martedì 24 dicembre 2013

Il Natale dei due papi. Spiegato da Gregorio Magno

La visita prenatalizia di papa Francesco al suo predecessore Benedetto ha riproposto al mondo l’immagine dei due papi assieme.
Come fatto storico è senza precedenti. Ma qual è il “mistero” che questo fatto nasconde e insieme rivela?
Factum audivimus, mysterium inquiramus”, diceva papa Gregorio Magno. E proprio in un passaggio delle sue Omelie su Ezechiele c’è forse il senso di questo evento assolutamente straordinario per la vita della Chiesa: la compresenza di due papi in comunione tra loro, sia l’uno che l’altro visibilmente consapevoli di questa misteriosa compresenza predisposta dalla mano di Dio.
Il blog “Papa Gregorio Magno” – curato da un monaco dell’abbazia di Roma fondata nel VI secolo da quel grande padre della Chiesa – ha riproposto nell’imminenza del Natale il suo commento a Ezechiele 1, 8: “Sotto le ali, ai quattro lati, avevano mani d’uomo”. E l’ha corredato con una glossa che applica proprio a Benedetto e Francesco i due paradigmi della vita contemplativa e della vita attiva.
Dice Gregorio:
“Che significa la mano se non la vita attiva? E che significano le ali se non la vita contemplativa? La mano dell’uomo è sotto le loro ali, come a dire che il valore dell’attività è legato al volo della contemplazione. Simboleggiano bene questo le due donne del Vangelo che sono Marta e Maria. Marta era tutta presa dai molti servizi; Maria invece, sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava le sue parole. Una attendeva all’azione, l’altra alla contemplazione. Una era impegnata nella vita attiva con un servizio esteriore, l’altra nella vita contemplativa con il cuore sospeso alla Parola. Ora, quantunque la vita attiva sia buona, tuttavia la vita contemplativa è migliore, perché la prima termina con questa vita mortale, la seconda, invece, raggiunge la sua pienezza nella vita immortale. Per cui è detto: Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta. Siccome la vita attiva è inferiore, per dignità, a quella contemplativa, giustamente qui si dice: Sotto le ali avevano mani d’uomo (Ez 1, 8). Infatti, quantunque per mezzo della vita attiva noi compiamo qualcosa di buono, tuttavia per mezzo della vita contemplativa voliamo con il desiderio verso il cielo”.
E conclude:
“La vita attiva, in ordine di tempo, è prima della vita contemplativa, perché operando bene, si tende alla contemplazione. La vita contemplativa è però maggiore, nel merito, alla vita attiva, perché gusta già, nel suo intimo sapore, il riposo futuro”.
Ma poi riprende. E sorprende:
“In Mosé la vita attiva viene chiamata servitù, mentre quella contemplativa libertà. E benché l’una e l’altra vita siano un dono della grazia, tuttavia, finché viviamo in mezzo al prossimo, una è necessaria e l’altra volontaria. Chi infatti conoscendo Dio può entrare nel suo regno se prima non ha operato il bene? Perciò, senza la vita contemplativa possono accedere alla patria celeste coloro che non trascurano le opere buone che possono compiere; i contemplativi invece non possono accedervi senza la vita attiva, cioè se trascurano le opere buone che possono compiere. La vita attiva, dunque, è necessaria, quella contemplativa è volontaria. Quella si vive in stato di servitù, questa in stato di libertà”.
Commenta a questo punto il monaco di San Gregorio al Celio:
“Dunque la vita contemplativa è ‘maior’, ma non dà accesso alla patria celeste se prima non viene preceduta dalla vita attiva che, pur essendo ‘minor’, ha le chiavi atte ad aprire il regno dei cieli. Per poter accedere alla ‘libertas’ bisogna passare dalla ’servitus’. Geniale papa Gregorio! Siamo negli anni dei due papi: uno attivo e l’altro contemplativo”.
Quando la sera del 21 novembre papa Francesco si recò sull’Aventino nel monastero di Sant’Antonio delle camaldolesi, ramo femminile del monastero “gregoriano” del Celio, e visitò la cella dove aveva vissuto come reclusa una monaca proveniente dagli Stati Uniti, Nazarena, il monaco che cura il blog “Papa Gregorio Magno” ne ricavò questa ulteriore riflessione:
“Sia papa Francesco sia la reclusa Nazarena vengono dalle Americhe: l’una dal Nord e l’altro dal Sud, ma con ruoli rovesciati. Infatti la statunitense sottolinea, con la reclusione, la contemplazione e l’argentino sottolinea, con le sue scelte pastorali, l’azione. Ma poi, al di sopra di loro due, veglia il grande Anziano della Chiesa Benedetto XVI, come segno posto sul monte dell’attesa del regno, che si costruisce, ma non si conclude, qui su questa terra. Che meraviglia di Dio!”.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 24 dicembe 2013)


L'Europa vuole abolire pure il Natale

Questo Natale potrebbe essere l'ultimo in cui festeggiamo la nascita di Gesù e allestiamo un presepe. D'ora in poi, conformemente al «religiosamente corretto» prevalente nell'Unione Europea e già ufficializzato in Belgio, il suo quartier generale, potremmo essere costretti - almeno pubblicamente - a sostituire gli auguri natalizi con quelli per le «Vacanze d'inverno», così come a Pasqua faremmo gli auguri per le «Vacanze di Primavera», abolendo di fatto le due principali festività cristiane che attestano il fondamento della fede: la nascita, la morte e la risurrezione di Gesù vero Dio e vero uomo.
È un dato di fatto che in Italia i credenti sono solo una minoranza e ancor meno sono i praticanti. È possibile che la maggioranza degli italiani, che si è sostanzialmente distaccata non solo dalla Chiesa ma anche dalla fede, potrebbe concepire positivamente l'abolizione delle festività cristiane, accettando il relativismo religioso come parte integrante e necessità vitale per aderire al nuovo mondo globalizzato dove si immagina che la convivenza tra persone provenienti da Paesi diversi, con lingue e fedi diverse, debba obbligatoriamente tradursi nell'azzeramento della piattaforma di valori e regole fondanti della nostra civiltà, ridefinendola quale sommatoria quantitativa delle istanze collettive, attribuendo pari valore e dignità a tutte le culture e le religioni a prescindere dai loro contenuti.
Per la verità furono gli insegnanti italiani di ispirazione sessantottina, ancor prima che esplodesse l'ideologia del globalismo, che si prodigarono a togliere i crocifissi dalle aule e a non far allestire i presepi o cantare gli inni natalizi nelle scuole, anticipando le richieste personali o le rivendicazioni religiose degli studenti o delle famiglie musulmane «per non urtare la loro suscettibilità». In parallelo tutti noi italiani abbiamo gradualmente, prima affiancato e poi in gran parte sostituito, sia nei luoghi pubblici sia nelle nostre case, il presepe con l'albero di Natale, la nascita di Gesù bambino con Babbo Natale, l'Epifania con la Befana, la festa religiosa con la festa dei consumi.
A questo punto dobbiamo attenderci che presto anche in Italia, così come già avviene in Francia e in Gran Bretagna, sarà ufficialmente proibito portare addosso il crocifisso nei luoghi pubblici perché l'esposizione di un simbolo religioso viene concepito in contrasto con la società della pluralità etnica, culturale e religiosa, ritenendo che la nostra Europa debba diventare «neutrale» rispetto all'identità religiosa, per non offendere nessuno e consentire a tutti di sentirsi pienamente «cittadini del mondo».
Ebbene la sorpresa sarà nello scoprire che l'Europa che avrà abolito il Natale, l'Epifania e la Pasqua, che non allestisce il presepe e vieta l'esposizione del crocifisso, sarà del tutto simile ai Paesi musulmani più radicali che calpestano la libertà religiosa! Solo che loro lo fanno non nel nome della «tolleranza», bensì partendo dalla condanna dell'ebraismo e del cristianesimo come eresie che devono essere estirpate, nella certezza che l'islam sia l'unica verità assoluta e che pertanto deve affermarsi con la predicazione o con la guerra ovunque nel mondo. Così come in passato non abbiamo aspettato l'arrivo degli studenti musulmani per togliere i crocifissi dalle aule, oggi abbiamo consentito che l'Europa sia diventata il quartier generale dell'estremismo e del terrorismo islamico globalizzato pur di rispettare costi quel che costi la dimensione formale delle leggi e dei diritti, senza preoccuparci sulle conseguenze sostanziali dell'applicazione delle leggi e dell'esercizio dei diritti. Dobbiamo rassegnarci? Sarà l'ultima volta in cui ci augureremo «Buon Natale»? Nient'affatto! Dobbiamo piuttosto combattere sia contro il nemico ideologico del relativismo, europeismo, globalismo, immigrazionismo e multiculturalismo, sia contro il nemico reale dell'estremismo e del terrorismo islamico. Indipendentemente dal fatto che si sia cristiani, credenti o praticanti, dobbiamo essere consapevoli che solo fintantoché potremo augurarci «Buon Natale» continueremo a beneficiare di una civiltà cristiana che ci garantisce i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà. Buon Natale a tutti!
 
(Fonte: Magdi Cristiano Allam, Il Giornale, 24 dicembre 2013)

 

I cristiani fuggono da Betlemme. Colpa di Israele o (soprattutto) degli islamisti?

Gerusalemme. C’è una sorta di muro dell’omertà che chi vuole descrivere la situazione dei cristiani in Palestina si trova di fronte. «Non esistono difficoltà di alcuna natura fra la comunità cristiana e quella musulmana, tutti si sentono, in primo luogo, palestinesi», ci dice il sindaco di Betlemme Vera Baboun, 49 anni, cristiana, che ha vinto le elezioni nel 2012 alla guida di un movimento politico appoggiato da Fatah. Nel suo ufficio appare una recente foto del sindaco in compagnia di papa Francesco e, poco fuori della sua porta, un bel presepe, mentre gli alberi di Natale sono presenti sia nel suo ufficio sia nell’atrio prospiciente. Più lontano, nel corridoio, è stata dipinta una gigantografia di Yasser Arafat.
Le parole del sindaco traducono l’esigenza di non discostarsi dalle posizioni dell’Autorità palestinese tipica dei politici locali. Secondo Baboun, infatti, le difficoltà e i problemi della città sarebbero rappresentati dall’espansione degli insediamenti ebraici e quindi, fondamentalmente, dall’“occupazione” israeliana. Ciò però non sembra spiegare in maniera convincente la diminuzione del numero dei cristiani nella città che ha dato i natali a Gesù. Nel 1948, a Betlemme, che conta circa 25 mila abitanti e si trova nella West Bank a meno di dieci chilometri da Gerusalemme, i cristiani rappresentavano l’85 per cento della popolazione, mentre adesso ammontano solo al 12 per cento.
Secondo Baboun, le ragioni di tale diminuzione vanno ricercate nell’emigrazione, dovuta al depresso contesto economico e alle migliori prospettive che si possono trovare altrove, oltre che alla minore natalità della popolazione cristiana rispetto a quella musulmana. Baboun però nega decisamente che ci siano problemi tra cristiani e musulmani, asserendo che la sola fonte di divisione del campo palestinese riguarda lo “scisma” di Hamas e la sua contrapposizione a Fatah.

Questo è un tipo di risposta alquanto corrente quando si parla pubblicamente dell’argomento cristiani con persone del luogo, che preferiscono troncare la conversazione attribuendo tutti i guai all’“ihtilal” (occupazione, in arabo) israeliana. Però, anche se è innegabile che l’attuale situazione politica nei territori palestinesi non favorisce certo il loro sviluppo economico, tuttavia non è comprensibile come a diminuire sia solo la popolazione cristiana, mentre quella musulmana continua a crescere, come si può notare dalla grande quantità di nuove costruzioni, che si possono osservare non solo a Betlemme ma anche in altre città palestinesi come Ramallah o Hebron. Quella dei cristiani appare più come una fuga che un esodo dovuto a normali flussi migratori.
Nonostante la reticenza dominante sulla condizione dei cristiani, c’è anche chi, da anni, si batte per vedere riconosciuta la perfetta parità di diritti fra la comunità cristiana e quella musulmana. Samir Qumsieh è un noto imprenditore locale, cristiano, che ha fondato, una quindicina di anni fa, il canale televisivo al Mahd TV (Natività), in cui sono trattati temi religiosi cristiani ed è trasmessa la Messa in diretta ogni domenica. Nella sua casa a Betlemme Qumsieh spiega che, sul piano dei diritti formali, non ci sono elementi di discriminazione fra le due comunità, ma, nella realtà delle cose, essi esistono. «Il nostro futuro in Terra Santa è molto incerto. Se continua così, fra vent’anni non ci saremo più», dice scoraggiato l’imprenditore palestinese.
Per Qumsieh, uno dei maggiori problemi della comunità cristiana è proprio il muro di omertà dei suoi correligionari che, per ragioni di timore e di quieto vivere, non si oppongono con la dovuta forza ai soprusi patiti per mano islamista, tranne poi, alla prima occasione, prendere la via dell’emigrazione. Il proprietario di al Mahd TV afferma, inoltre, che le autorità locali non proteggono concretamente i cristiani, diventando così complici delle vessazioni contro di loro. «Noi cristiani non avevamo avuto questo genere di problemi né sotto l’impero ottomano, né sotto gli inglesi, né sotto l’occupazione israeliana. Adesso ce li abbiamo sotto l’amministrazione dell’Autorità palestinese», dice Qumsieh.

Tra i soprusi Qumsieh elenca in primo luogo la “land mafia”, un sistema malavitoso con connivenze nelle istituzioni, tendente a sottrarre in modo violento la terra ai cristiani. Nel 2005 lui aveva presentato un dossier all’Autorità palestinese, dove aveva enumerato 93 incidenti di abusi da parte di fondamentalisti islamici e 140 casi di appropriazione indebita di terre appartenenti a cristiani con il sostegno di giudici corrotti.
Il dossier non ha avuto seguito e le malversazioni sono continuate fino a oggi. «La mafia criminale e i fondamentalisti lavorano assieme», dice Qumsieh. «Il loro scopo è quello di impadronirsi della nostra terra. In passato, quando scrivevo di questi problemi all’ex rais Yasser Arafat, almeno aveva la cortesia di rispondere, ma il presidente Mahmoud Abbas non si degna neppure di fare un cenno di risposta».

Il proprietario di al Mahd TV racconta anche dei numerosi casi di stupro e di abusi sessuali nei confronti di ragazze cristiane. «Prendete il caso di Rawan William Mansour, una ragazza di 17 anni della cittadina di Bet Sahur, a est di Betlemme, che alcuni anni fa era stata violentata da quattro membri di Fatah. Nonostante le proteste della famiglia, nessuno dei quattro è stato arrestato», spiega Qumsieh, che vuole dare voce alle giovani vittime. Racconta quindi anche del caso di due ragazze cristiane assassinate, perché accusate di essere delle prostitute e delle collaboratrici delle forze israeliane. In realtà, l’uccisione era stata perpetrata per coprire il loro precedente stupro da parte di fondamentalisti. I casi da citare sarebbero molti. Questo crea un’atmosfera di incertezza nella comunità cristiana e molte famiglie, con figlie in giovane età, qualora ne abbiamo i mezzi, preferiscono partire per l’estero.
L’imprenditore palestinese denuncia poi la crescente islamizzazione della società palestinese con la conseguente intolleranza verso i cristiani e i loro simboli. Molti imprenditori musulmani si rifiutano di offrire lavoro ai cristiani, lasciando loro come unica scelta per trovare impiego la fuga all’estero. Alcuni tassisti cristiani sono stati aggrediti da facinorosi per il semplice fatto di portare una catenina con la croce al collo. Qumsieh mostra inoltre delle t-shirt, che si trovano in vendita nel bazar di Betlemme e che presentano immagini di luoghi santi cristiani come la chiesa della Natività. In queste magliette, confezionate a Hebron e in altre città dei territori, è stata eliminata categoricamente ogni immagine della Croce.
Perfino sulle magliette “taroccate” della squadra di calcio del Barcellona, che nel suo logo presenta una croce di San Giorgio, hanno tolto a quella croce il braccio sinistro in modo da eliminare ogni riferimento cristiano. «Insomma, a certi fondamentalisti islamici fa piacere che dei turisti cristiani comprino le loro confezioni, ma non sono disposti ad accordare alcuna dignità alla loro religione», dice Qumsieh.

L’imprenditore palestinese se la prende infine con i media occidentali che, per non dispiacere all’Autorità palestinese, accettano troppo facilmente l’immagine edulcorata di rapporti idilliaci fra cristiani e musulmani, senza voler approfondire l’argomento. Infatti, parlando poi in privato con alcune famiglie cristiane che non vogliono essere identificate, queste si sono lamentate di come anche le voci più moderate fra i musulmani non siano ascoltate dai media occidentali, rafforzando così i fondamentalisti.
Queste famiglie ci raccontano la vicenda di un imam della più grande moschea di Betlemme che ha ricevuto minacce dopo avere fatto un sermone in cui lanciava un appello per porre fine alla discriminazione contro i cristiani. La situazione è seria e questo silenzio dell’Occidente, che non permette di rompere il muro di paura e di omertà, mette a rischio la sopravvivenza stessa delle comunità cristiane in Terra Santa.

(Fonte: Roberto Barducci, Tempi, 22 dicembre 2013)

 

Lo yoga gesuita a Padova

Nel seminario di Padova – dove i volantini della Marcia per la Vita non riescono ad entrare o, se introdotti clandestinamente, vengono subito rimossi – si trovano pubblicizzate le iniziative più disparate.
Tra queste, un corso di Raja Yoga, che ha il pregio di essere promosso dal centro culturale dei gesuiti, quel glorioso Antonianum [quanti bei ricordi!] che negli anni ha formato tanti giovani destinati a diventare la classe dirigente cittadina.
Ospitato nei locali di proprietà della congregazione, presso i cui uffici è raccolta anche l’iscrizione, il corso sembra abbia ottenuto un notevole successo di pubblico, tanto da segnare in breve tempo il tutto esaurito.
E in effetti, così confezionati, gli incontri ginnico-meditativi ora sorprendentemente offerti dai discepoli di sant’Ignazio (che ben altri esercizi prescriveva..) forniscono a chi è alla  ricerca del proprio benessere psico-fisico i famosi “due piccioni con una fava”: l’esercizio di una pratica ascetica di tendenza (assai più chic, per esempio, della obsoleta recita di un Rosario in Chiesa) e, insieme, un accreditamento clericale buono a tacitare qualsiasi eventuale rigurgito di coscienza cristiana.
Lo yoga è una realtà articolata e proteiforme che raggruppa un insieme di metodi  con cui si pretende – attraverso esercizi fisici, tecniche di respirazione e di meditazione, evocazione di formule e di concetti tratti dalla spiritualità orientale – di liberare l’anima umana da tutto il suo peso materiale e terreno e di permettere all’individuo di uscire dal mondo fenomenico per raggiungere l’Unità essenziale e fondersi con essa, tramite una sorta di narcosi psicologica.
Sovente si pensa di avere a che fare con una innocua pratica di rilassamento fisico; essa, invece, è strutturalmente intrisa di aspetti spirituali incompatibili con il credo cristiano. Chi immagina ingenuamente di frequentare un corso di ginnastica alternativa, in realtà acquista un pacchetto religioso tao-indo-buddista di facile assorbimento grazie all’illusione di una pseudo-liberazione ipnotica, e finisce per aderire a un neopaganesimo di matrice esoterica: salta così a piè pari in un altro credo, che nulla ha a che vedere con la fede cristiana.
E infatti la brochure del corso gesuita (intitolato “La via dell’equilibrio, riconciliando corpo e mente”) recita: “Lo yogin è colui che in mezzo al più profondo silenzio sa trovare l’attività ed in mezzo all’attività sa trovare il silenzio e la solitudine del deserto”, e pare che non sia più la santità la dimensione cui deve attingere il credente, ma quella di yogin, ossia maestro di yoga. La citazione proviene infatti da uno dei più grandi autori del revival dell’induismo in India, Vivekananda, propalatore internazionale della religione hindu, membro del parlamento mondiale delle religioni di Chicago (un esperimento transnazionale di ecumenismo risalente al 1893) che teorizzò oscuri sincretismi tra induismo e cristianesimo.
E del resto la locandina, a partire dalla grafica vagamente new-age, con tanto di effige del fiore di loto, non nasconde nulla: “Yoga deriva dalla radice sanscrita Yug, che significa unione”, scrive; “è un complesso di pratiche che conducono il praticante all’unione del corpo con la mente e all’unione della mente individuale con l’Infinito”. Dove per Infinito (con la i maiuscola), dentro una struttura nominalmente cattolica, dovrebbe intendersi Dio: e già qui sembra di sconfinare arditamente nel territorio dell’eresia. Ma vi si descrive poi, con dovizia di particolari, la scala di ascesa al dio-infinito articolata in otto punti, il contenuto magico-esoterico dei quali (dai “vortici mentali” alla “esperienza mistica dell’unificazione”), lungi dall’essere in qualche modo camuffato, viene sfacciatamente pubblicizzato già nel volantino targato sant’Ignazio.
Nello yoga vengono accettate teorie come quelle sui canali energetici, concetti come quelli dei meridiani e dei checkra, vengono recitati mantra, ossia formule magiche che invocano forze spirituali e idoli; si presuppone che ogni anima, nella sua natura e sostanza, sia unita nel profondo alla divinità, all’anima cosmica.
Si teorizza quindi che l’uomo, anziché l’immagine di Dio intaccata dal peccato originale, sia Dio egli stesso.
È perciò del tutto palese la trasgressione al primo comandamento, quanto evidente l’offesa al Dio trinitario. E infatti appare emblematico che nel paese d’origine dello yoga, l’India, i cristiani ne rifiutino con fermezza la pratica; la quale invece attecchisce, significativamente, in un occidente scristianizzato e sempre più prepotentemente anticristiano.
Siamo nell’orizzonte del terzo capitolo della Genesi: si delinea la superbia dell’uomo che non accetta di sottomettersi a Dio padre, di lasciarsi da Lui guidare, di mettersi nelle Sue mani in un rapporto di obbedienza filiale; dell’uomo che nega la sua creaturalità pretendendo di autodominarsi e dominare la realtà per mezzo di potenze occulte. Si realizza con ciò una inversione della relazione più profonda del nostro essere, quella con la divinità, e la distorsione del destino religioso dell’uomo per mezzo di pratiche che si impongono con il pretesto, e la pretesa, di offrirgli una liberazione.
Qui si annida il tranello che consiste nello sfruttare la sete di trascendenza e di pace interiore per carpire anime a un credo artefatto.
Intervistato su quale fosse il prezzo, in termini spirituali, di mode pervasive quali la meditazione trascendentale e lo yoga, Ratzinger rispose: “la perdita della fede e la perversione della relazione uomo‐Dio, e un disorientamento profondo dell’essere umano, cosicché alla fine l’uomo si sposa con la menzogna” ed “entra in una rete demoniaca che diventa poi molto più forte di lui”.
La circostanza che queste pratiche, opposte alla Verità rivelatasi in Gesù Cristo, siano propagandate dai gesuiti, lascia davvero perplessi e sgomenti. In questa ora di tentazione pagana profonda, anziché annunciare il Vangelo in tutta la sua semplicità e grandezza come la vera e l’unica liberazione, si cede ancora una volta alle lusinghe mondane e modaiole di una società smarrita e annoiata.
Evidentemente, quel novello mantra che serpeggia nella Chiesa – quello martellante dell’amore legibus solutus come unico parametro di azioni e reazioni del cristiano non ideologico, che viene ripetuto senza tregua dai pulpiti ai confessionali alle piazze profane – impone di accogliere felicemente il nemico in casa, con tutti gli onori.
A costo di precipitare nel sincretismo e nella apostasia.


(Fonte: Elisabetta Frezza, Corrispondenza Romana, 23 dicembre 2013)

 

Il mio compagno di scuola Sigmund Freud

Sta per chiudersi il 2013. Nell’arco di quest’anno hanno concluso la loro esistenza tre dei miei insegnanti più cari degli anni delle medie e del liceo. Mi hanno lasciato. In tutti e tre i casi è stato per me un lutto, senza cedimenti alla melanconia.
I ricordi degli anni della fanciullezza e della pubertà sono spesso assai vividi, come talvolta lo sono i sogni in cui compaiono persone con cui abbiamo condiviso quegli anni, e che oggi non hanno più nulla a che fare con noi, siano essi il maestro delle elementari, la bambina dai boccoli d’oro nostra compagna di giochi, o l’amico dell’asilo con cui ci azzuffavamo con veemenza. I legami fortissimi di allora sono diventati oggi ricordi indelebili, anche per quegli adulti - e sono la maggior parte - che non sanno che farsene.
Qualcuno sostiene, tra il serio e il faceto, che uomini e donne appartengano a due categorie: chi ha fatto il liceo classico e chi non l’ha fatto. Battuta a parte, penso che il percorrere, anche ognuno a modo suo, quella che è stata la storia della nostra cultura, sia e resti un bene prezioso.
Psicologia del ginnasiale è una pagina che Freud scrisse nel 1914, a 58 anni, in occasione del 50° anniversario del suo liceo.
Grazie a Freud ho potuto ritrovare gran parte di quel primo pensiero che era iniziato già maturo nell’infanzia, ossia molti anni prima dell’ “esame di maturità”. Freud, ebreo e miscredente, avrebbe senz’altro sottoscritto il celebre invito di Gesù «Se non ritornerete come bambini...».
Trovo che la pagina che segue si commenti da sé: è scritta in modo tale da racchiudere una verità evidente e persuasiva. Il resto ce lo può mettere il lettore, ma - suggerisco - senza fretta. Vero che “il tempo si fa breve”, ma ciò non deve avvenire a scapito dell’elaborazione personale. In ogni caso i pensieri, non privi di accenti di commozione, che Freud dedica ai suoi insegnanti, potrebbero essere stati scritti da un nostro compagno di scuola:

« Si prova una strana sensazione, quando, in età così avanzata, si è ancora una volta incaricati di scrivere un “componimento” per la scuola. Ma si ubbidisce automaticamente, allo stesso modo del vecchio soldato che all'ordine “Attenti!” non può fare a meno di lasciar cadere quello che tiene in mano e stendere le braccia lungo le cuciture dei pantaloni. È sorprendente la prontezza con cui si accetta l'incarico, come se negli ultimi cinquant'anni non si fosse verificato alcun cambiamento particolare. (...)
Forse dieci anni fa potevano esserci ancora dei momenti in cui ci sentivamo nuovamente giovani, all'improvviso. Quando, già con i capelli grigi e tutto il peso di una vita borghese sulle spalle, camminando per le strade della nostra città natale incontravamo inaspettatamente un anziano signore ben conservato, lo salutavamo quasi con deferenza, poiché avevamo riconosciuto in lui uno dei nostri professori del ginnasio. Ma poi ci si fermava a guardarlo, riflettendo: È veramente lui, o è solo uno che gli assomiglia moltissimo? Che aspetto giovanile ha, e tu, come sei diventato vecchio! Quanti anni potrà avere oggi? È possibile che questi uomini che allora erano ai nostri occhi i tipici esponenti del mondo degli adulti fossero di tanto poco più vecchi di noi?
In quei momenti il presente pareva oscurarsi, e dagli angoli riposti della nostra memoria riemergeva la nostra vita dai dieci ai diciott’anni con i suoi presentimenti e i suoi errori, le sue trasformazioni dolorose e i suoi esaltanti successi; riaffioravano alla mente i primi sguardi rivolti a una civiltà tramontata (destinata, almeno per me, a divenire in seguito fonte di inesauribile conforto nelle lotte della vita), i primi contatti con le scienze, tra le quali credevamo di poter scegliere quella a cui offrire i nostri servizi, che sarebbero risultati certamente inestimabili. E a me sembra di ricordare che tutti quegli anni erano stati percorsi dal presentimento di un compito che in un primo tempo si era delineato appena, e che aveva infine trovato la sua aperta espressione nel mio saggio di maturità, dove avevo dichiarato l'intenzione di contribuire, nella mia vita, allo sviluppo del sapere umano.

Più tardi sono diventato medico, o più propriamente psicologo, e ho potuto creare una nuova disciplina psicologica, la cosiddetta “psicoanalisi”, che oggi è seguita con eccezionale interesse da medici e ricercatori di paesi vicini e lontani, di lingua diversa, suscitando ovunque parole di lode e di biasimo - mentre, com'è ovvio, ha trovato l'eco più debole proprio nel suo Paese d'origine.
(…) L'emozione che provavo incontrando i miei vecchi professori del ginnasio mi induce a fare una prima ammissione: è difficile stabilire che cosa ci importasse di più, se avessimo più interesse per le scienze che ci venivano insegnate o per la persona dei nostri insegnanti. In ogni caso questi ultimi erano oggetto per tutti noi di un interesse sotterraneo continuo, e per molti la via delle scienze passava necessariamente per le persone dei professori; molti si sono arrestati a metà di questa via, e per alcuni (perché non ammetterlo?), essa è risultata in tal modo sbarrata per sempre.
Li corteggiavamo o voltavamo loro le spalle, immaginavamo che provassero simpatie o antipatie probabilmente inesistenti, studiavamo i loro caratteri e formavamo o deformavamo i nostri sul loro modello. Essi suscitavano le nostre rivolte più forti e ci costringevano a una completa sottomissione; spiavamo le loro piccole debolezze ed eravamo orgogliosi dei loro grandi meriti, del loro sapere e della loro giustizia. In fondo li amavamo molto, se appena ce ne davano un motivo; non so se tutti i nostri insegnanti se ne sono accorti. Ma non si può negare che nei loro confronti avevamo un atteggiamento del tutto particolare, un atteggiamento che poteva avere i suoi inconvenienti per i soggetti interessati. Eravamo, in linea di principio, parimenti inclini ad amarli e a odiarli, a criticarli e a venerarli. La psicoanalisi definisce “ambivalente” questa capacità di assumere comportamenti fra loro opposti; e non ha difficoltà alcuna a rintracciare la fonte di tale ambivalenza emotiva.
La psicoanalisi ci ha insegnato infatti che gli atteggiamenti affettivi verso il nostro prossimo, destinati ad avere grandissima importanza per il successivo comportamento dell'individuo, vengono acquisiti definitivamente in un'epoca inaspettatamente remota. Già nei primi sei anni dell'infanzia il piccolo essere fissa la natura e la tonalità affettiva delle sue relazioni con le persone del suo stesso sesso e dell'altro sesso; da allora in poi egli potrà svilupparle e trasformarle in certe direzioni, ma non potrà più eliminarle. Le persone in rapporto alle quali egli fissa in tal modo il proprio tipo di comportamento sono i suoi genitori e i fratelli. Tutte le persone che egli conosce più tardi diventano dei sostituti di questi primi oggetti dei suoi sentimenti (forse ai genitori dovremmo aggiungere le persone che si prendono cura del bambino), e vengono classificate dal suo punto di vista secondo quelle che chiamiamo le “imagines” del padre, della madre, dei fratelli e cosi via. Queste conoscenze che egli fa più tardi devono dunque assumersi una specie di eredità emotiva, incontrano simpatie e antipatie a provocare le quali hanno contribuito ben poco; tutte le amicizie e gli amori che l'individuo sceglierà in seguito si baseranno sulle tracce che quei primi modelli hanno lasciato nella sua memoria.
Ma fra le imagines che si sono formate in un'infanzia di cui di solito si è perduto il ricordo, nessuna è più importante, per il giovane o per l'uomo adulto, di quella del proprio padre, Una necessità organica ha introdotto in questo rapporto col padre un'ambivalenza emotiva di cui possiamo ravvisare la manifestazione più impressionante nel mito greco del re Edipo. Il bambino deve amare e ammirare suo padre, che vede come la più forte, la migliore e la più saggia delle creature; in fin dei conti Dio stesso non è altro che un’esaltazione di questa immagine paterna, così come essa si presenta nella vita psichica infantile. Ma tosto si fa innanzi l’altro aspetto di questa relazione affettiva. Nel padre si vede anche l’essere che nel suo strapotere disturba la nostra vita pulsionale, egli diventa il modello che non vogliamo più solo imitare, ma anche togliere di mezzo, per poter prendere il suo posto. Ora l'impulso affettuoso e quello ostile verso il padre continuano a sussistere l'uno accanto all'altro, spesso per tutta la vita, senza che l'uno possa eliminare l'altro. In questa coesistenza degli opposti risiede il carattere di quella che chiamiamo un'ambivalenza emotiva.
Nel corso della fanciullezza ci si appresta a un mutamento in questo rapporto col padre, la cui importanza non sarà mai sottolineata abbastanza. Il fanciullo comincia a uscire dalla stanza dei bambini, ad affacciarsi al mondo reale; a questo punto scopre delle cose che scalzano la sua originaria ammirazione per il padre e determinano il suo distacco da questo suo primo ideale. Egli scopre che suo padre non è l’essere più potente, più saggio e più ricco della terra, comincia a diventare scontento di lui, impara a criticarlo e a valutare la sua posizione sociale; poi, di solito, fa pagare cara al padre la delusione che egli gli ha procurato: tutto ciò che nella nuova generazione appare denso di promesse, ma anche tutto ciò che essa ha di urtante è determinato da questo distacco dal padre.
In questa fase del suo sviluppo ha luogo l’incontro del ragazzo con gli insegnanti. A questo punto possiamo capire il nostro comportamento verso i nostri professori del ginnasio. Questi uomini, che pure non furono tutti dei padri, diventarono per noi i sostituti del padre. È perciò che ci sono apparsi cosi maturi, cosi irraggiungibilmente adulti, anche se in realtà erano ancora molto giovani. Abbiamo trasferito su di loro il rispetto e le attese che nei nostri anni infantili avevamo nutrito per il padre onnisciente, e poi abbiamo cominciato a trattarli come trattavamo, a casa, i nostri padri. Abbiamo assunto nei loro confronti lo stesso rapporto ambivalente che avevamo acquisito in famiglia, e in virtù di questo atteggiamento abbiamo lottato con loro, come ci eravamo abituati a lottare con i nostri padri carnali. Se non si tenesse conto delle esperienze infantili e della vita familiare il nostro comportamento verso i nostri insegnanti non solo risulterebbe incomprensibile, ma non avrebbe alcuna scusante. Nei nostri anni di ginnasio abbiamo avuto anche altre esperienze, quasi altrettanto significative, con i succedanei dei nostri fratelli, i nostri compagni di scuola; ma di esse si dovrà scrivere altrove. In occasione del giubileo della nostra scuola è giusto che il nostro pensiero si rivolga soltanto ai nostri maestri.»

(Fonte: Glauco Maria Genga, Cultura Cattolica, dicembre 2013)

 

venerdì 20 dicembre 2013

Torino, in alcune scuole cancellate recite natalizie

“Da alcune segnalazioni ricevute in talune scuole di Torino, istituti dell’infanzia anche statali, da quest’anno, le classiche recite di Natale dei bambini non sarebbero state organizzate o lo sarebbero state ma edulcorate da ogni riferimento alla Natività e alla religione cattolica, per non urtare la sensibilità del numero sempre maggiore di islamici che le frequentano. Si tratterebbe di una decisione presa dalle singole direzioni didattiche. Se ciò verrà confermato si tratterebbe di un fatto gravissimo, che non ha precedenti”.
Lo comunica in una nota il consigliere comunale della Lega Nord, Roberto Carbonero per il quale si tratterebbe di ”una decisione del tutto inaccettabile rispetto alla quale il Comune, rispetto alle scuole su cui ha competenza, dovrebbe prendere posizione ”La città dell’inclusione fantasticata dalla sinistra non può diventare la città della discriminazione per i cattolici – aggiuge Carbonero – non è accettabile che in favore di un’immigrazione incontrollata i nostri cittadini, i nostri figli, debbano rinunciare alle proprie tradizioni e alla propria cultura. Io non ci sto a un scuola che si debba vergognare della base cattolica della nostra società e della sua storia”, auspicando che ”anche la Curia abbia qualcosa da dire su questa vicenda. Per parte nostra vorremmo spiegazioni, chiarezza e un intervento dell’amministrazione. Nel rispetto di ognuno, infatti, chiunque arrivi nel nostro Paese ha il primo dovere di rispettare le nostre tradizioni che non possono abdicare alle credenze di altri”. (Repubblica).

Si ripete quindi il copione del “politicamente corretto” a scapito della maggioranza e delle tradizioni del nostro paese. Sempre più spesso, ormai è evidente, gli istituti pubblici si vergognano del cattolicesimo e delle proprie radici culturali. Il risultato è questo: pur di sposare posizioni comode, sentite oggi come più moderne, ci si annulla di fronte all’Altro. A volte non sono nemmeno le minoranze a richiedere questi interventi, ma sono le dirigenze stesse che non vedono l’ora di cancellare ogni riferimento alla cristianità. E spesso la “sensibilità altrui” viene usata come pretesto.

(Fonte: Repubblica con nota Nocristianofobia.org, 17 dicembre 2013)
 

lunedì 16 dicembre 2013

È morto dom Gregorio Penco. “Il segreto è l’empatia”

È morto verso le cinque del pomeriggio di mercoledì 11 dicembre nel monastero di Finalpia (Savona) il decano degli storici del monachesimo italiano, il benedettino dom Gregorio Penco, il cui nome è noto non solo a generazioni di monaci che si sono formati sul suo fortunatissimo manuale di “Storia del monachesimo in Italia dalle origini alla fine del medioevo”, uscito per la prima volta nel 1961 per le Edizioni Paoline e più volte riedito, ma altresì apprezzato nelle aule universitarie da tanti professori e studenti.
Nato a Genova nel 1926, Penco vi si era laureato alla facoltà di Lettere classiche nel 1948 con una tesi su Tacito. L’impronta umanistica non lo abbandonò mai, restando il tratto peculiare del suo orientamento umano e storiografico, anche quando, abbracciata la vita monastica a Finalpia, tra il 1950 e il 1955 frequentò a Roma i corsi di Teologia nell’Ateneo pontificio di Sant’Anselmo sull’Aventino. Qui gli furono maestri monaci di grande levatura quali Cipriano Vagaggini, Basilius Steidle, Benedetto Calati, né ebbe meno importanza nella sua vita la conoscenza, sebbene più tarda, nel 1967, di una stella del firmamento monastico come Adalbert de Vogüé.
Quale fu il principio animatore del suo metodo storiografico, che gli permetteva di creare immediatamente un ponte tra l’oggetto e il destinatario delle sue ricerche? Sicuramente l’empatia. Me lo confermò lui stesso rispondendo a una domanda che gli posi in occasione dei suoi ottant’anni: «L’empatia è un principio generale, animatore di ogni interesse anche in campo storico. Naturalmente essa è pure alla base di quella inevitabile “selezione” che è imposta dalla vastità della materia, anche se ho sentito sempre grande interesse per la storia universale, come pure per la storia della storiografia. Ma a mano a mano che ci si immerge nel passato e lo si assimila, se ne vede anche la continuità, il che aiuta precisamente a superare la dinamica o dialettica tra avvicinamento e distacco».
In questo modo Penco ha saputo avvicinare tanti lettori a innumerevoli figure di monaci del passato, ai monasteri, alle correnti spirituali e culturali del monachesimo benedettino e non, che dal medioevo a oggi hanno attraversato, intriso di sé e fecondato tanta parte della storia umana, religiosa, culturale, economica dell’Italia dal Piemonte alla Calabria, alle isole. (Mariano Dell’Omo, Osservatore Romano, 14 dicembre 2013)

Grande e umile insieme. Un monaco tutto d’un pezzo. Rigoroso ed esigente non solo con gli altri, ma soprattutto con se stesso.
L'ho rivisto l'ultima volta esattamente un mese fa: mi ha riconosciuto immediatamente e un sorriso misto di gioia e di rimprovero gli ha illuminato per un lungo istante il viso, mentre mi scrutava con i suoi occhi penetranti.
Si, di rimprovero: perché, oggi lo posso dire, sono stato uno dei suoi discepoli più "ostici".
Ricordo comunque la frequenza alle sue lezioni entusiastiche, il lavoro di correzione delle bozze del suo "Storia del Monachesimo in Italia...", le battiture a macchina delle sue "notule" e dei suoi articoli: io e don Palma, l'altra sua spina nel fianco.
È vero, eravamo i suoi studenti più esuberanti, ma anche quelli "tecnologicamente" più preparati, e lui si fidava nell'affidarci una prima revisione dei suoi "tesori".
Sempre cordiale, allegro, disponibile. Quando, dopo circa vent'anni, gli ho telefonato da Roma per avere alcuni consigli su come impostare una serie di mie lezioni sul monachesimo, mi ha tenuto oltre un'ora al telefono, con lo stesso entusiasmo nella voce, come se ci fossimo lasciati sono poche ore prima.
Ti confesso, caro amico, che averti rivisto a novembre così sofferente (il tuo respiro era ridotto ad un rantolo) mi ha colpito il cuore; ma quello che ancor più mi ha colpito, è stato rivedere la tua forza indomita nel reagire alla sofferenza, il tuo incedere solenne e quasi spedito, perfettamente eretto, mentre dalla tua camera ti affrettavi alla cappella per il canto delle Lodi. Ora riposa in pace, caro indimenticabile maestro: ancora oggi, e lo sarà per sempre, mi risuonano nella memoria le tue raccomandazioni, i tuoi consigli. E penso che succederà lo stesso, come a me, anche allo stuolo innumerevole di persone che hanno avuto la fortuna di conoscerti e di frequentarti.
Mi unisco spiritualmente ai tuoi confratelli di Finalpia, al tuo abate dom Romano, che in questo momento ti stanno dando liturgicamente l'estremo saluto e il corale augurio: "In paradisum deducant te angeli, in tuo adventu suscipiant te martyres...".

(M.L., 14 dicembre 2013)

 

giovedì 12 dicembre 2013

E se Francesco riorganizzasse la Curia così?

Che la riforma della Curia romana sia necessaria lo sanno in molti da tempo, e ora che l’ormai famoso C8 con il Papa sembra aver inserito la marcia spedita di lavoro è anche più interessante capire cosa davvero non funziona nel sistema e cosa quindi andrebbe rivisto, aggiornato, modificato.
Ad aiutare la comprensione di quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi, e soprattutto di cosa è davvero la Curia romana è il Presidente del Pontificio Consiglio dei testi legislativi, il cardinale Coccopalmerio. In una giornata di studio organizzata  dal Pontificio Istituto Orientale sulla Costituzione Apostolica Pastor Bonus che regola l’attività della Curia, firmata 25 anni fa da Giovanni Paolo II, il cardinale ha proposto alcune riflessioni sul tema della riforma. Senza nulla togliere ovviamente al lavoro della commissione che lavora con il Papa, ma piuttosto per parlare con canonisti e fedeli di cosa mettere al centro del dibattito.
La base resta proprio la Pastor Bonus per capire innanzi tutto cosa è la Curia. E si parte dalla introduzione e da un passaggio in particolare che rimanda al Concilio Vaticano II che “afferma con queste parole: «Nell’esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana, che perciò adempiono il loro compito nel nome e nell’autorità di lui, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori» (Christus Dominus, 9).”
La Curia serve il Papa e serve al Papa per il suo governo, lo aiuta nel suo ministero. E lo fa grazie alla collegialità. Perchè i capi dicastero sono vescovi, e perchè ogni dicastero è di fatto un collegio di vescovi. Tra il Papa e i dicasteri quindi deve esistere una relazione strettissima, una assiduità di lavoro costante con tutti i membri del dicastero. Coccopalmerio suggerisce un incontro almeno una volta al mese. Ma non certo un incontro formale. Un incontro di lavoro nel quale il dicastero presenti al Papa fatti e testi e nel quale riceva un giudizio del Papa che diventa poi decisione del Papa stesso. Ecco il suo modo di governare. Le indicazioni dal capo della Chiesa cattolica passano attraverso i dicasteri che le attuano. E così il Papa governa la Chiesa attraverso i dicasteri.
Perchè questo funzioni il personale della Curia deve essere altamente qualificato, professionalmente e spiritualmente. E questo a partire dai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, ai laici. Perchè la loro è una vera corresponsabilità nella missione della Chiesa.
Tanto che il cardinale propone una formazione permanente non solo professionale ma spirituale. Perchè una professionalità senza una alta formazione spirituale non è sufficiente a fare un “buon curiale”. E presenta l’idea di esercizi spirituali ogni anno non solo per i capi dicastero come sarà quest’ anno per volontà di Papa Francesco, ma per tutta la Curia.
E mette il dito sulla piaga: le diocesi del mondo non devono mandare a Roma gli “scarti” pastorali, coloro che non sanno come collocare, ma elementi di alto livello. Solo così il servizio stesso della Curia alle Chiesa locali sarà buono. E solo con una attenzione costante spirituale, con un servizio pastorale quotidiano i sacerdoti che lavorano in Curia saranno veri sacerdoti al servizio della Chiesa.
Altro problema è quello della internazionalizzazione della Curia. E’ ovvio che tutto il mondo cattolico deve essere in Curia per assistere meglio il Papa nel suo servizio, ma la priorità nelle scelta  deve essere sempre quella della qualità professionale e spirituale.
Una delle necessità più sentite è quella del lavoro tra dicasteri, del confronto, dello scambio fraterno. Nessun dicastero deve essere chiuso verso l’esterno. Per questo occorre incrementare le occasioni di scambio con riunioni e commissiono interdicasteriali che siano libere, su temi diversi e non “ingessate”, mettendo davvero in pratica l’articolo 21 della Pastor bonus: “Quando sia necessario, saranno costituite opportunamente commissioni interdicasteriali permanenti, per trattare quegli affari che richiedono una reciproca e frequente consultazione.”
Da qui deve venire un miglior servizio alle Chiese locali, la Curia deve fare sentire la sua vicinanza, la sua presenza alle iniziative delle Chiese particolari con una politica di comunicazione più decisa.
Fin qui la traccia della Pastor bonus. Ma il cardinale Coccopalmerio ha già delle proposte. Due “uffici” nuovi e la messa in pratica di uno che già esiste nelle Curie diocesane e che è diventato un po’ il suo cavallo di battaglia: il moderator curiae.
I due nuovi uffici sono l’adattamento alle necessità della società che cambia. La prima è una struttura per organizzare i grandi eventi, dai giubilei, agli anni speciali ai convegni dei vari dicasteri.
Un ufficio che possa coordinare le forze e rendere più moderno ed efficiente la attività pubblica della Curia e della Santa Sede anche nel reperimento dei fondi per le grandi iniziative.
E c’è poi un altro ufficio suggerito: un istituto centrale per gli enti ecclesiastici. Si tratterebbe di una struttura di gestione pratica ed economica dei beni di congregazioni e istituti religiosi, soprattutto femminili, che rischiano a causa delle difficoltà di “sprecare” le loro risorse e depauperare anche le forze per la missione della Chiesa. É un problema che si sta presentando da anni. Molti istituti sono in difficoltà e vendono, o meglio svendono edifici e strutture, altri si trovano a fare affari sbagliati che li rendono ancora più poveri e senza la possibilità di compiere la loro missione. Ecco l’istituto dovrebbe agire proprio per salvaguardare i beni degli istituti e così il loro lavoro pastorale ed apostolico. Il cardinale ha già nel cassetto una bozza di statuto per questo auspicato ufficio.
Ma chi si dovrebbe occupare di oliare le ruote dell’ ingranaggio della complessa macchina della Curia? Il moderator, l’ufficio cioè che in termini aziendali potrebbe definirsi di ottimizzazione del lavoro e di coordinamento. Gestione del personale, richieste di chierici alle diocesi, organizzazione di incontri, cura spirituale, revisione continua della funzionalità dei dicasteri, la ridefinizione dei compiti, tutto questo e ancora altro è nelle competenze dell’ ufficio del moderator. Ma senza essere un doppione della Segreteria di Stato che a sua volta non deve essere un doppione dei dicasteri come spesso avviene secondo la funzione attuale.
Il moderator come del resto la Segreteria di Stato non di vede frapporre tra il Papa e i dicasteri, questo è l’essenziale, questo deve essere chiaro secondo il presidente del Pontificio Consiglio dei Testi legislativi.
La Curia insomma non si riforma senza la Curia, e non è un Moloch da abbattere, al contrario è la struttura più necessaria al Papa per essere Papa e per arrivare a tutte le Chiese locali. Ma per compiere il suo servizio deve essere al passo con i tempi ed efficiente. Tutto qui, ma non è poco.

(Fonte: Angela Ambrogetti, Korazym.org, dicembre 2013)

In Inghilterra un nuovo caso di discriminazione cristiana

Ancora un caso di intolleranza e discriminazione cristiana. Dall’Inghilterra arriva, infatti, la notizia della condanna da parte della Corte Suprema al pagamento di una multa di 3.600 sterline (circa 4.400 €) per due albergatori cristiani, Peter e Hazelmary Bull, che nel settembre 2008 si rifiutarono, all’interno del loro hotel, di mettere a disposizione di una coppia omosessuale una stanza matrimoniale. Lady Hale, vice presidente della Corte Suprema, ha giustificato con queste parole la sentenza arrivata a cinque anni di distanza dall’accaduto: «l’orientamento sessuale è una componente fondamentale dell’identità di un individuo ma secoli di discriminazioni e persecuzioni hanno negato agli omosessuali il diritto di realizzare se stessi e questo è un affronto alla loro dignità umana».
Tuttavia la vicenda ha delle cause ben precise. In coerenza con il credo religioso i proprietari del Chymorvah Hotel da 25 anni hanno adottato all’ interno dell’hotel la seguente regola: solo le coppie regolarmente sposate possono dividere una camera matrimoniale, indipendentemente dal loro orientamento sessuale. In tal senso i coniugi Bull, ignari del fatto che la prenotazione di una camera doppia fosse stata fatta da una coppia omosessuale, non avevano fatto altro che applicare il principio che da sempre vigeva all’interno dell’ hotel.
Cosi quando Steven Preddy e il suo compagno Martyn Hall si presentarono al Chymorvah Hotel furono pregati di rispettare le “regole della casa” e alloggiare in due stanze singole invece che nella matrimoniale. Per tutta risposta la coppia omosessuale abbandonò l’albergo furibonda accusando i coniugi Bull di discriminazione sessuale e promettendo che la vicenda non si sarebbe chiusa li. Dalle parole ai fatti e così i Bull furono citati in giudizio per danni dalla coppia omosessuale e condannati prima dal tribunale di Bristol, successivamente dalla Corte d’Appello e ora dalla Corte Suprema che con la sua sentenza mette la parola fine sulla vicenda.
La signora Bull, non appena appresa la condanna definitiva, ha espresso il suo disappunto al “Daily Mail” dichiarando: «siamo profondamente delusi e amareggiati dalla sentenza perché io e mio marito siamo solo dei semplici cristiani che credono nell’importanza del matrimonio come unione di un uomo e una donna e questo convincimento non è basato sull’ostilità nei confronti di nessuno. La Gran Bretagna dovrebbe essere un paese di libertà e tolleranza, ma sembra che il credo religioso sia destinato a passare sempre in secondo piano di fronte all’esigenza del “politicamente corretto ad ogni costo”(…), ma i giudici hanno, non solo eluso il problema, ma anche rafforzato la convinzione che i diritti dei gay debbano trionfare sempre e comunque».
Purtroppo per i coraggiosi coniugi Bull oltre i danni si è aggiunta anche la beffa dal momento che si sono trovati improvvisamente, loro malgrado, al centro di una persecuzione morale che non gli ha risparmiato atti vandalici e minacce di morte. Il boicottaggio mediatico scatenatosi nei loro confronti ha portato ad un drastico calo nelle prenotazioni e alla fine, lo scorso settembre, la coppia è stata costretta a chiudere la loro trentennale attività del Chymorvah Hotel. Tuttavia la signora Bull, consapevole di aver agito secondo coscienza, non è pentita ed ha cosi tenuto a precisare: «non abbiamo rimpianti per quello che abbiamo fatto e non ci vergogneremo mai delle nostre convinzioni religiose».
Mike Judge, portavoce del “Christian Institute”, che si è fatto carico delle spese legali del processo ha denunciato il clima di intolleranza anti-cristiano sottolineando come la decisione della Corte Suprema rappresenti l’ennesimo «schiaffo in faccia ai cristiani». Questa nuova, triste ed allarmante, vicenda, conferma il clima di repressione e intolleranza nei confronti di coloro che, in nome del loro credo religioso, si oppongono alla dittatura omosessualista rivendicando l’unicità del matrimonio tra un uomo ed una donna.

(Fonte: Lupo Glori, Corrispondenza Romana, 11 dicembre 2013)

mercoledì 4 dicembre 2013

L'opzione federalista del vescovo di Roma

Nella fluviale esortazione apostolica "Evangelii gaudium" resa pubblica una settimana fa, papa Francesco ha fatto capire di volersi distinguere su almeno due punti dai papi che l'hanno preceduto.
Il primo di questi punti è anche quello che ha avuto più risonanza sui media. E riguarda sia l'esercizio del primato del papa, sia i poteri delle conferenze episcopali.
Il secondo punto riguarda il rapporto tra il cristianesimo e le culture.
1. SUL PAPATO E LE CHIESE NAZIONALI
Circa il ruolo del papa, Jorge Mario Bergoglio riconosce a Giovanni Paolo II il merito di aver aperto la strada verso una nuova forma di esercizio del primato. Ma lamenta che "siamo avanzati poco in questo senso" e promette di voler procedere con più slancio verso una forma di papato "più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione".
Ma più che sul ruolo del papa – dove Francesco resta sul vago ed anzi ha finora operato concentrando in sé il massimo delle decisioni – è sui poteri delle conferenze episcopali che la "Evangelii gaudium" fa presagire una svolta.
Scrive il papa, nel paragrafo 32 del documento: "Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono 'portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente'. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria".
In nota, Francesco rinvia a un motu proprio di Giovanni Paolo II del 1998, riguardante proprio "la natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali".
Ma se si va a leggere quel documento, l’Apostolos suos, si scopre che esso riconosce alle conferenze episcopali nazionali una funzione esclusivamente pratica, cooperativa, di semplice corpo ausiliare intermedio tra il collegio di tutti i vescovi del mondo assieme al papa da un lato – unica "collegialità" dichiarata teologicamente fondata – e il singolo vescovo con autorità sulla sua diocesi dall'altro.
Soprattutto, il motu proprio "Apostolos suos" limita fortemente quella "autentica autorità dottrinale" che papa Francesco dice di voler concedere alle conferenze episcopali. Prescrive che se proprio vogliono emettere delle dichiarazioni dottrinali, lo devono fare con approvazione unanime e in comunione col papa e l'insieme della Chiesa, o almeno "a maggioranza qualificata" con il previo controllo e autorizzazione della Santa Sede.
Un pericolo da cui il motu proprio "Apostolos suos" mette in guardia è che le conferenze episcopali emettano dichiarazioni dottrinali in contrasto tra loro e con il magistero universale della Chiesa.
Un altro rischio che vuole scongiurare è che si creino separazioni e antagonismi tra singole Chiese nazionali e Roma, come avvenne in passato in Francia con il "gallicanesimo" e come avviene tra gli ortodossi con alcune Chiese nazionali autocefale.
Quel motu proprio porta la firma di Giovanni Paolo II, ma deve il suo impianto a colui che era il suo fidatissimo prefetto della dottrina, il cardinale Joseph Ratzinger.
E Ratzinger – si sapeva – era da tempo molto critico dei superpoteri che alcune conferenze episcopali si erano attribuite, soprattutto in alcuni paesi tra i quali la sua Germania.
Nella sua intervista-bomba del 1985, edita col titolo "Rapporto sulla fede", Ratzinger si era opposto risolutamente a che la Chiesa cattolica diventasse "una sorta di federazione di Chiese nazionali".
Invece che "un deciso rilancio del ruolo del vescovo" come voluto dal Concilio Vaticano II, le conferenze episcopali nazionali – accusava – hanno "soffocato" i vescovi con le loro pesanti strutture burocratiche.
E ancora: "Sembra molto bello decidere sempre insieme", ma "la verità non può essere creata come risultato di votazioni", sia perché "lo spirito di gruppo, magari la volontà di quieto vivere o addirittura il conformismo trascinano la maggioranza ad accettare le posizioni di minoranze intraprendenti, determinate ad andare verso direzioni precise", sia perché "la ricerca del punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione danno luogo spesso a documenti appiattiti, smorti".
Giovanni Paolo II e dopo di lui Benedetto XVI giudicavano modesta la qualità media dei vescovi del mondo e della gran parte conferenze episcopali. E agirono di conseguenza. Facendo essi stessi da guida e da modello e in alcuni casi – come in Italia – intervenendo risolutamente per mutare le leadership e le direzioni di marcia.
Con Francesco le conferenze episcopali potrebbero invece vedersi riconosciuta un'autonomia maggiore. Con i prevedibili contraccolpi di cui è fresco esempio la Germania, dove vescovi e cardinali di primo piano si stanno pubblicamente scontrando sulle questioni più varie, dai criteri di amministrazione delle diocesi alla comunione ai divorziati risposati, in quest'ultimo caso anticipando e forzando soluzioni su cui è stato chiamato a dibattere e decidere il doppio sinodo dei vescovi del 2014 e del 2015.
2. SUL CRISTIANESIMO E LE CULTURE
Quanto all'incontro tra il cristianesimo e le culture, papa Francesco ha molto insistito, nei paragrafi 115-118 della "Evangelii gaudium", sulla tesi che "il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale" ma fin dalle origini "si incarna nei popoli della terra, ciascuno dei quali ha la sua cultura".
In altre parole: "La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve". Con questo corollario: "Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale".
Dicendo ciò, papa Bergoglio sembra andare incontro a chi sostiene che l'annuncio del Vangelo abbia una sua purezza originaria rispetto a qualsiasi contaminazione culturale. Una purezza che dovrebbe essergli restituita, liberandolo principalmente dai suoi rivestimenti "occidentali" di ieri e di oggi, per consentirgli ogni volta di "inculturarsi" in nuove sintesi con altre culture.
Ma posto in questi termini, questo rapporto tra il cristianesimo e le culture trascura quel nesso inscindibile tra fede e ragione, tra rivelazione biblica e cultura greca, tra Gerusalemme e Atene, al quale Giovanni Paolo II ha dedicato l'enciclica "Fides et ratio" e sul quale Benedetto XVI ha focalizzato il suo memorabile discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006: > Fede, ragione e università
Per papa Ratzinger il legame tra la fede biblica e il filosofare greco è "una necessità intrinseca" che si manifesta non solo nel folgorante prologo del Vangelo di Giovanni: "In principio era il Logos", ma già nell'Antico Testamento, nel misterioso "Io sono" di Dio nel roveto ardente: "una contestazione nei confronti del mito con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso".
Questo incontro "tra spirito greco e spirito cristiano" – sosteneva Benedetto XVI – "si è realizzato in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo".
Ed è una sintesi – argomentava ancora papa Benedetto – che va difesa da tutti gli attacchi che nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri, hanno mirato a romperla, in nome della "deellenizzazione del cristianesimo".
Ai giorni nostri – faceva notare Ratzinger a Ratisbona – questo attacco si produce "in considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture": "Si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata, è grossolana ed imprecisa. […] Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura".
Su questo tema capitale, la "Evangelii gaudium" non necessariamente contraddice il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ma sicuramente ne è distante.
Anche qui con una evidente simpatia per una pluralità di forme di Chiesa, modellate sulle rispettive culture locali.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 3 dicembre 2013)

sabato 30 novembre 2013

La “teoria del gender”, ovvero l’istigazione al suicidio

Come se l’Italia non avesse problemi economici gravi e urgenti da affrontare (disoccupazione, casa, scuola, sanità, calamità varie, immigrazione, ecc.) il governo Letta ha stanziato ben 10 milioni di euro per impartire sin dalle scuole primarie la “teoria del gender”, una teoria demenziale e assurda, priva di fondamento scientifico e molto pericolosa perché, privando il ragazzo della sua identità sessuale, lo getta nella confusione più grande, che con molta facilità diventa poi disperazione a tal punto da indurlo al suicidio. Si tratta in pratica di un crimine contro l’umanità, fatto passare come progresso e imposto nelle scuole fin dalle primarie, ma in modo così subdolo che la gente non si rende abbastanza conto della sua gravità.
L’iniziativa è partita dalla massonica Unione europea che sta irrompendo nella nostra vita personale e privata, oltre che nella nostra Costituzione Nazionale in modo violento e dispotico con leggi inique e perverse contro l’uomo, accolta con applauso in Italia dall’ex ministro Fornero che è passata, assieme a Monti, come un tornado di calamità generale per tutta l’Italia. Come se questo non bastasse, è tornato alla ribalta un documento dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità (sezione Europa), l’OMS, “Standards for sexuality education in Europe”, finalizzato a fornire le linee guida per l’educazione sessuale dei bambini, programmi che incentivano le prime esperienze sessuali sin dai 4 anni, fornendo così l’alibi ai pedofili per dichiarare i bambini consenzienti e quindi “regolarizzare” anche questo loro criminale rapporto a norma di legge. A questo documento dell’OMS, elaborato nel 2010, fa riferimento la bozza di risoluzione dell’europarlamentare Edite Estrela dal titolo “Salute e diritti sessuali e riproduttivi”, bozza che di recente è stata rimandata dal Parlamento europeo alla Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere. Il contenuto della risoluzione Estrela nella sezione che riguarda l’educazione dei minori deve molto all’apporto fornito dagli “Standards for Sexuality Education in Europe”. Sono le stesse lobby mondiali che, mentre da una parte denunciano l’aumento dell’Aids tra i giovani e delle baby-squillo che si prostituiscono per un cellulare, dall’altra spingono ipocritamente gli Stati a promuovere queste e altre aberrazioni sin dall’infanzia come obbligo scolastico, sostenendo apoditticamente che per impartire una educazione sessuale i  genitori “non sono all’altezza del compito” e poi questi spesso “si imbarazzano ad affrontare l’argomento”!
Sta emergendo infatti con prepotenza uno Stato despota e padrone che si vuole sostituire alla famiglia nel compito di educare i figli, decidendo ogni più piccola cosa, sottraendo anche fisicamente i figli ai genitori con dei pretesti, come già sta accadendo in molte parti anche in Italia, e obbligando tutti a subire, fin dall’infanzia, una visione della vita basata non tanto sulla responsabilità personale e sui valori, ma essenzialmente sul sesso libero, anche contro natura e ipocritamente presentato come la soluzione a tutti i problemi, quando invece vediamo che il vero problema è la mancanza di amore, di vera amicizia e delle relazioni interpersonali a iniziare dalla famiglia.
La teoria del gender si propone di insinuare nei bambini il dubbio circa la loro vera identità sessuale dicendo in pratica al bambino, con l’ausilio di opuscoletti colorati e graziosi: “Caro bambino, sei proprio sicuro di essere un maschietto?” E se quello ti addita il pisellino come segno della sua chiara identità sessuale, può sentirsi ribattere dal docente di turno che quello non centra nulla con le sue vere tendenze che potrebbero essere diverse dalla realtà in cui si trova, e che possono essere varie e interscambiabili con molta semplicità, come quando si cambia un paio di scarpe che fanno male ai piedi. Basta prendere degli ormoni durante l’adolescenza per bloccare lo sviluppo e così fermarsi alla soglia di una specie di limbo chiamato “genere neutro”, cioè né maschi, né femmine, per poi decidere con calma e libertà per quale optare, nella speranza che la scienza inventi anche altre possibilità di scelta, oltre ai soliti due “generi” vecchi e logori come l’Antico Testamento: “Maschio e femmina li creò”.
E se per caso il bambino rispondesse nel suo candore che lui vorrebbe essere né maschio né femmina, ma come il suo gattino che fa le fusa, o come l’angioletto che lo accompagna a letto, no problem! La sua richiesta sarà subito esaudita attraverso un abile chirurgo che gli farà spuntare, a seconda delle richieste, o la coda o le ali!
Non è fantascienza morbosa, ma è la pura verità sul gender. che si arrivi al punto da mettere in dubbio l’identità del bambino come obbligo scolastico, proprio nell’età in cui il bambino pensa solo a giocare, equivale a ucciderlo dentro perché questo dubbio insinuato con abilità luciferina nell’età delicata della prima adolescenza può avere conseguenze terribili, dalla schizofrenia, fino al suicidio, come accade in quei paesi dove si insegnano da anni queste idiozie fatte passare per verità scientifica mettendo a tacere in modo violento i contestatori.
Infatti con la trappola del gender si distrugge l’uomo, altro che libertà di scelta! Ma quale scelta! Uno può farsi modificare chirurgicamente anche cento volte i suoi genitali, ma si tratta di interventi di chirurgia plastica esterna, superficiale, perché dentro, sia nel corpo come funzione fisiologica, sia nella psiche, come modo di pensare, di relazionarsi, resterà sempre come è nato, o maschio o femmina, perché il DNA non mentisce e non cambia a seconda dei capricci degli uomini! La combinazione dei cromosomi X Y, che segnano le caratteristiche tipiche maschili o femminili resterà invariata, identica e uguale per tutta la vita, o maschio o femmina, e pertanto, nel caso di veri problemi di identità, è semmai più opportuno, a detta degli studiosi, aiutare la persona a riscoprire e amare il valore della propria sessualità naturale, piuttosto che prospettare l’utopia di altri orientamenti lesivi della sua persona che la porterebbero in un “ginepraio sessuale” fatto inevitabilmente di droghe e alcool per sopravvivere.
Infatti la prima conseguenza del gender è la distruzione delle tre facoltà più nobili dell’uomo: intelletto, sentimento e volontà, perché la persona, privata del dominio di sé, viene deresponsabilizzata e lasciata in balìa degli istinti che possono essere anche aggressivi e violenti, ma quel che è peggio distrugge il vero amore tra un solo uomo e una sola donna, l’unico da cui proviene la vita e la famiglia, quella famiglia voluta non dalla società, né dalla Chiesa, ma da Dio stesso quando creò l’uomo, quella famiglia che rappresenta l’unico vero baluardo di protezione in difesa dell’uomo nella sua integrità psico-fisica. Chi promuove il gender non può amare l’uomo perché il gender distrugge l’uomo nel corpo e nell’anima, peggio dell’aborto, ed è quello che vuole il diavolo che odia l’uomo perché fatto a immagine e somiglianza di Dio, e siccome non può toccare Dio, si rifà sull’uomo per distruggerlo, dopo aver distrutto la famiglia, culla vitale dell’uomo. Ma non dobbiamo temere perché noi abbiamo un “asso” vincente che è Gesù Cristo, purché ci crediamo fermamente.
Si è tenuto recentemente a Verona, ma avviene periodicamente anche in altre città d’Italia, il convegno sulle scuole paritarie ecc. e mentre si è messo per lo più l’accento, giustamente, sulla necessità che vengano fatte sopravvivere da parte dello Stato perché rappresentano una ricchezza culturale e anche un grosso risparmio per le casse statali, non si è accennato minimamente a questo gravissimo problema che verrà imposto anche alle scuole private a norma di legge, a quanto pare.
Io faccio un appello a tutti, ma in particolare ai legali consapevoli di questa gravità e illegalità, affinché studino un modo per far annullare tale insegnamento a norma di legge!
Inoltre faccio appello ai responsabili delle scuole paritarie, che sono per lo più cattolici, molti di loro sacerdoti e religiosi, affinché si oppongano a queste proposte criminali da parte del ministero. Che si sveglino e che scuotano anche i responsabili delle scuole pubbliche invitando i genitori a dissentire anche in maniera forte e decisa, con manifestazioni e altro.
Anche i vescovi devono uscire pubblicamente, tutta la chiesa deve essere in prima linea su questa battaglia, prima di vedere ridotti i nostri bambini a poveri idioti, o zombi o malati psichici che non sanno più chi sono!!!
Non possiamo più accettare che la Chiesa continui a fare la “chiesa da campo”, la crocerossina di turno, la buona samaritana nel curare le ferite che i nemici dell’uomo provocano nel cuore degli innocenti per il fatto che si interviene sempre troppo tardi!  Questo non è possibile.
Dobbiamo prevenire e agire tutti uniti e compatti adesso, guardare in faccia la realtà e studiare le mosse più opportune, nella certezza che il Signore Gesù è con noi, ci protegge e ci aiuta se noi facciamo i primi passi con fede e coraggio, nella consapevolezza che il rispetto che si deve avere per tutti non può farci tacere sulle terribili conseguenze di una simile teoria imposta fin dalle scuole primarie a delle creature innocenti. “Meglio sarebbe per voi buttarvi a mare con una pietra al collo, piuttosto di scandalizzare questi piccoli” ammoniva Gesù!
In molti casi si tratta di problemi relazionali e dissociativi, o di sofferenze e disagi interiori tali da indurre la persona a fuggire la realtà per cercare sollievo altrove, in uno spazio virtuale utopistico, immaginario, nel quale rinchiudersi, illudendosi di risolvere i suoi problemi con queste “ultime novità” spacciate per scienza. Ma quando uno ha cambiato sesso che fa? Ha risolto tutti i suoi problemi? Vive felice e contento? Ha fatto felici le persone che gli stanno accanto, la moglie, i figli, la mamma, il papà? Ah! Dimenticavo! Col gender è proibito usare i dolcissimi nomi di mamma e papà, tanto è criminale la trappola del gender. Col gender ne vedremo di tragedie, altro che i tornado, i terremoti e le inondazioni!
Dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: chi diffonde queste teorie si rende gravemente responsabile di un crimine contro l’umanità, in particolare contro la parte più debole. 

(Fonte: Patrizia Stella, Riscossa cristiana, 29 novembre 2013)

 

venerdì 29 novembre 2013

Santa Maria Assunta di Praglia. Storia, arte, vita di un’abbazia benedettina

C’è una sorta di filo conduttore che si è dipanato per novecento anni nell’abbazia benedettina di Praglia (Padova) ai piedi dei Colli Euganei: il silenzio. Oggi, come nel 1107, perché qui, fra antichi chiostri e lunghi corridoi è ancora tempo di tacere, pregare, pensare alla propria anima, contemplare, nella comunione coi fratelli.
Uno spazio peraltro aperto anche alla gente: credenti e non credenti, dove, appunto, il silenzio rappresenta un recupero di valori (di modi di essere e di porsi): di fede in primis, ma poi anche di umanità. Alla ricerca di qualcosa, e/o di Qualcuno, se non altro di se stessi. Senza che quel silenzio debba impaurire, anzi.
Non aveva avvertito, del resto, una volta, don Giuseppe De Luca rivolgendosi al “problematico” Carlo Bo, di stare in chiesa in silenzio, magari anche senza pregare, ma in silenzio…
Ecco, è nella dimensione di questo atteggiamento che ci pare di poter sintetizzare il contenuto di un volume di ottocento pagine, che è poi la storia di quasi un millennio: una monografia articolata in ventinove saggi e quattro appendici, opera di paziente, approfondita ricerca di studiosi del mondo universitario e di quello ecclesiastico, a incominciare dall’abate di Santa Giustina (Padova) Francesco Trolese e dai benedettini di Praglia Mauro Maccarinelli (curatore con Chiara Ceschi e Paola Vettore Ferraro del libro) e Guglielmo Scannerini.
Questo volume in elegante veste tipografica e arricchito da immagini stupende, si presenta (ovviamente) con una completezza esemplare, anche perché questa realtà benedettina, nonostante varie traversie, è arrivata ai giorni nostri mantenendo una notevole vitalità – per così volerla chiamare.
Ecco allora che “Santa Maria Assunta di Praglia. Storia, arte, vita di un’abbazia benedettina”, sotto la direzione scientifica di Giordana Mariani Canova, Anna Maria Spiazzi e Francesco Trolese (Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia) rappresenta non soltanto un documento di quasi un millennio di storia e di vita, come detto, ma si propone quale elemento di riflessione per credenti e non credenti, quale fatto di cultura e di fede a un tempo, dunque.
Gli aspetti salienti di questa storia si possono riassumere nei seguenti momenti: la fondazione nel 1107 da parte della famiglia padovana dei Maltraversi che dotò l’abbazia di poderi; il passaggio, nel 1444 alla Congregazione Cassinese, con susseguente ampliamento del complesso edilizio-architettonico; le soppressioni: da parte di Napoleone prima (1810) e del Regno d’Italia poi (1867). In entrambi casi, comunque, l’abbazia non deperì, per così dire, e una presenza dei monaci nella zona restò a livello di assistenza pastorale alla popolazione. Il ritorno nei primi anni del Novecento, anche per l’interessamento di un “importante” amico, Antonio Fogazzaro, costituì un evento significativo, soprattutto per la popolazione e per quella salvaguardia della cultura, costante elemento nella storia dei benedettini. Non poche opere d’arte, fra l’altro, trovarono rifugio a Praglia durante il secondo conflitto mondiale.
In questi secoli di attività, di vita, la comunità religiosa ha mostrato di saper mantenere e trasmettere il messaggio del santo padre Benedetto, confermando l’importanza di uno spazio dove sono (ancora) possibili la preghiera, la meditazione, il confronto di una vita ci contemplazione nella realtà quotidiana – come sottolineato dall’abate Norberto Villa. “Tradizione, casa, scuola della comunione: così si presenta l’abbazia”, secondo il religioso, e questa “monografia rappresenta un messaggio di speranza, di bellezza, di gioia, di luce”.
Quasi a rincalzo, ecco l’abate presidente della Congregazione Benedettina Sublacense, padre Bruno Marin, nato e cresciuto e fattosi monaco proprio a Praglia, riferendosi al volume: “E’ un’opera come una ‘verbalizzazione’ della storia di Dio con noi:  monaci e popolo. Perché il monastero non è semplicemente la casa dei monaci, appunto, ma una realtà storica dinamica, il ‘cuore di Dio’, segno, simbolo del ‘cuore di Dio’ che ci chiama tutti alla fedeltà alla terra, alla storia”, oltre che alla fede, nella consapevolezza che qui, la realtà di oggi, come di ieri, è appunto comunione di fede…
Percorrendo gli antichi chiostri, immergendosi nei lunghi corridoi dove il tacere è (quasi) regola, pare poi di riudire le parole di un vecchio monaco scritte in un precedente volume (1985): “Il monastero nel concetto di San Benedetto è prima di tutto la casa di Dio, il luogo cioè dove Dio è il primo cercato, il primo servito, amato, pregato, cantato nelle lodi quotidiane. Il resto è subordinato e finalizzato a questa meta…”.
Ecco: Dio innanzitutto; il resto viene dopo. E, di questi tempi, è un richiamo di indubbia forza.
 

(Fonte: Giovanni Luganesi, Riscossa cristiana, 28 novembre 2013)