sabato 23 aprile 2016

I nuovi clericali del perdono

La questione non è essere severi o misericordiosi, comprensivi o rigidi, evangelici o rigoristi; no la questione non è questa.
La vera alternativa si pone tra essere cattolici o essere clericali.
Il clericalismo è una brutta bestia che è dura, durissima a morire. Il clericalismo di ogni genere, di ogni colore, di ogni tendenza. Sì, perché il clericalismo, che è una delle tentazioni più forti nella Chiesa, si trasforma esteriormente, restando sempre fedele a se stesso. Si adatta alle mode, alle situazioni, perché il suo scopo è alimentare se stesso.
Non vogliamo fare un trattatello sul clericalismo, non è il nostro scopo e non saremmo in grado di farlo; vogliamo solo coglierne qualche aspetto provocatorio, che inviti ad una riflessione.
Il clericalismo, nella sostanza, è l'operazione che l'uomo compie per sostituirsi a Dio.
Per il clericale non c'è al centro Dio, la sua verità, la sua legge e la sua grazia. Per il clericale al centro c'è l'uomo di chiesa, che sente il dovere di “gestire” per conto di Dio. Il clericale parte da una considerazione giusta, quella che fa dire che non si può andare a Dio senza la Chiesa; ma strada facendo perde Dio e resta solo con la Chiesa. È come un protestantesimo ribaltato, che finisce per avere la stessa erronea separazione tra la Chiesa e Dio: il protestante pretende di arrivare a Dio senza la Chiesa; il clericale pretende di fare gli interessi di Dio fermandosi alla Chiesa.
Il clericale arriva a non porsi più la domanda “Cosa vuole Dio?”, ma si chiede sempre “Cosa possiamo fare perché la Chiesa sia accolta dalla società e non sia messa ai margini?”, “Cosa domanda oggi il mondo alla Chiesa?”.
Solitamente, nel passato, l'accusa di clericalismo era rivolta ai cattolici “rigidi”, un po' conservatori, fedelissimi alla gerarchia e all'applicazione senza sconti delle norme ecclesiali.
Oggi constatiamo che il clericalismo, che come animale camaleontico si adatta ad ogni terreno e clima, è proprio dei cosiddetti cattolici progressisti, che non solo si credono i veri interpreti della volontà di Dio, ma se ne ritengono i liberi formulatori.
Ne è un triste esempio tutto il dibattito attorno al sinodo sulla famiglia, che ora viene prolungato sulla questione del perdono in occasione dell'anno giubilare.

I nuovi clericali pensano di poter gestire politicamente la misericordia, per rendere più simpatica la Chiesa al mondo. Insomma, i clericali gestiscono il perdono di Dio come arma politica per introdursi nel salotto della società: perdonare sempre, non giudicare, comprendere, scusare, accogliere... sono i verbi di moda oggi tra le fila di coloro che vogliono instaurare un nuovo corso del cattolicesimo.
E questi chierici, intellettuali laici o ecclesiastici che siano, sostenitori del perdono assicurato a tutto e tutti, motivano il loro agire con il fatto che i preti non devono sostituirsi a Dio, che unico ha il potere di giudicare.
Prima di andare avanti chiariamo subito che non vogliamo cadere nell'inganno della severità per la severità: la Chiesa si è spinta sempre fino all'estremo per concedere il perdono, perché crede al perdono di Dio. La misericordia divina è infinita, perdona ogni peccato se trova in noi il dolore del pentimento: guai a noi se ponessimo limiti a questo perdono! Ma questo spingersi fino all'estremo possibile, non è mai una falsità retorica: la Chiesa si domanda sempre se ci siano le condizioni perché il perdono di Dio possa fruttificare in noi (ad esempio, il dolore del peccato e il proponimento di non commetterlo più...), e amministrando il perdono prima giudica se ci siano o no queste condizioni. Rinunciare a questo, da parte della Chiesa, sarebbe rinunciare al compito datole da Dio stesso.
Proprio perché è di Dio, il perdono non può essere gestito dagli uomini, anche di chiesa, sganciato dalla stessa Rivelazione di Dio. Dio ha detto la sua volontà su di noi, ci ha ha dato la sua grazia ma anche la sua legge!
Proprio perché è di Dio, i preti non possono sostituirsi a Lui, amministrando assoluzioni a chi non le chiede veramente; e le chiede veramente chi, anche tra mille difficoltà, prova il dolore del proprio peccato e vuole uscirne.
E Dio, cui appartiene il perdonare, non è una pagina bianca nella vita degli uomini: ha detto la verità su di noi e chiede a noi di seguirla.

Allora, clericali della peggior razza, sono tutti coloro che nella Chiesa, non amando il martirio, cercano un posto nel nuovo mondo, ridicolizzando il perdono in una automatica assoluzione, che diventa poi, ed è inevitabile, la benedizione di tutto. E così il male non si ferma e ne vanno di mezzo le anime, a partire dalle più fragili.
Il perdono dei nuovi clericali è falso, è solo una parola vuota, che non cerca quello che Dio cerca in noi: il reale cambiamento, la santificazione possibile, la trasfigurazione nella grazia della nostra vita. Il clericale è pessimista sull'uomo e non ha fede nella grazia, non crede al cambiamento della persona, per questo non perde tempo: dà un facile perdono retorico ed esterno a tutti, e pensa ad altro, impegnato com'è nei salotti della modernità.
Il cattolico crede invece nel cambiamento delle persone, nella salvezza delle anime, per questo lavora affinché ci siano nell'uomo le condizioni per accogliere, con frutto, la grazia che salva.
I preti cattolici amministrano il perdono, che è e resta di Dio; amministrare significa lavorare perché il perdono possa essere reale nella persona e produrre frutti di bene e di santità.
Così ha lavorato, per Dio e per le anime, una schiera infinita di santi confessori.

(Fonte: Editoriale di "Radicati nella fede", Aprile 2016)



Un sinodo per il celibato sacerdotale?

Si è appena concluso il lungo cammino sinodale sulla famiglia che già sono avviati i lavori per il futuro. Non è affatto escluso che il prossimo Sinodo dei vescovi si occupi proprio di sinodalità e collegialità. E’ quanto trapela dalla riunione del XIV consiglio ordinario della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi tenutasi il 18 e 19 aprile, presieduta dal Papa. Ufficialmente sul tema del prossimo sinodo “sono state individuate alcune proposte da sottoporre al Santo Padre per la sua valutazione”, ma la riflessione su “una salutare decentralizzazione” appare decisiva.
Anche Amoris laetitia si muove in questa direzione, basti pensare a quanto scritto al paragrafo 3 e, più in particolare, all’approccio del discernimento “caso per caso” nella questione della disciplina dei sacramenti per le coppie di divorziati-risposati. Ma anche il Motu proprio sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio aveva enfatizzato il ruolo del vescovo nell’affrontare i casi specifici, offrendo un altro esempio di “decentralizzazione”.
Il consiglio della Segreteria del Sinodo ha approfondito il tema della riforma dell’Ordo synodi e ha concluso “tra l’altro che la valorizzazione della sinodalità e della collegialità deve sempre coniugarsi con l’esercizio del ministero del Vescovo di Roma, in modo da congiungere fruttuosamente primato, collegialità e sinodalità.” Il tema è scottante perché riguarda dispute che si trascinano da tempo, in ballo c’è il ruolo del papato, quello dei vescovi e delle Conferenze episcopali. Non a caso uno storico come Alberto Melloni, commentando Amoris laetitia dalle colonne del Corriere, ha voluto evidenziare che “il papato” con l’esortazione post-sinodale “scrive un altro capitolo della propria riforma.”
Nei corridoi dei sacri palazzi si parla anche di un altro tema che difficilmente interesserà in modo diretto il prossimo sinodo, ma è al centro dell'attenzione. Si tratta della riforma del celibato ecclesiastico. Nella stessa Amoris laetitia c’è un passaggio interessante al proposito. Poche, ma significative righe al paragrafo 202: “Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo [il riferimento è ai questionari che hanno preceduto i due sinodi, NdA], si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati.” 
Negli anni ’60, un largo e influente movimento ha cominciato a lavorare per “rinnovare” la Chiesa, mettendo sul tavolo la riforma della disciplina del matrimonio, la questione della sessualità, i preti sposati e una maggior “decentralizzazione”, tutti argomenti in qualche modo tra loro collegati e oggi di grande attualità. Don Giovanni Cereti, ottantatreenne rettore della chiesa dei Genovesi di Roma, e noto promotore fin dagli anni ’70 della comunione ai divorziati risposati, nel febbraio del 2015 si sarebbe sentito dire dal Papa che il tema del celibato sacerdotale è “in agenda”. Si trattava di un incontro a porte chiuse con i preti della Diocesi di Roma e don Cereti avrebbe posto una domanda al Santo Padre su questo tema, riprendendo un suo vecchio cavallo di battaglia, nonostante la Chiesa non abbia mai ammesso il passaggio dallo stato sacerdotale a quello coniugale. Di qui la risposta che avrebbe dato Francesco e che molta stampa aveva riportato: “E’ nella mia agenda.”
Come ha mostrato un grande studioso del tema, il cardinale Alfons M. Stickler, il senso del celibato sacerdotale è precisamente nella continenza sessuale e non è una questione di matrimonio o non matrimonio.  Nei primi secoli nessuna legge poneva il celibato come condizione pregiudiziale per l'ammissione agli ordini maggiori: se prima non si era sposati si doveva conservare il celibato; se si era ordinati dopo il matrimonio era richiesta la continenza da ogni uso del matrimonio stesso. I primi documenti pubblici, che risalgono al IV secolo, fanno chiaramente risalire l’obbligo della continenza al periodo apostolico. 
Eppure la continenza, al centro anche del recente dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti, per qualcuno sembra essere uno scoglio insormontabile, da eliminare. Ma chi non è a proprio agio con il celibato potrà esserlo veramente nel matrimonio? La domanda non è capziosa. “Siamo fatti in modo tale”, scriveva il premio Nobel Jerome Lejuene, “che ciò che coinvolge la sfera genitale turba direttamente il morale dal punto di vista neurologico. Da cui l'impossibilità, sembrerebbe, di dominare il comportamento emotivo e di controllare gli istinti, se l'impero della volontà non si estende anche, e forse anzitutto, al comportamento genitale cosciente e deliberato.” In questo caso quindi, invece, di decentralizzare bisognerebbe far trionfare (con l'ausilio della Grazia) l’impero della volontà che, forse, a qualcuno non piace perché poco collegiale. 

(Fonte: Lorenzo Bertocchi, La nuova bussola quotidiana, 23 aprile 2016)



La pastorale della Chiesa, quando non è più al servizio del Progetto di Dio, finisce per servire un qualsiasi progetto umano

Negli ultimi tempi, la pastorale della Chiesa cattolica - a tutti i livelli: dal sommo Pontefice agli operatori della pastorale “di strada” -  appare guidata dal convincimento che la Chiesa debba proporsi al “mondo” vincendo le sue diffidenze con l’esplicita accettazione di tutte le sue critiche teoriche e di tutte le sue alternative pratiche. Tale convincimento induce i Pastori a promettere al mondo l’imminente avvento di una Chiesa tutta nuova, priva ormai di quegli elementi negativi che la rendevano incomprensibile e inaccettabile. La Chiesa infatti avrebbe smesso di rifarsi a un modello tradizionale di pensiero (il dogma) e di azione (la pastorale) e sarebbe stata capace di «re-inventarsi», come si suole dire. Il mondo avrebbe finalmente visto nella Chiesa qualcosa di assolutamente “nuovo”, qualcosa di diverso rispetto a tutta la sua tradizione dottrinale e istituzionale; e questo perché avrebbe avuto il coraggio di una profonda autocritica (ritenendo evidentemente legittime e giuste la critiche che da secoli gli rivolge il “mondo”), in base alla quale avrebbe avviato una radicale riforma di se stessa.

Il primo effetto di questa volontà di riforma è l’adozione di un nuovo linguaggio: per dimostrare al mondo che la vecchia Chiesa, da esso giustamente respinta, non c’è più e che al suo posto ce n’è una nuova, in ogni momento dell’azione pastorale occorre dismettere definitivamente il linguaggio dei dogmi e delle leggi canoniche, e cominciare a parlare con il medesimo linguaggio con cui i maîtres à penser dell’Occidente tecnologico e secolarizzato esprimono la loro opzione per un “pensiero debole” e i leaders della politica mondiale esprimono l’accordo globalizzato sulla  “political correctness”.

La retorica umanistica al posto della “sacra doctrina”.
Questo linguaggio, volutamente ambiguo, predilige come mezzo espressivo le metafore, e come orizzonte di senso le utopie. Le metafore – che, come dice l’etimologia stessa, portano il pensiero da una realtà all’altra - hanno una qualche utilità comunicativa quando ai ricettori del messaggio risulta chiaro da quale realtà si parte e a quale realtà si vuole giungere. Ma il linguaggio dei pensatori più influenti dell’Occidente (pensiamo a Martin Heidegger), affine a quello dei politici di ogni schieramento, nasconde intenzionalmente sia i presupposti che le finalità del proprio discorso. E anche l’utopia – che, come dice l’etimologia stessa, vagheggia una società immaginaria “che non può esistere in alcuna parte” – è lo strumento retorico di cui si servono oggi tutti i leaders della politica mondiale quando debbono guadagnarsi il consenso delle masse per i loro progetti di riforma, rievocando di volta in volta la “pace perpetua” di Kant, oppure la “società senza classi” di Marx, la “fine della storia” di Francis Fukuyama, il “nuovo ordine mondiale” di Gerald Ford, la “salvezza ecologica del pianeta” secondo l’accordo mondiale sul clima siglato a Parigi nel dicembre del 2015.
La nostra rivista di apologetica teologica, intendendo contribuire alla coscienza delle finalità proprie della Chiesa cattolica, ritiene di dover avvertire tutti i cosiddetti “operatori della pastorale” che l’ambiguità del metaforico e il miraggio delle utopie sono quanto di più contrario alle esigenze dell’evangelizzazione, dato che la verità del Vangelo esige di essere comunicata con un linguaggio tale che gli “ascoltatori della Parola” comprendano di essere chiamati  alla conversione e alla fede («Convertitevi e credete al Vangelo!») attraverso la rivelazione dei «misteri del Regno di Dio»: un Regno che essi debbono pregare perché venga, e verrà certamente con la Parusia, sapendo allo stesso tempo che è già «in mezzo a loro». Insomma, per chi comprende l’essenza vera del Vangelo (quella teologica), dovrebbe essere evidente che la metafora e l’utopia sono strumenti linguistici inadatti alla catechesi e all’evangelizzazione. E invece ecco che la pastorale di oggi ha scelto di affidarsi a metafore e utopie, che riempiono quotidianamente i discorsi di coloro che riprendono e ripetono le modalità espressive (perfino gli slogan) di Papa Francesco. Lo scopo è di “promuovere” le riforme della Chiesa da lui avviate o progettate o semplicemente annunciate, presentandole all’opinione pubblica come suggerite tutte e sempre dallo “Spirito”. Si insiste a parlare di “Spirito”, termine volutamente ambiguo perché vicino semanticamente al principio primo dell’idealismo hegeliano (ispiratore del pensiero religioso di influenti teologi come Hans Küng e Karl Rahner) e non sempre riconducibile a ciò che la fede cattolica insegna sullo Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità «che procede dal Padre e dal Figlio e ha parlato per mezzo dei Profeti» (Simbolo Niceno-costantinopolitano). Lo Spirito Santo, quello della fede cattolica, ha sempre assistito la Chiesa di Cristo, fornendo agli Apostoli, a partire dal giorno della Pentecoste, il coraggio della testimonianza e lo zelo dell’evangelizzazione, assieme al carisma dell’infallibilità nel custodire e interpretare la divina rivelazione. Dal punto di vista propriamente teologico, insomma, non ha molto senso parlare di “una nuova Pentecoste” in riferimento al pontificato di Bergoglio e attribuire a una diretta illuminazione dello Spirito Santo ogni sua iniziativa riformatrice, specie se viene presentata come “rivoluzionaria”, ossia come intesa a operare un rottura con la Tradizione, arrivando ad accantonare o addirittura ad abolire gli insegnamenti e le decisioni pastorali dei Papi precedenti. Emblematico, a questo proposito, il caso delle encicliche Humanae vitae di Paolo VI e Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, ignorate o contestate durante i lavori del Sinodo dei vescovi sulla famiglia conclusosi nell’ottobre del 2015, quando non pochi padri, individualmente o nei diversi gruppi linguistici, chiedevano di introdurre nella prassi sacramentaria dei cambiamenti che avrebbero comportato, non una riforma, ma una vera e propria rivoluzione nella pastorale della Chiesa. Coloro che all’interno e all’esterno del Sinodo hanno sostenuto la richiesta di abolire la precedente disciplina dei sacramenti (cardinali come Walter Kasper e Reinhard Marx, vescovi come Bruno Forte, teologi veri come Giovanni Cavalcoli e teologi presunti come Enzo Bianchi) argomentavano sulla base di debolissime ragioni socio-culturali, senza curarsi delle forti ragioni dogmatiche che sorreggono la prassi tradizionale. Costoro ebbero comunque subito il consenso dell’opinione pubblica più sprovveduta, sicché, forti di questo appoggio mediatico, non esitarono a presentarsi come interpreti autorevoli e autorizzati del Papa stesso.  

È proprio questa eco favorevole dell’opinione pubblica a favorire oggi l’utilizzo, da parte di molti pastori, di argomenti ideologici che negli ambienti civili si sono meritati l’epiteto di “populismo”. Negli ultimi tempi abbiamo avuto fin troppi esempi di questo nuovo linguaggio pastorale fatto di ambigue metafore e di fuorvianti prospettive utopistiche, dove di teologia non c’è quasi più nulla e di retorica ce n’è fin troppa. E la deriva retorica si estende ormai a tutti i mezzi di comunicazione sociale ufficialmente cattolici. Lo notavo leggendo queste considerazioni sulla rivista culturale dell’Università Cattolica di Milano:
«Sono passati appena due anni, ma sono stati di un’intensità tale che il solco del pontificato di Papa Francesco sembra già ben tracciato. Non mancheranno ulteriori sorprese dello Spirito, quelle sorprese che il Papa accoglie e discerne nei suoi lunghi tempi di preghiera e delle quali s fa portatore per il bene della Chiesa e del suo servizio agli uomini. Considero che siamo all’alba di una rivoluzione evangelica, e non c’è nulla di retorico in questa affermazione [sic]. […] Quale sorpresa dello Spirito passare in così breve tempo da un certo clima di assedio, sofferto dalla Chiesa in una sorta di malinconico declino, all’esplosione di gioia e di speranza che suscita il pontificato di Francesco, vento da lontano, portatore delle sofferenze e delle speranze dei popoli latino-americani - che raccolgono quasi il 50% dei cattolici di tutto il mondo – e dell’esperienza di maturità della loro Chiesa manifestata ad Aparecida. Questa attrazione non è il risultato del carisma mediatico del Papa; c’è qualcosa di molto più profondo che Lui fa emergere dai bisogni e dai desideri della gente. Si sgretolano mura di pregiudizi e resistenze, si pongono domande e attese anche tra coloro che credevano di aver chiuso i conti con la fede e con la Chiesa; per molti, poi, è tempo di destarsi da una fede addormentata, per altri è un rifiorire, per tutti è la ritrovata fierezza della dignità e bellezza di essere cristiani. La libertà, la forza e la determinazione di Papa Francesco si fondano, da una parte, nella coscienza serena e lieta di lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio e, dall’altra, dall’amore che gli manifesta il popolo di Dio, ispirato dal suo istinto evangelico, dal sensus fidei, ma che gli esprimono anche, oltre i confini ecclesiastici, i popoli della terra, che in soli due anni lo hanno reso un leader mondiale nel drammatico scenario in cui viviamo» (Guzmàn M. Charriquiry Lecour, «Francesco e l’alba di una rivoluzione evangelica», in Vita e Pensiero, 2015, n. 3, p. 11).

In discorsi di questo tipo, dicevo, di teologia non c’è quasi più nulla e di retorica ce n’è fin troppa. Autore di questo brano è l’uruguaiano Charriquiry, segretario della Pontificia commissione per l’America Latina; egli vive in Vaticano da tanti anni e dovrebbe avere qualche cognizione teologica: eppure, come si è visto, non esita a manipolare alcune nozioni che per il credente hanno un significato soprannaturale ben preciso (“Spirito di Dio”, “popolo di Dio”, “sensus fidei”), riducendole a espressioni socio-culturali che hanno un  qualche interesse solo in un contesto ideologico di tipo populistico.
Una pastorale che venga praticata con questo linguaggio potrà forse ottenere che i fedeli cattolici nutrano una simpatia ancora maggiore per la persona del Papa attuale, ma dubito che possa aumentare in essi la devozione che è dovuta - non per motivi meramente umani ma per ragioni soprannaturali -  sia a Jorge Mario Bergoglio che a chiunque svolga di volta in volta il ministero di Romano Pontefice, successore del principe degli Apostoli e massima autorità di magistero e di governo nella Chiesa di Cristo. Per far sì che cresca  nei fedeli la devozione al Papa qua talis e di conseguenza la docilità alle sue direttive pastorali, non servono i rilevamenti di sociologia religiosa, in base ai quali si afferma che Bergoglio riscuoterebbe sempre maggiore consenso presso i non cattolici, i non cristiani e i non credenti: servirebbe piuttosto richiamare la verità di fede (una verità tradizionale, e pertanto anche attuale) in forza della quale sappiamo per certo che il Papa, chiunque egli sia, è il Vicario di Cristo in terra che da Cristo stesso ha  ricevuto il mandato e la grazia di pascere le pecore del suo gregge per portare tutti, uno per uno, alla salvezza eterna.
La missione della Chiesa è sempre e solo quella voluta da Cristo, al quale san Giovanni Paolo II i riferiva volentieri con il titolo di Redemptor hominis. E Cristo, a chi non rifiuta la sua verità e la sua grazia, ha promesso l’ingresso nel suo Regno, che non è opera dell’uomo e non risponde a logiche temporalistiche, come Egli stesso ha afferma perentoriamente davanti al procuratore romano, rappresentante allora del potere politico:
«Pilato allora   rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Tu sei il re dei   Giudei? Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul   mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi   sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto? Rispose Gesù: “Il mio   regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei   servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il   mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque ti sei re?”.   Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo   sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è   dalla verità, ascolta la mia voce”» (Vangelo   secondo Giovanni, 33-37).
Il Regno di Dio non può essere confuso con una qualsiasi utopia mondana, anzi la esclude proprio. Per questo diciamo che non è buona pastorale quella che si rivolge ai cristiani di oggi con prospettive di impegno del tutto contrarie a quelle che i cristiani di ogni tempo hanno ricavato dagli insegnamenti e dai precetti degli Apostoli:
«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l'esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia, non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne usarono. Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio del Tabernacolo. Infatti i corpi degli animali, il cui sangue vien portato nel santuario dal sommo sacerdote per i peccati, vengono bruciati fuori dell'accampamento. Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura. Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Lettera agli Ebrei, 7-15). «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (Prima Lettera ai Corinti, 29-31).
Nessuna interessata acrobazia ermeneutica dovrebbe essere usata per convincere i credenti a “mettere tra parentesi” queste verità della fede  cristiana, inducendoli a identificare la promessa divina del Regno di Dio con una qualche utopia umana. E nemmeno lo dovrebbero le tante interpretazione ideologica della costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II (nn. 40 ss.), come quelle della “teologia politica” di Johann Baptist Metz o della “teologia della liberazione” di Gustavo Gutiérrez. Quindi davvero non ha senso, da un punto di vista correttamente pastorale, andar dicendo che la Chiesa, grazie alla riforme di papa Bergoglio, si è posta al servizio del mondo per contribuire a edificare sulla terra e nel tempo presente una società umana perfetta, senza ingiustizie e divisioni, come quella utopisticamente vagheggiata per un indeterminato futuro terrestre da coloro che, pur considerandosi discepoli di Henri de Lubac, non hanno mai letto Le Drame de l’humanisme athée, opera pubblicata dal teologo gesuita già nel 1944 e che poi ha avuto tante nuove edizioni.

Non mancano nemmeno Pastori coraggiosi e zelanti che tentano di arginare la deriva secolaristica con interventi autorevoli che mirano a ribadire gli insegnamenti tradizionali della Chiesa e a mostrare l’improponibilità di ogni forma di ermeneutica della “rottura”, sia quando si continua a interpretate il Magistero del Vaticano II come un nuovo inizio assoluto, in opposizione alla Tradizione precedente, sia quando si pretende di ridimensionare o addirittura abolire il magistero ordinario dei papi del post-Concilio, considerati traditori dello “spirito conciliare” e restauratori dell’ancien régime dogmatico e giuridicistico. Si tratta del già menzionato cardinale Sarah, ma anche del cardinale Burke, e soprattutto del prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard Müller, del quale mi preme segnalare, per la sua grande opportunità, un’importante lettera i dirizzata ai vescovi del Cile e un’intervista concessa alla rivista teologica cilena Humanitas.
Noi della redazione di Fides Catholica, come teologi sempre fedeli a Cristo e al suo Vicario in terra, ci sentiamo obbligati, per senso di responsabilità apostolica, a contribuire ad arrestare la deriva secolaristica che sta inquinando la pastorale cattolica. Per questo continuiamo a interpretare rettamente – con quel sicuro criterio ermeneutico che la Chiesa stessa ha fornito a tutti i fedeli - il magistero ordinario e universale del Papa, unendoci logicamente ai Pastori che ne respingono le interpretazioni manipolatorie e strumentali. Tale opera di chiarimento dottrinale ed epistemico (dico “epistemico” perché la questione dell’ermeneutica della Tradizione, della Scrittura e del Magistero è centrale) è stato svolto da tutti gli autori dei contributi pubblicati su Fides Catholica fin dalla nascita della rivista. Io stesso ho dedicato a questo tema il saggio intitolato Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, realizzato in collaborazione con Stefano Carusi ed Enrico Maria Radaelli. In questo stesso fascicolo Serafino Lanzetta illustra gli intendimenti e gli esiti della sua ricerca scientifica sul carattere “pastorale” del Vaticano II. Siamo consapevoli di essere una voce (rigorosamente teologica) che a malapena riesce a fari sentire nel frastuono delle voci (esclusivamente ideologiche) che dominano la scena pubblica, sia all’interno che all’esterno della comunità dei credenti. Ma continuiamo a fornire il nostro contributo di apologetica della vera fede nei limiti delle concrete possibilità che la Provvidenza ci concede, sapendo che è proprio Essa, la divina Provvidenza, e fare “il resto”, cioè tutto. Ci conforta in questa convinzione un brano della Scrittura Santa che sembra potersi riferire proprio alla nostra situazione presente:
«Io sono il Signore tuo Dio che ti tengo per la destra e ti dico: "Non temere, io ti vengo in aiuto". Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto - oracolo del Signore - tuo redentore è il Santo di Israele. Ecco, ti rendo come una trebbia acuminata, nuova, munita di molte punte; tu trebbierai i monti e li stritolerai, ridurrai i colli in pula. Li vaglierai e il vento li porterà via, il turbine li disperderà. Tu, invece, gioirai nel Signore, ti vanterai del Santo di Israele. I miseri e i poveri cercano acqua ma non ce n'è, la loro lingua è riarsa per la sete; io, il Signore, li ascolterò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò. Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d'acqua, la terra arida in sorgenti. Pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti; perché vedano e sappiano, considerino e comprendano a un tempo che questo ha fatto la mano del Signore, lo ha creato il Santo di Israele» (Libro di Isaia, 41,13-20).


(Fonte: Antonio Livi, Fides et Ratio, 15 dicembre 2015)



venerdì 15 aprile 2016

«Salutare autocritica»

Mi è stato sollecitato un intervento sull’esortazione apostolica Amoris laetitia
I lettori che mi seguono ab initio sanno che non mi piace molto commentare i documenti pontifici. Scrissi in altra occasione: «Le sentenze non si discutono, si applicano». In questa circostanza, pertanto, anziché entrare nel merito dell’esortazione, preferirei soffermarmi principalmente su alcuni aspetti procedurali, anche se sarà inevitabile fare dei riferimenti ai contenuti.
Il documento ci invita a essere umili e realisti e a fare una “salutare autocritica” (n. 36): credo che tale atteggiamento non debba essere rivolto solo verso la Chiesa del passato e la sua prassi pastorale, ma, per essere autentico, debba estendersi a 360° e quindi anche alla Chiesa odierna. Vorrei pertanto fare alcune domande, non con spirito polemico, ma come semplice invito alla riflessione.

1. È corretto tornare su questioni che erano state già affrontate in tempi relativamente recenti (il precedente Sinodo sulla famiglia risale al 1980), senza che nel frattempo la situazione fosse radicalmente mutata? È vero che in questi trentacinque anni ci sono state non poche novità, che non erano state allora affrontate (p. es., la fecondazione assistita, la maternità surrogata, la teoria del gender, le unioni omosessuali, la stepchild adoption, ecc.); ma è altrettanto vero che tali tematiche non sono state al centro dei lavori degli ultimi Sinodi e sono toccate solo in parte e di sfuggita nell’esortazione apostolica. L’attenzione sembrava rivolta esclusivamente su una questione che era stata già ampiamente dibattuta e definita: l’accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati civilmente. La questione era stata autorevolmente risolta nell’esortazione apostolicaFamiliaris consortio (n. 84); il suo insegnamento era stato poi ripreso dalCatechismo della Chiesa cattolica (n. 1650) e ribadito dalla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 14 settembre 1994 e dalla Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi del 24 giugno 2000. Mi rendo perfettamente conto che Amoris laetitia sfugge a questa logica dottrinale-giuridica, per porsi su un piano squisitamente pastorale; chiedo solo: è corretto rimettere in discussione un insegnamento ormai praticamente definitivo?

2. È corretta la procedura seguita per affrontare questo tema? Prima il Concistoro straordinario nel febbraio 2014; poi l’assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre dello stesso anno; successivamente, l’emanazione dei due motu proprio sulle cause di nullità matrimoniale nell’agosto 2015; quindi l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre immediatamente successivo; infine l’esortazione apostolica post-sinodale appena pubblicata. Finora non si era mai vista una simile procedura: non era sufficiente un’unica assemblea sinodale, debitamente preparata? Era proprio necessario questo “martellamento” durato due anni? A qual fine? Senza contare poi le anomalie registrate lungo il cammino: la segretezza della relazione al Concistoro e del dibattito sinodale; la relazione post disceptationem del Sinodo 2014, che non rifletteva i risultati del dibattito; la relazione finale del medesimo Sinodo, che riprendeva tematiche che non erano state approvate dai Padri; la lettera riservata dei tredici cardinali all’inizio del Sinodo 2015, denunciata pubblicamente come “cospirazione”; ecc.: sono cose normali?

3. È corretto insinuare determinate soluzioni pastorali, che non erano state accolte dai Padri sinodali (e pertanto non potevano essere riprese nel testo dell’esortazione), nelle note del documento? È corretto mettere in discussione in un documento del magistero l’insegnamento di un documento precedente con la seguente formula: «molti … rilevano» (nota 329)? “Molti” chi? “Rilevano” a che titolo? Inoltre, quale tipo di adesione richiede la nota 351, che ammette una possibilità in aperto contrasto con con l’insegnamento e la prassi ininterrotta della Chiesa, basandosi su argomenti che erano stati già presi in considerazione e giudicati insufficienti a giustificare una deroga a quell’insegnamento e a quella prassi (cf la Lettera della Congregazione della Dottrina della fede del 14 settembre 1994, in particolare il n. 5: «Tale prassi [di non ammettere i divorziati risposati all’Eucaristia], presentata [da Familiaris consortio] come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni»)?

4. Non ci si dovrebbe preoccupare, quando si pubblica un documento, di che cosa arriverà ai fedeli? In Evangelii gaudium si poneva, giustamente, il problema della comunicazione del messaggio evangelico (n. 41); in Amoris laetitia si ammonisce di «evitare il grave rischio di messaggi sbagliati» (n. 300). Il fatto che nei giorni successivi all’uscita dell’esortazione siano stati pubblicati commenti contrastanti fra loro non dovrebbe far riflettere? Non sarà che il linguaggio usato non fosse sufficientemente chiaro? È possibile che sullo stesso documento ci sia chi afferma che non cambia nulla e chi lo considera rivoluzionario? Se un’affermazione fosse chiara, non se ne dovrebbero poter dare contemporaneamente due interpretazioni opposte. La confusione provocata non dovrebbe essere un campanello d’allarme? InAmoris laetitia non si ignora il problema: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale piú rigida che non dia luogo ad alcuna confusione» (n. 308), ma poi, con Evangelii gaudium (n. 45), si risponde che è preferibile una Chiesa che «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada». Si è tentati addirittura di pensare che la confusione venga intenzionalmente ricercata, perché in essa agirebbe lo Spirito e in essa Dio va ricercato. Personalmente preferisco credere, con San Paolo, che «Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» (1 Cor 14:33).

5. È possibile che, via via che passano gli anni, le esortazioni apostoliche post-sinodali diventino sempre piú prolisse? È possibile che non si riesca a sintetizzare in poche proposizioni i risultati delle discussioni dei Padri? La concisione, in genere, si sposa bene con l’efficacia e l’incisività: quando ci si dilunga oltre il necessario per trasmettere un determinato messaggio, il piú delle volte significa che le idee non erano molto chiare. Senza contare che, elaborando documenti eccessivamente lunghi, si rischia di scoraggiare anche i piú volenterosi a intraprenderne la lettura e li si costringe ad accontentarsi dei sunti, solitamente parziali e di parte, che ne fanno i mezzi di informazione.

6. È proprio necessario che i documenti pontifici si trasformino in trattati di psicologia, pedagogia, teologia morale, pastorale, spiritualità? È questo il compito del magistero della Chiesa? Prima si afferma che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (n. 3) poi, di fatto, ci si pronuncia su ogni aspetto e si rischia addirittura di cadere in quella “casuistica insopportabile”, che pure, a parole, si dice di deprecare (n. 304). Al magistero spetta il compito di interpretare la parola di Dio (Dei Verbum, n. 10; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 85), definire le verità della fede, custodire e interpretare la legge morale, non solo evangelica, ma anche naturale (Humanae vitae, n. 4). Il resto — la spiegazione, l’approfondimento, le applicazioni pratiche, ecc. — è sempre stato lasciato ai teologi, ai confessori, ai maestri di spirito, alla coscienza ben formata dei singoli fedeli. Un’esortazione apostolica, destinata a tutti i fedeli, non può, a mio parere, diventare un manuale per confessori.

7. È giusto insistere sull’astrattezza della dottrina (nn. 22; 36; 59; 201; 312), contrapponendola al discernimento e all’accompagnamento pastorale, quasi non ci fosse possibilità di convivenza fra le due realtà? Che la dottrina sia astratta, non mette conto di sottolinearlo: lo è per natura; come la prassi, di per sé, è pratica. Ma ciò non significa che nella vita umana non ci sia bisogno dell’una e dell’altra: la prassi deriva sempre da una teoria (basti pensare che in Amoris laetitia si ripete per ben due volte, ai nn. 3 e 261, un principio filosofico — e pertanto astratto — che era stato già enunciato in Evangelii gaudium ai nn. 222-225: «Il tempo è superiore allo spazio»). Ragion per cui è importante che la prassi, per essere buona (“ortoprassi”), sia ispirata da una dottrina vera (“ortodossia”); in caso contrario, una dottrina errata genererebbe inevitabilmente una prassi cattiva. Disprezzare la dottrina non giova a nulla, serve solo a privare la prassi del suo fondamento, della luce che dovrebbe guidarla. Non ci si accorge, inoltre, che il parlare della prassi non si identifica con la prassi stessa, ma costituisce solo una teoria della prassi? E la teoria della prassi è pur sempre una teoria, altrettanto astratta quanto la dottrina a cui si vuole contrapporre la prassi.

8. Descrivere la Chiesa del passato come una Chiesa esclusivamente interessata alla purezza della dottrina e indifferente ai problemi reali delle persone, non è forse una caricatura che non corrisponde in alcun modo alla realtà storica? Arrivare al punto di usare certe espressioni (n. 49: «Invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in “pietre morte da scagliare contro gli altri”»; n. 305: «Un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”») è non solo offensivo, ma falso e ingeneroso verso quanto la Chiesa ha fatto e continua a fare, pur fra mille contraddizioni e infedeltà, per la salvezza delle anime. Nella Chiesa il discernimento e l’accompagnamento pastorale (magari chiamati con nomi diversi e senza fare troppe teorizzazioni) ci sono sempre stati; solo che finora ciascuno faceva il suo mestiere: il magistero insegnava la dottrina, i teologi l’approfondivano, i confessori e i direttori spirituali l’applicavano ai singoli casi. Oggi invece sembrerebbe che nessuno riesca piú a distinguere la specificità del proprio ruolo.

9. Trasformare le esigenze della vita cristiana in “ideali” (nn. 34; 36; 38; 119; 157; 230; 292; 298; 303; 307; 308) non significa — davvero in questo caso — trasformare il cristianesimo in qualcosa di astratto, peggio, in una filosofia, se non addirittura in una ideologia? Non significa forse dimenticare che la parola di Dio è viva ed efficace (Eb 4:12), che la verità rivelata è una “verità che salva” (Dei Verbum, n. 7; Gaudium et spes, n. 28), che il vangelo «è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1:16), che «Dio non comanda l’impossibile; ma, quando comanda, ti ammonisce di fare quello che puoi e di chiedere quello che non puoi, e ti aiuta perché tu possa farlo» (Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, c. 11; cf Agostino, De natura et gratia, 43, 50)?

10. Siamo sicuri che la “conversione pastorale” (Evangelii gaudium, n. 25), che si richiede alla Chiesa odierna, sia un bene per essa? Ho l’impressione che alla base di tale conversione ci sia un equivoco di fondo, già presente al momento dell’indizione del Concilio Vaticano II e giunto fino ai nostri giorni: pensare che non sia piú necessario che la Chiesa oggi si prenda cura della dottrina, essendo già essa sufficientemente chiara, conosciuta e accettata da tutti, e che ci si debba preoccupare solo della prassi pastorale. Ma siamo proprio sicuri che la dottrina sia oggi cosí chiara, che non necessiti di ulteriori approfondimenti e di essere difesa da interpretazioni erronee? Siamo proprio certi che tutti, oggi, conoscano la dottrina cristiana? Non basta rispondere a queste domande dicendo che c’è ilCatechismo della Chiesa cattolica: primo, perché non è scontato che tutti lo conoscano; secondo, perché, quand’anche fosse conosciuto, non è detto che sia da tutti condiviso. Se è vero che «la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione piú luminosa della verità di Dio» (Amoris laetitia, n. 311), è altrettanto vero che «non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime» (Humanae vitae, n. 29; cf Familiaris consortio, n. 33;Reconciliatio et paenitentia, n. 34; Veritatis splendor, n. 95). E il servizio che il magistero deve offrire alla Chiesa è, innanzi tutto, il servizio della verità (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890); proprio insegnando la verità che salva il magistero assume un atteggiamento pastorale e “misericordioso” verso le anime. Solo quando il magistero avrà adempiuto a questo suo compito primario, gli operatori pastorali potranno, a loro volta, formare le coscienze, fare opera di discernimento e accompagnare le anime nel loro cammino di vita cristiana. 

(Fonte: P. Giovanni Scalese, Senza peli sulla lingua, 14 aprile 2016)




Pansa: tutte le falsità sulla Resistenza

Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della Liberazione.  Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall' opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo.
Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l' ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, leader delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell' Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L' Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l' aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile.
Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l' animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra. 
In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall' Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere.
La ferocia insita nell' animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un' altra guerra. Con l' obiettivo di fare dell' Italia l' Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell' Unione Sovietica.
I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un' arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci.
La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d' Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall' 8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura.
In totale, 19 vittime.
La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto "Giacca", 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l' assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l' estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri.
È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, "Gemisto", il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva "Gemisto". Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come "Giacca" morì nel suo letto.
Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull' Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l' estate e l' autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti.
A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia.
Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, "Marco", il pioniere della Resistenza sull' Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell' Oltrepò pavese.
Morì l' ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi.
Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell' Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri.
Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un' occhiata ironica. E disse: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent' anni. Lasciamolo riposare in pace».
Un' altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, "Bisagno", il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell' ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell' oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona.
Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti.
Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza.
Con lui spariva l' unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria un' insurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po' dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l' offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell' Ossola e di Alba.
Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L' area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all' Unione Sovietica.
Vi dominava l' indisciplina più totale. Al vertice c' era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili.
Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità.
La repubblica dell' Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l' ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l' ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo: «A Domodossola c' è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini».
La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944». Durata dell' esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio: «Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n' era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell' uniforme di gala di colonnello d' artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri...».
In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall' altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un' altra epoca altrettanto feroce. L' ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione record. Ma le tante sinistre andarono in tilt. E diedero fuori di matto.
Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l' accusa più ridicola: l' aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d' Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell' Unità, varie eccellenze dell' Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista.
Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido.
La meno grottesca riguarda l' ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere.
Si sono aggrappati alla Resistenza.
E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure.
Ecco un' altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell' Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell' ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l' agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati.
Che cosa resta di tutto questo?
Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos' altro. Quando viaggio in auto per l' Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento.
È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell' Aquila fascista. E mi domando se avrei avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent' anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l' amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L' Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no.

(Fonte: Giampaolo Pansa, Libero.it, 25 aprile 2016)




mercoledì 6 aprile 2016

Il consigliere di Ratzinger attacca: "Vi spiego il ricatto islamista"

Padre Samir Khalil Samir, gesuita, islamologo e consigliere di Benedetto XVI per i rapporti con l'islam, analizza il ricatto islamista contro l'Europa cristiana.

"Le città sono già occupate". Dagli islamici, dall'islam radicale. Non usa mezzi termini Samir Khalil Samir, islamologo e consigliere di Benedetto XIV per i rapporti con l'islam.
In un lungo articolo pubblicato oggi sul Foglio, il docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma, analizza senza peli sulla lingua la realtà e il ricatto dell'islam all'Europa cristiana.
"Le città sono già occupate - scrive - gli immigrati vanno a stabilirsi attorno alla città e la conseguenza più banale è che si formano dei quartieri abitati solo da immigrati". Così si formano le Molenbeek di tutta Europa. Quartieri dove la sharia diventa legge. E dove i musulmani la fanno da padroni. Si radicalizzano, fanno proselitismo. E l'Europa, gli Stati restano a guardare. Il motivo, spiega Samir, è che gli occidentali non hanno capito che "l'Islam non è una religione nel senso cristiano della parola". "Per noi la religione è un rapporto personale tra me e Dio - aggiunge - nel sistema islamico, la religione è tutto. È un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico e militare. Include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L'islam entra in ogni cosa".
Questo sistema è quello "wahabita, salafita o dei fratelli musulmani. Tutti vanno nella stella linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città, o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi". Per riuscire a conquistare le città italiane c'è bisogno di una moschea. E così la mettono al centro del loro progetto. La pretendono dalle autorità statali. E fanno di tutto per farsela concedere. Fanno preghiere in piazza, occupano le strade per invocare Allah. Quando la ottengono, poi, la trasformano in un centro di propaganda islamista con "volumi fatti a mero scopo propagandistico". Il problema - sentenzia l'ex consigliere di Ratzinger - "è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica".
Ecco quindi la differenza tra cristianesimo e islam: il primo "dice la sua, ma non ha la possibilità di fare pressione sulla gente"; il secondo, invece, permea tutta la vita degli aderenti alla comunità. "C'è una sorta di ricatto, uno scambio: usano tutto a fini politici": come le proteste per le moschee troppo piccole, o il fatto che lo Stato non dia la stessa dignità al cristianesimo e all'islam. Ma è un ricatto. Il ricatto islamista. "La verità - scrive Semir - è che siamo incoscienti: se si impediosce di occupare le strade, passa l'idea che si sia anti-musulmani. Invece è solo una norma di buon senso. Gli islamisti, i fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi per imporsi". "I gruppi radicali - continua - hanno come scopo principale di diffondere la loro visione dell'islam, perché per loro è quello l'autentico islam. Di conseguenza questi quartieri che un tempo erano misti, diventano quartieri musulmani radicali".
Infine, il consigliere di Ratzinger smonta la retorica buonista: "Lo Stato - scrive - deve spigare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima di tutte la necissità d'imparare la lingua nazionale (...) e che ci si comporta non solo secondo le leggi, ma anche secondo le norme e le usanze delle nostre società". Poi aggiunge: "È banale ricondurre l'ondata integralista nelle banlieue a problemi socio-economici. Riflettiamo sulla disoccupazione: sono disoccupati perché non hanno imparato un mestiere in modo corretto, in modo da essere ricercati e non rigettati".
Ecco perché non bisogna piegarsi al ricatto islamico. Non bisogna cedere. Nei musulmani c'è la "volontà di marginalizzarsi. Bisogna confrontarsi con un fatto chiaro: l'Europeo è diverso dal musulmano nella sua mentalità. La causa di ciò non è lo Stato: la causa sono io, musulmano, che rifiuto l'integrazione in nome della fede".

(Fonte: Giuseppe De Lorenzo, Il Giornale, 6 aprile 2016)




Asia Bibi condannata a morte per fede. Ma in Vaticano il suo caso è tabù

Ogni volta che c'è di mezzo l'islam, Francesco è estremamente cauto. Ma sul Pakistan la sua reticenza è massima. Ecco la storia della madre cristiana su cui egli tace. È in prigione da sette anni e la sua sorte si intreccia con la strage di Pasqua a Lahore.

Nel commentare la Pasqua di sangue di Lahore papa Francesco è stato attentissimo a non chiamare in causa gli autori dell'attentato e a non esplicitare il senso di quel crimine, che, anzi, ha definito "insensato":

Facendo ciò si è inchinato ai canoni di quella diplomazia minimale che guida tradizionalmente i passi della Santa Sede sui terreni più minati, giustificata dalla volontà di non esporre a ulteriori pericoli le cristianità più vulnerabili, come appunto quella pakistana.
E fin qui nessuna sorpresa. Ogni volta che c'è di mezzo l'islam, Jorge Mario Bergoglio è estremamente cauto. Una sola volta ha compiuto uno strappo, e tutto d'iniziativa sua, con la Turchia riguardo al "genocidio" degli armeni, mettendo non poco in affanno la segreteria di Stato vaticana, che ha dovuto faticare mesi per ricucire con le autorità turche:

Ma sul Pakistan il papa è ancor più riservato e silenzioso che mai, molto al di sotto delle attese dei cristiani di quel paese. In segreteria di Stato il dossier Pakistan è tra quelli più voluminosi e dolenti, eppure niente di esso affiora in ciò che Francesco dice e fa, le rare volte in cui si trova obbligato a intervenire.
L'emblema di questa reticenza è nei 12 secondi – non uno di più – del faccia a faccia che il papa ha avuto in piazza San Pietro, il 15 aprile di un anno fa, col marito e la figlia più piccola di Asia Bibi, la cattolica pakistana condannata a morte nel 2010 con la pretestuosa accusa di aver offeso il profeta Maometto, e da allora in carcere in attesa di una nuova sentenza che le salvi la vita.
Nel fugace incontro lungo le transenne – come si può osservare nel video – il papa appena sfiora i due, accompagnati dal loro tutore. Non li ascolta, non parla, non li benedice. La fanciulla lo guarda stupita di tanta freddezza. Tutto avviene come se a Francesco il nome di Asia Bibi non dica nulla:

Il 17 novembre 2010, pochi giorni dopo la sua condanna a morte, Benedetto XVI invocò pubblicamente che ad Asia Bibi fosse restituita la libertà. Ma questa è rimasta la prima e ultima volta in cui un papa ha pronunciato in pubblico il suo nome, nonostante la mobilitazione di tanti a sostegno di lei e nonostante la sua vicenda si sia intrecciata a tutti i successivi eventi di odio anticristiano in Pakistan, fino alla strage di quest'ultima Pasqua, con 74 morti e 350 feriti, in gran parte donne e bambini.
Asia Bibi fu arrestata il 19 giugno 2009 e condannata a morte l'11 novembre 2010, con l'accusa, non sorretta da prove, di aver violato la legge che in Pakistan punisce con l'esecuzione capitale l'offesa della religione islamica.
La famiglia presentò ricorso e in molti si mossero per la liberazione della condannata e per la revisione della legge contro la blasfemia, tra i quali l'allora governatore del Punjab e futuro possibile primo ministro, Salmaan Taseer, musulmano, che si recò anche a visitarla in carcere.
Ma il 4 gennaio 2011 Taseer fu ucciso da una delle sue guardie del corpo, Mumtaz Qadri, proprio per rappresaglia contro questo suo impegno.
E due mesi dopo, il 2 marzo, fu assassinato per lo stesso motivo Shahbaz Bhatti, cattolico, ministro per le minoranze e paladino dei diritti umani. Benedetto XVI lo conosceva di persona, lo aveva incontrato a Roma nel settembre dell'anno precedente e provava per lui grande stima.
Il 10 gennaio 2011, pochi giorni dopo l'uccisione di Taseer e poco prima di quella di Bhatti, Benedetto XVI dedicò alla questione questo passaggio del suo discorso d'inizio d'anno al corpo diplomatico:
"Tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le autorità di quel paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose. Il tragico assassinio del governatore del Punjab mostra quanto sia urgente procedere in tal senso: la venerazione nei riguardi di Dio promuove la fraternità e l’amore, non l’odio e la divisione".
Il fratello di Shahbaz Bhatti, Paul, ha cercato da allora di animare una mobilitazione nazionale e internazionale a sostegno della libertà religiosa, con Asia Bibi come caso emblematico.
In patria, Paul Bhatti ha fondato e presiede la All Pakistan Minorities Alliance ed è stato ministro per l'armonia nazionale. E oggi rivendica i passi avanti ottenuti nella difesa delle minoranze, nel controllo delle scuole coraniche in cui si instilla odio contro gli "infedeli", nelle correzioni legalitarie apportate dalla corte suprema ai processi per blasfemia e soprattutto in un più deciso impegno delle autorità non solo politiche ma militari nel combattere il radicalismo islamico, specie dopo il tremendo attentato del 16 dicembre 2014 alla scuola militare di Peshawar, con l'uccisione deliberata di 132 scolari d'età tra i 7 e i 18 anni.
Un effetto di questa evoluzione è stato, a giudizio di Bhatti, proprio l'accoglimento da parte della corte suprema del Pakistan, il 22 luglio del 2015, del ricorso di Asia Bibi. La quale, in attesa di un nuovo processo che la riconosca innocente, continua dal carcere a far sentire la sua voce, con lettere e appelli.
Ad esempio con questa lettera aperta del dicembre 2012, nella quale ringrazia Benedetto XVI per aver parlato in suo favore:

Come anche con le due lettere da lei indirizzate personalmente a papa Francesco, che non hanno ricevuto risposta.
Asia Bibi è dal 2010 custodita in celle di massima sicurezza, in un isolamento giustificato dalle continue minacce alla sua vita. Perfino il cibo le viene controllato, per evitare che sia avvelenata.
Ma anche i suoi famigliari, il marito Ashiq Masih e i cinque figli Imran, Nasima, Isha, Sidra e Isham, devono nascondersi in località segrete per ragioni di sicurezza. È quanto hanno dovuto fare, in particolare, alla fine dello scorso febbraio, in concomitanza con l'esecuzione capitale di Mumtaz Qadri, l'autore dell'assassinio nel 2011 del governatore del Punjab Salmaan Naseer.
L'impiccagione di Qadri, avvenuta il 29 febbraio, ha suscitato la reazione di massa dei suoi sostenitori e dei gruppi islamici radicali, che sono scesi in piazza a Lahore, Karachi, Peshawar e altre città, qua e là con esplosioni di violenza.
Per tutti costoro Qadri è un "eroe nazionale", ne chiedono la riabilitazione e ne innalzano l'effigie. Mentre per Asia Bibi reclamano incessantemente la morte.
Il giorno di Pasqua, a un mese dall'esecuzione di Qadri, in 30 mila sono scesi in piazza a Islamabad, la capitale, e hanno tentato di sfondare la "zona rossa" dei palazzi delle istituzioni. Ma sono stati respinti. Nel pomeriggio dello stesso giorno, a Lahore, un islamista ventenne si faceva esplodere nel parco giochi Gulshan-i-Iqbal, facendo strage di donne e bambini che stavano trascorrendo la festività, introdotta per la prima volta quest'anno dal governo.
La strage è stata rivendicata da un’organizzazione islamica chiamata Jamaat-ul-Aharar, una fazione del Tehreek-e-Taliban Pakistan, come un attacco deliberato contro i cristiani che celebravano la Pasqua.
E non è il primo attentato compiuto in Pakistan con questo obiettivo dichiarato, di domenica e davanti a delle chiese affollate. È accaduto così il 22 settembre 2013 a Peshawar, con 126 vittime, e il 15 marzo 2015 a Yuhannabad, con 26 morti e numerosi feriti, tutti cristiani.
Il 31 marzo scorso i musulmani radicali hanno lasciato le piazze, millantando di aver avuto dal governo l'assicurazione che Asia Bibi sarà presto impiccata. Le autorità pakistane hanno smentito.
Mercoledì 2 marzo, al termine dell'udienza generale in piazza San Pietro, papa Francesco aveva brevemente incontrato due ministri pakistani, quello della marina Kamran Michael e quello degli affari religiosi Sardar Muhammad Yousaf. I due avevano trasmesso al papa l'invito del primo ministro Nawaz Sharif a visitare il Pakistan. E avevano interpretato la risposta del papa come un "sì", facendo immaginare che egli avrebbe fatto tappa in Pakistan nel prossimo settembre, in occasione del viaggio a Calcutta per la canonizzazione di madre Teresa.
In realtà, come precisato da padre Federico Lombardi, il papa non si recherà quest'anno né a Calcutta né tanto meno in Pakistan.
Nè ha finora dedicato una sola parola ad Asia Bibi. Il cui supplizio si riverbera sul marito e i figli, che da quando lei è in prigione, da quasi 2500 giorni, devono continuamente trovar riparo nella clandestinità, essendo anche loro in pericolo di vita.
Dal loro villaggio di Ittanwali si sono trasferiti a Lahore, una grande metropoli dove è più facile l'anonimato. Ma presto anche lì sono stati riconosciuti e minacciati. Per nascondersi, il marito ha dovuto smettere di lavorare. L'estate scorsa sono stati cacciati di casa e oggi trovano riparo in una scuola della Renaissance Education Foundation.
Il direttore di questa fondazione, Joseph Nadeem, è il signore con la cravatta a fianco della figlia di Asia Bibi, nel video dell'incontro con papa Francesco.
Al quale ha tentato inutilmente di dire in spagnolo chi fossero l'uomo e la bambina. E neppure è riuscito a mettergli in mano il dossier che aveva in animo di dargli.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 5 aprile 2016)





lunedì 4 aprile 2016

Bertone, Paglia e la trasparenza a singhiozzo

Da alcuni giorni tiene banco su giornali, radio e tv la vicenda del “super-attico” del cardinale Tarcisio Bertone, ex segretario di Stato, i cui lavori di ristrutturazione sarebbero stati pagati con i fondi dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù. A quanto è stato affermato, c’è una formale inchiesta in Vaticano per appurare eventuali illeciti, ma più che il contenuto delle accuse e la responsabilità personale di Bertone in maneggi quantomeno inopportuni, ci sono almeno due aspetti che fanno nascere alcune domande su quello che si muove attorno a questa vicenda.
Anzitutto però, va fatta una premessa: non c’è dubbio che a posteriori si possa affermare che la nomina di Bertone a segretario di Stato sia stata la scelta più infelice del pontificato di Benedetto XVI, ma non anzitutto per i risvolti, diciamo così, economici o di correttezza morale. Papa Ratzinger, nel suo progetto di riforma, aveva deciso di scavalcare i diplomatici in carriera per puntare su una persona di fiducia che avrebbe dovuto porre anche il lavoro diplomatico a servizio dell’evangelizzazione. Bertone, che non era un diplomatico, era stato collaboratore di Ratzinger già da molti anni alla Congregazione per la Dottrina della Fede, e sembrava quindi la persona giusta per incarnare il progetto di papa Benedetto XVI. Purtroppo le cose sono andate diversamente, e la colpa più grave che si può imputare a Bertone è certamente quella di aver tradito il compito evangelizzatore che gli era stato affidato: sia stato per incapacità, per ambizione personale, per amicizie pericolose, per cattivi consiglieri o per tutte queste cose insieme, fatto sta che l’«amministrazione Bertone» sarà ricordata soprattutto per scelte incomprensibili, gaffe, scontri con vari episcopati, tentazioni politiche, scandali e, ovviamente, strani affari con sempre presente il discusso manager Giuseppe Profiti, personaggio chiave anche nella vicenda del super-attico (peraltro il rapporto d’affari con Profiti ha origine a Genova quando Bertone era l’arcivescovo del capoluogo ligure).
La situazione si era così deteriorata ed era diventata tanto imbarazzante che più volte diversi cardinali e vescovi chiesero a papa Benedetto XVI di rimuovere il cardinale Bertone dalla segreteria di Stato. Invano. Poi arrivò Vatileaks e il resto è storia recente. Di nemici dunque il cardinale Bertone se ne era fatti molti ma malgrado ciò – ed ecco il primo aspetto che suona sospetto – c’è qualcosa di inusuale in questo accanimento nei suoi confronti. Non si discute la legittimità e la necessità di inchieste laddove ce ne siano motivi fondati, ma tutto questo fiorire di inchieste giornalistiche e documenti che escono dal Vaticano e finiscono sulle scrivanie dei cronisti “giusti”, per trasformare il cardinale Bertone nel simbolo stesso del marcio in Vaticano, fa nascere qualche sospetto. Evidentemente tra i tanti nemici, ce n’è qualcuno che non si accontenta di vederlo semplicemente ormai fuori dal gioco, ma gliela vuol fare pagare fino all’ultima goccia. Sarebbe davvero interessante poter dare un volto a questi “giustizieri” e capire i motivi di tanto interessamento. 
A queste domande – per ora senza risposta - si collega il secondo aspetto da mettere in rilievo, che riguarda la narrazione della vicenda. In questi giorni sui media, la lettura più ricorrente lega il caso Bertone al processo di riforma della Curia perseguito da papa Francesco. Così Bertone diventa il simbolo del vecchio e del marcio, contro cui combatte un Papa deciso a fare pulizia. Ieri il Gr1 della Rai scomodava addirittura il paragone storico con la glasnost sovietica per spiegare l’opera di trasparenza in atto, dando ovviamente per scontato che fino all’altro giorno la Chiesa era una grande associazione a delinquere e Bertone il suo profeta. Si tratta di una narrazione coerente con l’immagine che una certa parte di Chiesa e il mondo laico che ha in mano i principali organi di informazione vuole dare di questo pontificato. Così nei servizi giornalistici e nei commenti dei soliti esperti si sente insistentemente parlare di “nuova Chiesa”, la “Chiesa di Bergoglio” e via di questo passo per scavare un fosso tra il presunto vecchio e il presunto nuovo nato nel marzo 2013.
Non solo questa visione è falsa e ideologica, ma nella vicenda di cui stiamo parlando sarebbe addirittura contraddittoria. In realtà noi non sappiamo se davvero papa Francesco abbia qualcosa a che fare con le indagini in corso sull’attico del cardinale Bertone, e se queste rispondono davvero al bisogno di fare pulizia. È strano però che nessuno abbia notato che mentre si dà la caccia a un ex segretario di Stato (che peraltro, non dimentichiamolo, non è stato ancora nemmeno incriminato), continui ad esempio a restare indisturbato al vertice di un dicastero vaticano un vescovo responsabile della bancarotta della diocesi che guidava.
Ci riferiamo ovviamente a monsignor Vincenzo Paglia, dal giugno 2012 presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, che ha lasciato alla piccola diocesi di Terni un debito mostruoso (si parla di 35 milioni di euro) più una serie di ricordi, in quanto a disinvoltura negli affari, non propriamente edificanti. Ci sarebbe ovviamente molto altro da aggiungere ma dovrebbe bastare questo per indurre alla prudenza e sconsigliare incarichi delicati e prestigiosi a un vescovo da tempo nel mirino della magistratura. Eppure ciò non avviene, e anche le domande su questa contraddizione (l’esigenza di trasparenza vale solo per vescovi e cardinali in pensione?) sono per il momento destinate a restare senza risposta. Ma sicuramente sconsigliano di prendere per oro colato certi racconti.  


(Fonte: Riccardo Cascioli, La nuova bussola quotidiana, 3 aprile 2016)