chiede, appunto, "cosa dobbiamo fare?". La risposta appare tanto semplice quanto radicale e impegnativa: "Credere in colui che il Padre ha mandato" (Gv 6,29). La seconda volta, la stessa domanda la si ritrova negli Atti degli Apostoli; dopo il discorso di Pietro all'indomani di Pentecoste, molti si "sentirono trafiggere il cuore" e chiesero ai Dodici: "Cosa dobbiamo fare?". La risposta di Pietro era diversa da quella del Maestro solamente nei termini non nel contenuto: "Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei peccati" (At 2,38). Nell'uno come nell'altro caso, alla domanda sul "fare" viene risposto con un richiamo all' "essere"; al primato dell'agire dell'uomo, viene anticipato il primato della grazia che permette di compiere atti altrimenti impossibili.
La stessa domanda, paradossalmente, la rivolgiamo anche noi oggi. Dopo tanti discorsi sull'importanza della nuova evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dopo ripetute iniziative che hanno visto impegnate le nostre comunità, sembra che molto di debba ancora fare; anzi, il lavoro cresce avanzando nuove pretese. Vale, dunque, anche per noi la domanda: "Cosa dobbiamo fare?". Essa diventa ancora più impellente nel momento in cui oggetto del nostro discorso sono le giovani generazioni che sembrano vivere una forma di indifferenza nei confronti della fede, e non solo. Cosa dobbiamo fare, dunque? Se la risposta fosse quella di trovare immediatamente delle tecniche o delle iniziative concrete andremmo incontro al fallimento. Non perché non siano importanti, ma perché non possono essere il primo punto della questione. Se desideriamo "fare" qualcosa di efficace è necessario, in primo luogo, avere un'intelligenza del fenomeno. Non è qui il caso di riproporre analisi sociologiche o statistiche che tutti, bene o male, conosciamo. Ciò che dovremmo essere capaci di fare è proporre un progetto carico di senso e preludio per la realizzazione della propria vita. Un progetto, quindi, che possa essere a fondamento di alcune certezze e non sottoposto al dubbio dello scetticismo. Il nostro contemporaneo, dobbiamo confessarlo, è sottoposto malgré lui a una serie di proposte effimere, senza radice, costruite solo su ipotesi che spesso si risolvono in delusioni profonde, dopo un brevissimo istante di fascino passeggero.
Dinanzi a questa permanente domanda, pertanto, la prima reazione che mi viene spontanea è quella di dire: puntiamo gli occhi sull'essere e non sul fare. Il concilio lo ricordava con una buona dose di provocazione quando, riprendendo alla lettera le parole di Paolo VI, scriveva in Gaudium et spes: "L'uomo vale più per quello che «è» che per quello che «ha»" (GS 35). In un contesto culturale come il nostro, che vede indubbiamente un equivoco primato del "fare" e dell' "avere", sarebbe pericoloso per noi pastori cadere in una trappola simile. Se dedicassimo le nostre forze alla moltiplicazione delle attività e delle iniziative, dimenticando cosa le deve sostenere e lo scopo per cui le poniamo in essere, arriveremmo alla fine della nostra giornata con la profonda illusione di non avere prodotto molto. Facciamo ore di catechesi, i locali delle nostre parrocchie sembrano sempre troppo pochi per la molteplicità delle attività… eppure, cosa rimane di tutto questo se poi, alla fine, verifichiamo che le nostre chiese sono sempre più vuote e frequentate da persone anziane? che tra la prima comunione e la cresima il numero dei ragazzi si dimezza? che dopo la cresima riusciamo ad avere un piccolo resto con cui rallegrarci per dire di avere il "gruppo giovani"? che i nostri fedeli, figli del loro tempo, vivono poi le contraddizioni tipiche di questo momento subendo quasi una schizofrenia tra la vita quotidiana e quella di fede?
Alla base del cambiamento
Ciò che mi sembra prioritario, anzitutto, è il recupero della coscienza su ciò che determina i comportamenti delle persone e, di conseguenza, quali strumenti apportare nella nostra pastorale perché l'opera formativa che ci compete possa essere efficace e coerente. E' necessario e urgente, in primo luogo, comprendere che siamo dinanzi a un cambiamento reale di paradigmi di pensiero e di linguaggio che non permettono più di affrontare la vita, il mondo, il rapporto con gli altri, la fede e i grandi valori come nel passato. Questo cambiamento, che ha tutti i tratti per essere considerato epocale, passa inevitabilmente attraverso il linguaggio a cui tutti siamo sottoposti. Anche i concetti più semplici e abituali e i termini a noi più familiari non sono più percepiti né compresi alla stessa stregua del nostro pensarli. In una parola, siamo dinanzi alla verifica di una profonda ignoranza dei contenuti basilari della fede.
Se fosse possibile, nella schematizzazione che sono obbligato a mantenere, direi che il nostro primo obiettivo dovrebbe essere quello di considerare l'importanza del linguaggio. Uso il termine in maniera onnicomprensiva per indicare non solo le nostre parole, ma anche i nostri gesti, le nostre espressioni e, soprattutto, gli stili di vita… insomma, tutto ciò che è posto in essere dal nostro modo di pensare. Evitare questo passaggio non serve e non rende più appetibile la nostra proposta pastorale, come se questo discorso fosse un perditempo a cui devono dedicarsi i teologi. E' necessario entrare nel sistema di pensiero che oggi appare come dominante e verificare non solo da dove proviene, ma soprattutto a cosa tende. Siamo tutti inseriti all'interno di un movimento culturale che trova nel nichilismo di Nietzsche il suo punto di forza. Ciò comporta la perdita di ogni fondamento unitario per l'estremo scetticismo secondo cui non solo non è possibile avere una sola verità, ma neppure raggiungerla. Di fatto, tutto ruota intorno al tema dell'impossibilità per l'uomo di avere una verità; anzi, per quanto riguarda quella che gli viene proposta dalla fede, egli deve fare di tutto per liberarsene pena la sua mancanza di libertà e autonomia.
Agnosticismo e relativismo sono diventati termini comuni nella nostra predicazione e nelle nostre riflessioni; eppure, non riusciamo a comprendere fino in fondo che i nostri fedeli vivono queste realtà in maniera ormai inconscia, come se fossero naturali per loro a tal punto da non comprendere affatto le obiezioni che muoviamo a questo loro modo di pensare e di essere. L'obiezione che ci viene mossa si traduce nell'ovvietà della domanda: "…Ma tanto, cosa c'è di male?". Ci si viene a scontrare con un fatto rilevante per cui, da una parte, noi conduciamo una discussione teorica sul tema della vita, della fede e della verità; mentre, dall'altra, i comportamenti che vengono assunti dipendono inconsciamente da premesse che ne negano ogni valore comune per ridurlo al solo sentimento e giudizio individuale, dove tutto è permesso purché l'altro agisca come vuole senza intaccare la mia libertà personale. E' necessario per questo, che impegniamo le nostre forze perché l'azione pastorale abbia a mirare su temi essenziali e per questo presentati con argomentazioni il più solidamente fondate. Entrano in gioco, a questo punto, due elementi importanti: contenuti brevi con un linguaggio incisivo e comprensibile, Non dovremmo avere timore di ricorrere anche a nuove espressioni semantiche o nuove parabole del vivere quotidiano, purché coerenti con la verità di sempre. Questi elementi, comunque, devono trovarci con una duplice convinzione: la ripetitività dei contenuti nelle diverse sedi del nostro ministero; non è sufficiente fare una bella catechesi e poi non ritornare più sull'argomento. La ripetitività è un punto basilare per incidere sulla memoria, di cui oggi si soffre particolarmente la mancanza. Inoltre, la pazienza che sa attendere il momento più opportuno per verificare la comunicazione dei contenuti e la loro efficacia. Questa, comunque, richiede da parte nostra l'impegno a saper recuperare con forza l'incontro interpersonale e la guida spirituale dei nostri fedeli, vero strumento per la trasmissione viva della fede.
Il grande problema di oggi
"Il punto cruciale della questione sta in questo: se un uomo, imbevuto della civiltà moderna, un europeo, può ancora credere; credere proprio nella divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo. In questo infatti sta tutta la fede". Sono le parole cariche di provocazione che provengono da uno degli scrittori più significativi dell’800: Dostoewskij. Chiedersi se l'uomo di oggi è ancora disposto a credere in Gesù come Figlio di Dio comporta un’altra questione: se l'uomo di oggi sente ancora il bisogno della salvezza. Sta tutto qui il problema per noi credenti, per la nostra credibilità nel mondo di oggi; è, comunque, anche il problema per quanti non credono ma desiderano dare un senso alla loro vita. Non trovo altra possibilità al di fuori di questa condizione. Davanti alla possibilità di Gesù Cristo non si può rimanere neutrali; si deve dare una risposta se si vuole trovare un senso alla propria vita.
Uno dei tratti peculiari del cristianesimo è la sua concezione di essere profondamente inserito nella storia. Le parole di Gesù ai suoi discepoli quando ricorda loro di essere nel mondo, ma di non essere del mondo (cfr Gv 15,19; 17,13-14), sono state interpretate come un impegno fondamentale a condividere le vicende della storia, pur sapendo che l'obiettivo ultimo che dà significato pieno agli avvenimenti, va oltre la storia stessa. Con la Lettera Apostolica, Ubicumque et semper, del 21 settembre 2010, il Santo Padre ha istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Lo scopo appare da subito come una grande sfida. Dovremmo essere capaci di guardare con realismo al presente della Chiesa, per prospettarle un cammino che la impegnerà non poco nel prossimo futuro. D'altronde, viviamo un tempo di gradi sfide, che incidono non poco nei comportamenti di intere generazioni, dovute al fatto della conclusione di un'epoca con l'ingresso in una nuova fase per la storia dell'umanità. A tanti elementi positivi, che consentono di vedere un impegno più coerente nella vita di fede, corrispondono non di rado forme di "distacco dalla fede" come conseguenza di una diffusa forma di indifferenza religiosa, preludio per un ateismo di fatto. Spesso la mancanza di conoscenza dei contenuti basilari della fede porta ad assumere comportamenti e forme di giudizio morale spesso in contrasto con l'essenza stessa della fede, così come è stata sempre annunciata e vissuta nel corso dei venti secoli della nostra storia. Il relativismo, di cui Papa Benedetto ha sempre denunciato i limiti e le contraddizioni in vista di una corretta antropologia, emerge come la nota caratteristica di questi decenni segnati sempre più dalle conseguenze di un secolarismo teso ad allontanare il nostro contemporaneo dalla sua relazione fondamentale con Dio. In questo senso, sono soprattutto le nostre Chiese di antica tradizione che risentono di questa condizione, anche se nel processo di globalizzazione in cui siamo inseriti nessuno sembra sfuggire a questa drammatica situazione che crea un "deserto interiore", perché allontana l'uomo da se stesso. E' questo uno dei motivi per promuovere la nuova evangelizzazione. Essa, è la missione che "sempre e dovunque" la Chiesa ha sentito come suo compito fondamentale per corrispondere al comando del Signore di andare in tutto il mondo e fare suoi discepoli tutti i popoli della terra. Il tema della nuova evangelizzazione è stato oggetto di attenta riflessione da parte del magistero della Chiesa negli ultimi decenni. E' obbligatorio ricordare, anzitutto, il concilio Vaticano II; per alcuni versi, mi sembra di poter dire che il nuovo Pontificio Consiglio risulta essere il frutto maturo del concilio. Non tutti, forse ricorderanno il discorso di apertura di Giovanni XXIII; in quelle parole il papa descriveva le finalità del Vaticano II. Un’espressione permane come punto di riferimento per comprendere a pieno quell’evento: “Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati… occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”. Come si nota, il desiderio di Giovanni XXIII era quello di parlare all’uomo di oggi con un linguaggio comprensibile. Un passo ulteriore venne compiuto con la Evangelii nuntiandi di Paolo VI del 1974, a conclusione del Sinodo sull'evangelizzazione. Anche se in quel testo non compare l’espressione “nuova evangelizzazione”, il contenuto non è altro che una ripetuta riflessione sul tema che mantiene la sua profonda attualità fino ai nostri giorni. Per alcuni versi, essa potrebbe ritrovarsi nel famoso testo del Papa: “L’uomo di oggi non ascolta volentieri i maestri, ma i testimoni e se ascolta i maestri è perché sono testimoni”. Per questo motivo sosteneva senza retorica che “Occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell'uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione «Gaudium et Spes», partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio” (EN 20). Un passo fondamentale, in questo senso, venne compiuto da Giovanni Paolo II; a lui si deve l’espressione “nuova evangelizzazione” che permane come una costante nei suoi ventisette anni di pontificato. Da ultimo, Benedetto XVI ha voluto raccogliere il testimone compiendo un ulteriore passo concreto con l'istituzione di questo Pontificio Consiglio e stabilendo che il prossimo Sinodo dei Vescovi abbia come suo oggetto: “La nuova evangelizzazione e la trasmissione della fede cristiana”.
La Chiesa è stata voluta da Gesù di Nazareth perché fosse la continuazione viva della sua presenza in mezzo al mondo e non è mai venuta meno in questo compito; è nata con la missione di evangelizzare e nel momento in cui rinunciasse verrebbe meno alla sua stessa natura. Annunciare il Vangelo non ci rende migliori degli altri, ma certamente abilita a essere più responsabili. E' questa una missione che diventa più evidente in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando. Siamo alla fine di un'epoca che, nel bene e nel male, ha segnato la storia di questi ultimi secoli; stiamo per entrare in una nuova era del mondo che ancora appare incerta nei suoi primi passi e sembra vacillare per la debolezza del pensiero. Il ruolo dei cattolici per questo motivo diventa ancora più significativo per la ricchezza di tradizione che abbiamo costruito nel passato. Siamo stati invitati per essere "sale" e "luce"; per dare sapore alla vita e illuminare quanti sono alla ricerca di un senso. Se questa responsabilità venisse meno, il mondo non avrebbe una parola di speranza e noi saremmo destinati ad essere insignificanti.
L'opera di evangelizzazione, quindi, entra direttamente a contatto con le culture, le plasma e trasforma così come ne viene determinata nel suo linguaggio e nella sua espressività. Una cosa è costantemente verificabile nei duemila anni del cristianesimo: l’attenzione permanente che la comunità cristiana ha avuto nei confronti del tempo in cui viveva e del contesto culturale in cui veniva ad inserirsi. La lettura dei testi degli apologeti, dei Padri della Chiesa e dei vari maestri che si sono succeduti nel corso di questi duemila anni mostrerebbe con facilità l’attenzione al mondo circostante e il desiderio di inserirsi in esso per comprenderlo e orientarlo alla verità del Vangelo. Alla base di questa attenzione vi era la convinzione che nessuna forma d’evangelizzazione sarebbe stata efficace se la Parola di Dio non fosse entrata nella vita delle persone, nel loro modo di pensare e di agire per chiamarli alla conversione. Questo è stato in tempi diversi, ciò che oggi chiamiamo "nuova evangelizzazione". Non è differente ai nostri giorni; possiamo usare un'espressione diversa, ma la sostanza permane identica. Siamo chiamati ad annunciare il Vangelo in maniera efficace; questo richiede, in primo luogo, la frequentazione con la Parola di Dio che consente a quanti ascoltano di verificare non solo la nostra conoscenza del Vangelo, ma soprattutto la nostra credibilità che si esprime in una coerente testimonianza di vita. Da questo processo, comunque, non è esclusa l’attenzione a quanto vive e pensa il nostro contemporaneo; in una parola, la "cultura" del nostro tempo. L'obiettivo, quindi, è quello di riflettere e trovare le forme adeguate per rinnovare il nostro annuncio presso tanti battezzati che non hanno più identità e non comprendono più il senso di appartenenza alla comunità cristiana, con la conseguenza di un forte individualismo privo di responsabilità pubblica e sociale. Siamo chiamati, in somma, a rinnovare lo spirito missionario per compiere quel balzo capace di corrispondere alle esigenze che la nuova situazione storica richiede. In questo senso, il compito che ci attende non è diverso da quello che ha segnato sempre la Chiesa: far conoscere il vero volto di Gesù Cristo, unico salvatore, rivelatore dell'amore misericordioso del Padre che va incontro a tutti senza escludere nessuno. La Chiesa, quindi, è chiamata a rinvigorire se stessa in ciò che ha di più essenziale quale l’annuncio missionario. Qualcuno, potrebbe insinuare che decidersi per una nuova evangelizzazione equivale a giudicare l'azione pastorale svolta in precedenza come fallimentare per la negligenza posta o per la scarsa credibilità offerta dai suoi uomini. Anche questa considerazione non è priva di una sua plausibilità, solo che si ferma al fenomeno sociologico preso nella sua frammentarietà, senza considerare che la Chiesa nel mondo presenta tratti di costante santità e di testimonianze credibili che ancora ai nostri giorni sono segnate con il dono della vita. Compiere una nuova evangelizzazione, pertanto, equivale, anzitutto, a prendere sul serio la vita cristiana nell’incontro personale con Gesù di Nazareth attraverso la crescita del senso ecclesiale.
L’Europa
In questo senso, viene a porsi il problema del nostro peculiare contesto “geografico”, l'Europa. Da questa prospettiva, il cammino dell'Europa nel futuro è già segnato. L'unità di queste terre si è realizzata nel passato remoto e ciò che si prospetta per il futuro o sarà in continuità con il percorso di questi 2000 anni oppure sarà destinato al fallimento. La grande sfida è quella di vedere come la nostra generazione sarà capace di trasmettere il patrimonio di civiltà e di fede alle generazioni che verranno dopo di noi. Probabilmente, poche civiltà come la nostra conosce una ricchezza di cultura e di conquista scientifica. Se fossimo ripetitivi del passato, diventeremmo presto noiosi e incapaci di trasmissione che genera cultura; se, invece, saremo capaci di interpretare, secondo lo spirito proprio del nostro tempo, il patrimonio di cultura che abbiamo ricevuto e di cui viviamo, allora la ricchezza si accrescerà e con essa diventeremo significativi per scrivere un'ulteriore pagina di storia. Non vedo alternativa a questa condizione; d'altronde, come ha detto Benedetto XVI, "Il mondo soffre per la mancanza di pensiero". A tutti noi il compito di accettare questa sfida per diventare produttori di pensiero in grado di creare una nuova sintesi feconda per il futuro di questo continente. La storia dell'Europa, dopotutto, non inizia con i trattati di Roma del 1950. La condivisione delle risorse come il carbone e l'acciaio, l'Euratom, il mercato comune, la moneta unica sono solo tappe di un processo che deve guardare oltre gli strumenti per cogliere il senso sotteso e l'obiettivo da raggiungere. Questo dovrebbe essere l'unità riconquistata di popoli che pur nella diversità delle tradizioni e delle proprie storie hanno una matrice comune che è riconducibile al cristianesimo. Questi valori realizzati con fatica, perché composti di una sintesi tra il pensiero greco e romano riletto alla luce della Sacra Scrittura, in questi ultimi secoli si sono ossidati e rischiano di essere sottoposti a un struggente logorio non per il passare degli anni, ma per la corrosione di fenomeni culturali e legislativi che minano il tessuto sociale. Avere spalancato le porte a presunti diritti non ha portato a maggior coesione sociale né tanto meno a un crescente senso di responsabilità. Ciò che è dato verificare, piuttosto, è un preoccupante rinchiudersi in un individualismo che, presto o tardi, porterà all'asfissia dei singoli e della società. I popoli d’Europa, d'altronde, sembrano vivere con una profonda paura; vacillano molte certezze, forse, perché raggiunte con troppa fretta e senza la dovuta perspicacia. La sicurezza del lavoro, l'assistenza nella malattia, la casa, la pensione… insomma, ciò che si conosce con il nome di progresso sociale (welfare) tutto si sbriciola sotto la scure di una crisi che non lascia spazio se non all'incertezza, al dubbio e quindi alla paura e all'angoscia. In che modo si potrà uscire da questo tunnel che non è solo di ordine economico e finanziario, ma primariamente culturale e in modo ancora più specifico antropologico, è facile affermarlo, ma più complesso poterlo realizzare.
Quanto vedo personalmente all'orizzonte, proprio in forza della nuova evangelizzazione, è l'esigenza di creare un modello antropologico capace di compiere la necessaria sintesi tra quanto è frutto della conquista dei secoli precedenti e la sensibilità con la quale interpretiamo il nostro presente. Per alcuni versi, vorrei vedere all'orizzonte un neoumanesimo. Uso intenzionalmente questo termine, perché carico del significato acquistato con ragione nel corso dei secoli. Esso ha determinato una tappa fondamentale per la cultura europea. L'umanesimo, infatti, segnò a suo tempo un autentico entusiasmo che investì tutti gli ambiti dell'attività umana; ciò che costituì la sua fortuna fu appunto la freschezza del movimento che si mise in atto e che coinvolse lo spirito del tempo in modo tale da reinterpretare in modo nuovo le problematiche di sempre. L'Umanesimo fu la capacità di comprendere il cambiamento che si stava realizzando, ma ugualmente espresse la convinzione di poter rileggere e risolvere i problemi che l'umanità possedeva da sempre. Non fu una visione frammentaria del mondo, ma unitaria; così come unitaria era la lettura dell'uomo che era stato posto al centro del creato. In questa fase, che si estese dalla filosofia alla letteratura, dall'arte alla scoperta di nuove terre, Dio non era escluso ma diventava l'orizzonte di senso della ricerca personale e della vita sociale. Un umanesimo in cui la passione per la verità acquisita nel passato diventava vero traino di trasmissione di una cultura fortemente valorizzata, perché segno della conquista del sapere di cui ognuno si sentiva responsabile perché fosse custodito e reinterpretato.
Di nuovo: cosa fare?
Penso a due punti fondamentali: la centralità della famiglia e il sacramento della riconciliazione. Una straordinaria opera realizzata dal concilio fu certamente una pastorale della famiglia. La necessità di porre fine al concubinato, estremamente diffuso e anche presso molti sacerdoti, ebbe come conseguenza un impegno determinante a favore della famiglia. E’ a partire da qui che iniziano a moltiplicarsi le iniziative giuridiche per dare garanzia alla famiglia. Poco a poco questa crebbe e si rafforzò fino a giungere a quel modello valido fino a metà del secolo scorso. Nel periodo profondo di crisi che vive nella nostra società la famiglia, non sarebbe affatto secondario porre di nuovo la sua centralità nella nostra pastorale. La riflessione teologica ha già operato ormai un solido fondamento per la sua identità; ciò che occorre è un’azione pastorale continuata e permanente che possa parlare alla famiglia e della famiglia per recuperare quell’orizzonte di senso che essa possiede. Non sarà inutile sottolineare il carattere di mistero che essa possiede e la centralità dell’amore fecondo su cui si può costruire una catechesi significativa per il nostro tempo sempre più confuso sul senso dell’amore stesso. Da questa prospettiva, vorrei suggerire di non utilizzare mai l’espressione che la Chiesa difende la “famiglia tradizionale”; un simile modo di esprimersi porta l’interlocutore, a lungo andare, a pensare che siamo contro il progresso, perché altri propongono un altro tipo di famiglia più accattivante e la definiscono “moderna”. Non esiste una famiglia “tradizionale” e tanto meno “moderna”, ma semplicemente la “famiglia”, formata da un uomo e una donna; ogni altro tipo di relazione non è famiglia e rientra, eventualmente, in altri ambiti della pastorale.
Un secondo esempio che mi preme sottoporre è il recupero del sacramento della confessione. Il dopo Trento fu certamente un’opera di pastorale sacramentaria, ma quello della confessione gioca un ruolo inaspettato. Nel contesto attuale di abbandono della confessione ciò dovrebbe aiutarci a riflettere. E’ vero, la santa eucaristia è il culmen et fons della vita sacramentale; eppure, esiste una pedagogia che consente di attuare un progresso verso la pienezza dei sacramenti. La confessione, da parte sua, ha un grande valore di recupero per la nuova evangelizzazione; essa, infatti, permette di verificare alcune istanze che sintetizzo. In primo luogo, il recupero della confessione permette di verificare la realtà di se stessi e non l’illusione utopica della nostra vita. Illuso sul fatto di essere ormai autonomo e pienamente libero, l’uomo di oggi ritiene di non avere più bisogno di Dio e, nonostante questo, va alla ricerca quasi spasmodica di esperienze religiose che lo soddisfino; non una sola, purtroppo, la caratteristica di questi anni è la situazione al plurale per cui ingaggia una sfida con se stesso illudendosi ancora di più. Se non le trova, si affida alla superstizione ed è ancora peggio. Nella confessione egli ritrova la verità sulla propria vita e nella direzione spirituale può compiere un discernimento serio per comprendere dove sta andando, se segue l’effimero o l’essenziale. Perché questo avvenga, però, è necessario che il sacerdote recuperi la coscienza del valore di questo ministero. Non si dimentichi, inoltre, che l’abbandono della confessione fa perdere di vista il senso del peccato, e questo come conseguenza della mancanza del senso della comunità. La tendenza al relativismo etico e all’individualismo senza relazione di responsabilità sociale potrebbe essere vinto con il recupero della confessione e con una pastorale tesa a far comprendere il suo valore unito a quello della guida spirituale. Qui, in effetti, si viene a ricreare l’incontro interpersonale e si può far sperimentare la misericordia di Dio. In un periodo in cui, da ultimo, sembra venire sempre meno il senso del perdono per una cultura che grida violenza e vendetta, noi offriremmo un apporto non secondario al progresso della società.
Perché non pensare che la nuova evangelizzazione può essere il fondamento comune e l’obiettivo finale condiviso per restituire a tutti il senso della propria identità e il valore dell’appartenenza? Spesso si nota una noiosa ripetitività delle nostre iniziative solo perché mancano di fondamento. Sembra esserci in molti una “pastorale dello status quo” piuttosto che lasciarsi coinvolgere in una dinamica di crescita che richiede lo sviluppo e il progresso. Penso all’importanza dei sacerdoti nel loro spazio di ministero peculiare e del tempo che dedicano alla preparazione dell’omelia e della catechesi. La formazione non si improvvisa, richiede impegno di studio e fatica nella ricerca. Dovremmo domandarci a 20 anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (e del Compendio) che cosa ne è stato e quale uso ne viene fatto nelle nostre comunità per la formazione continuata dei nostri cristiani. D’altronde, proprio nel Catechismo noi troviamo una dinamica propositiva che si sviluppa nell’intero arco della storia del dogma e della Chiesa: la professione di fede, la vita sacramentale, la sequela e la preghiera. Penso alle grandi opportunità che vengono offerte con alcune celebrazioni: battesimo e funerale dove possiamo incontrare persone lontane dalla frequentazione della chiesa e comunque in quelle circostanze più facilmente aperte all’ascolto se trovano contenuti che lo meritano e che provocano a riflettere. Penso alla capacità di visitare le famiglie della propria comunità, per far sentire la presenza del sacerdote che si occupa di loro; soprattutto quando in una famiglia ci sono persone ammalate o in ospedale. Il nostro tempo sacerdotale dovrebbe ritrovare in questi momenti la forza dell’incontro interpersonale come garanzia per la trasmissione della fede. Il momento del catecumenato, che ormai investe nelle nostre regioni sempre molti adulti, e la necessaria formazione dei nostri fedeli sempre più ignari dei contenuti basilari della fede dovrebbe trovarci molto vigilanti per proporre cammini di fede permanenti anche se faticosi. Il primo annuncio che viene fatto in molti casi, non può essere confuso con tutta l’opera di evangelizzazione, perché richiede l’attenzione alle differenziate situazioni con cui ci incontriamo.
I laici, inoltre, hanno una loro peculiare presenza nella vita della Chiesa e nella nuova evangelizzazione. Non è qui il caso di ripercorrere i documenti da Apostolicam actuositatem a Christifideles laici per comprendere l’importanza che possiedono nella vita della Chiesa. Mi sembra determinante, comunque, per la pastorale il recupero dei movimenti e delle associazioni. I movimenti che conosciamo, e tanti altri che sono nati in questi anni, hanno una ricchezza innegabile e non sono alternativi alla parrocchia, ma complementari. Nelle grande varietà dei movimenti presenti nella comunità cristiana è bene che ognuno mantenga la propria metodologia di impatto evangelizzatore consapevole, comunque, della complementarità del suo apporto. D’altronde, lo sappiamo, lo Spirito agisce come vuole e soffia dove vuole a noi resta la meraviglia e l’obbedienza. La prima per comprendere la sua presenza sempre nuova; la seconda per seguirlo dove lui vuole condurre la Chiesa. Tornano alla mente le parole quanto mai significative, in questo senso, di uno degli ultimi autori della letteratura romana del III secolo, Novaziano: "Lo Spirito costituisce nella Chiesa i profeti, istruisce i maestri, dispone le lingue, opera i prodigi e le guarigioni, compie azioni meravigliose, concede il discernimento degli spiriti, assegna i posti di comando, suggerisce i consigli, dispone e distribuisce tutti gli altri doni; e così rende perfetta e completa la Chiesa del Signore in ogni luogo e in ogni cosa... Egli rende testimonianza a Cristo negli apostoli, mostra la fede stabile nei martiri, circonda nelle vergini la mirabile castità della carità insigne, negli altri custodisce inalterati e incontaminati i precetti della dottrina del Signore, annienta gli eretici, corregge gli infedeli, smaschera i bugiardi, frena i malvagi, custodisce la Chiesa incorrotta e inviolata nella santità della perpetua verginità e della verità" (La Trinità, 26, 10-26). Come si può notare è una questione di fedeltà all’azione dello Spirito non alla nostra stanchezza nel ripetere sempre le stesse attività. Mi sembra importante, comunque, sottolineare un aspetto che vedo problematico ai nostri giorni; esso si esprime in una forma di clericalizzazione dei laici che sembrano rinchiudersi nelle chiese e nell’azione liturgica dimenticando che la loro specifica azione è proprio l’evangelizzazione da compiere là dove solo loro possono giungere. Il munus sacerdotale, che è importante, non può far dimenticare o oscurare quello profetico e regale che possiede per il laico un ruolo determinante nella società.
Un capitolo importante sarebbe quello della catechesi e della sua relazione con la nuova evangelizzazione. Mi sembra che dovremmo uscire dal tunnel nel quale per decenni si è pensata la catechesi solo in vista dei sacramenti. Se la catechesi vive in funzione dei sacramenti e, oggi, questi si sono ridotti a quelli dell’iniziazione, è ovvio che viene meno la sua stessa funzione che è quella di consentire la maturazione della fede in relazione alle condizioni di vita del credente. Insomma, mi sembra fondamentale il recupero di una forte identità cristiana che si possa coniugare con un altrettanto senso di appartenenza alla comunità. La formazione dovrebbe avere come suo obiettivo proprio un recuperato senso evangelico senza del quale la salvezza non entra nelle nostre case. Una identità che si fa forte, in un momento di debolezza culturale, della sua tradizione viva che si sperimenta nella comunità; ugualmente una comunità forte perché spazio di identità che recupera l’essenziale: lo spirito missionario che non può essere delegato. Per dirla con la Evangelii nuntiandi: “L'importanza evidente del contenuto dell'evangelizzazione non deve nasconderne l'importanza delle vie e dei mezzi. Questo problema del «come evangelizzare» resta sempre attuale perché i modi variano secondo le circostanze di tempo, di luogo, di cultura, e lanciano pertanto una certa sfida alla nostra capacità di scoperta e di adattamento. A noi specialmente, Pastori nella Chiesa, incombe la cura di ricreare con audacia e saggezza, in piena fedeltà al suo contenuto, i modi più adatti e più efficaci per comunicare il messaggio evangelico agli uomini del nostro tempo” (EN 40).
Insomma, per concludere, il mondo di oggi ha bisogno profondo dell’annuncio dell’amore cristiano perché, purtroppo, conosce solo dei grandi fallimenti. Qui, probabilmente, nasce il paradosso che si apre dinanzi ai nostri occhi e che provoca la mente a riflettere sul senso della nuova evangelizzazione. Guardare al futuro con la certezza della speranza vera è ciò che consente di non rimanere rinchiusi né in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato né di cadere in un orizzonte di utopia perché ammaliati da ipotesi che non potranno avere riscontro. La fede impegna nell’oggi che viviamo per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura; a noi cristiani, tuttavia, questo non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione ma renderebbe vana la Pentecoste. È il tempo di spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo di cui siamo testimoni. Secondo le parole del santo Vescovo Ignazio agli albori del cristianesimo: “Non basta essere chiamati cristiani, bisogna esserlo davvero” (Ai Cristiani di Magnesia, I,1). Se qualcuno vuole riconoscere i cristiani lo deve poter fare per il loro impegno nella fede non per le loro intenzioni.»

(Rino Fisichella, 23 giugno 2011)
Foto: Monica Palermo