La pedofilia è un crimine che fa notizia solo quando è legato agli abusi commessi dai sacerdoti. E' il commento amaro di don Fortunato Di Noto, pioniere nella lotta alla pedofilia e fondatore dell'associazione Meter (www.associazionemeter.org), che da oltre 20 anni si batte in prima linea contro questa piaga sociale.
“La cosa più impressionante – afferma il sacerdote di Avola in una intervista ad h2onews.org, accennando agli scandali che hanno investito la Chiesa – è che si sia parlato di pedofilia del clero ma non si sia parlato ad esempio della pedofilia come fenomeno mondiale. E il fenomeno mondiale degli abusi sessuali è sotto gli occhi di tutti”.
Esistono, infatti, in tutto il mondo movimenti politici pedofili, e una lobby pedocriminale che attraverso lo sfruttamento sessuale ma anche la vendita di video, foto e gadget ha creato un giro di affari che va dai 2 ai 13 miliardi di euro l’anno, per un totale di 200.000 minori coinvolti.
Inoltre, secondo quanto più volte denunciato da don Di Noto, la Rete ha portato a una vera globalizzazione del fenomeno della pedofilia, che ha ridisegnato la mappa del turismo sessuale tradizionalmente legato ai paesi del Sudest asiatico.
Infatti dall'analisi delle 1.560 segnalazioni – in tutto 7.240 gli indirizzi (siti e riferimenti) - inoltrate nel 2009 dall'associazione Meter alla Polizia Postale e alle Polizie estere, gli USA risultavano in testa con il 23% del totale, tallonati dalla Russia a quota 22%, al terzo posto l’Europa con il 15%.
“Quello che mi impressiona e quello che in fondo fa la differenza – ha commentato ancora don Di Noto – è che i quotidiani, probabilmente molto indirizzati dalle lobby della comunicazione, hanno voluto parlare di più di questo che non parlare della gravità della pedocriminalità, della gravità dello sfruttamento sessuale dei bambini, della gravità del turismo sessuale sui bambini, della gravità della vendita dei bambini e della gravità dello stupro sui bambini”.
“Questa è la dimostrazione visibile e plateale di come certa stampa, mossa da certi tipi di lobby di pensiero, comunichi a volte notizie false, non verificabili, o anche strumentali”, ha poi concluso.
(Fonte: Zenit, 28 luglio 2010)
giovedì 29 luglio 2010
domenica 25 luglio 2010
Il sacerdote libero professionista
Sembra senza fine il filone boccaccesco che ha per protagonisti i preti. Adesso tocca alle “notti brave” di alcuni sacerdoti gay nell'estate di Roma, raccontate con dovizia di particolari nel numero in edicola del settimanale Panorama. Di fronte a racconti del genere c'è ben poco da dire, se non ripetere - come ricorda la nota dedicata alla vicenda dal Vicariato di Roma - che chi vive il proprio sacerdozio in questo modo getta fango su tutti. Mi permetto solo di aggiungere che getta fango non solo sui preti: qui non c'è da difendere una “categoria”, ma qualcosa di più prezioso come la credibilità delle parole, dei gesti, dei riti attraverso cui siamo chiamati a rendere visibile all'uomo di oggi il Vangelo di Gesù.
Detto questo (e aggiunta tutta la vicinanza ai tanti preti che grazie al Cielo sappiamo non essere così), c'è - però - un aspetto di questa vicenda su cui credo valga la pena di spendere qualche parola. Mi ha colpito che nella risposta all'inchiesta il Vicariato di Roma faccia riferimento alle centinaia di sacerdoti che vivono a Roma per motivi di studio ma non sono impegnati in attività pastorali del Vicariato. La nota non lo dice, ma a questi vanno poi aggiunti quelli che lavorano nei dicasteri vaticani.
Il riferimento è pertinente, perché leggendo l'inchiesta di Panorama tutto lascia pensare che i quattro sacerdoti di cui si parla non siano impegnati in una parrocchia. C'è in particolare un dettaglio sul “prete francese” di cui parla il settimanale che mi ha lasciato sconcertato ancora più delle sue frequentazioni: il fatto che di domenica celebrasse Messa dove gli pare (in casa addirittura), all'ora che gli pare e con chi gli pare. L'immagine che ne emerge è quella di un sacerdote “libero professionista”, con un ufficio da svolgere ma senza un legame con una comunità. Visto il contesto adesso è facile dargli contro. Ma siamo onesti è chiediamoci: il suo è un caso così isolato oggi a Roma? E - anche lasciando perdere per un momento tutti i discorsi su notti brave, tendenze omosessuali, festini e chi più ne ha più ne metta - l'idea di un prete che fuori dall'orario di lavoro in Curia o dalle ore di studio all'Università Pontificia si fa sostanzialmente i fatti suoi, non è già una negazione dell'identità del sacerdote?
Certo, anche in questo caso è sbagliato fare di tutta l'erba un fascio. So benissimo che ci sono tanti sacerdoti della Curia e tanti studenti delle Università Pontificie che vanno regolarmente in parrocchia o vivono in altre comunità. Però mi chiedo se sia giusto lasciare tutto questo all'iniziativa dei singoli. Quando è in diocesi un sacerdote non si costruisce il suo ministero da solo e su misura. Perché a Roma le cose oggi possono andare diversamente?
È solo una piccola domanda. Ma quel ritorno alla santità del sacerdozio, richiamata tante volte e con passione in questi mesi difficili da Benedetto XVI, non passa anche dalla correzione di queste storture?
(Fonte: Giorgio Bernardelli, Vinonuovo.it, 24 luglio 2010)
Detto questo (e aggiunta tutta la vicinanza ai tanti preti che grazie al Cielo sappiamo non essere così), c'è - però - un aspetto di questa vicenda su cui credo valga la pena di spendere qualche parola. Mi ha colpito che nella risposta all'inchiesta il Vicariato di Roma faccia riferimento alle centinaia di sacerdoti che vivono a Roma per motivi di studio ma non sono impegnati in attività pastorali del Vicariato. La nota non lo dice, ma a questi vanno poi aggiunti quelli che lavorano nei dicasteri vaticani.
Il riferimento è pertinente, perché leggendo l'inchiesta di Panorama tutto lascia pensare che i quattro sacerdoti di cui si parla non siano impegnati in una parrocchia. C'è in particolare un dettaglio sul “prete francese” di cui parla il settimanale che mi ha lasciato sconcertato ancora più delle sue frequentazioni: il fatto che di domenica celebrasse Messa dove gli pare (in casa addirittura), all'ora che gli pare e con chi gli pare. L'immagine che ne emerge è quella di un sacerdote “libero professionista”, con un ufficio da svolgere ma senza un legame con una comunità. Visto il contesto adesso è facile dargli contro. Ma siamo onesti è chiediamoci: il suo è un caso così isolato oggi a Roma? E - anche lasciando perdere per un momento tutti i discorsi su notti brave, tendenze omosessuali, festini e chi più ne ha più ne metta - l'idea di un prete che fuori dall'orario di lavoro in Curia o dalle ore di studio all'Università Pontificia si fa sostanzialmente i fatti suoi, non è già una negazione dell'identità del sacerdote?
Certo, anche in questo caso è sbagliato fare di tutta l'erba un fascio. So benissimo che ci sono tanti sacerdoti della Curia e tanti studenti delle Università Pontificie che vanno regolarmente in parrocchia o vivono in altre comunità. Però mi chiedo se sia giusto lasciare tutto questo all'iniziativa dei singoli. Quando è in diocesi un sacerdote non si costruisce il suo ministero da solo e su misura. Perché a Roma le cose oggi possono andare diversamente?
È solo una piccola domanda. Ma quel ritorno alla santità del sacerdozio, richiamata tante volte e con passione in questi mesi difficili da Benedetto XVI, non passa anche dalla correzione di queste storture?
(Fonte: Giorgio Bernardelli, Vinonuovo.it, 24 luglio 2010)
sabato 24 luglio 2010
Appunto sull’inchiesta di “Panorama” dedicata ai preti gay
In merito alla notizia della reazione del Vicariato di Roma all’inchiesta di Panorama sulle notti brave di alcuni sacerdoti a Roma, e sulle loro frequentazioni gay, vi propongo alcune considerazioni:
1) La mia prima reazione, nel leggere due giorni fa le anticipazioni stampa e nel vedere ieri il filmato messo in rete sul sito del settimanale, è stata quella di dire un’Ave Maria per i preti coinvolti: come sempre accade in questi casi l’anonimato non regge, le abitazioni risulteranno conoscibili per chi li frequenta; nel caso del prete di origini francesi si scorge la foto in bianco e nero di una donna, probabilmente la mamma, che speriamo non veda mai quelle immagini. Mi colpisce il fatto che, mentre nel Paese si discute animatamente sulla pubblicazione delle intercettazioni e sulla necessità di rispettare la privacy delle persone, le vite (non certo esemplari…) di questi anonimi sacerdoti vengano messe in pagina e in rete a loro insaputa e - immagino - senza il loro consenso. Non sto dicendo, ovviamente, che non si possano o non si debbano fare inchieste sull’argomento, che purtroppo offre materia e pure abbondante. Credo però esistano altri sistemi, più rispettosi delle persone. E altri stili, che non si riducono all’uso di telecamere nascoste e complici compiacenti disposti ad adescare o a farsi adescare per consumare, filmandolo, un rapporto omosex con un prete. Ricordo a questo proposito il libro Io, prete gay, scritto nel 2007 dal vaticanista Marco Politi, che ha raccolto la testimonianza, anonima, di un sacerdote omosessuale. Una lettura sconvolgente, utile per capire, ma senza alcuna concessione voyeristica o scandalistica.
2) Detto questo, però, non si può non notare l’assoluta gravità di ciò che Panorama racconta nella sua inchiesta. Vale a dire la “schizofrenia” di persone che riescono a vivere una vita assolutamente doppia, e che dopo aver consumato un rapporto omosessuale con un partner occasionale conosciuto a una festa, vestono i paramenti per celebrare messa come se niente fosse accaduto. Come se questa fosse la normalità. Vedete, non è il peccato che scandalizza e indigna. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, aveva detto Gesù, salvando la vita a una donna che stava per essere lapidata. Non è il peccato, la debolezza, la caduta del sacerdote a scandalizzare. E non si tratta qui di disquisire sulle abitudini sessuali dei singoli individui, sulla loro libertà, etc. etc. E’ piuttosto il fatto che questo peccato da parte di alcuni preti - il venir meno all’impegno del celibato, con rapporti omo o etero - in fondo, non sia più percepito come tale. Colpisce che vi siano preti che di giorno celebrano i sacramenti, studiano nelle facoltà pontificie o svolgono attività pastorali, e la sera, dismessa la tonaca (che forse non portano) o il clergyman, frequentano i locali gay alla ricerca di un compagno per la notte. Questo sì scandalizza, perché non è una novità che vi sia chi predica bene e razzola male, ma ciò che il settimanale descrive è a mio avviso qualcosa di più grave e consolidato. Come sapete ieri, in una nota, il Vicariato di Roma ha scritto che i sacerdoti gay con una doppia vita, oggetto dell’inchiesta di Panorama, “non dovevano diventare preti» e ora, per coerenza, dovrebbero “venire allo scoperto” perché “a causa dei loro comportamenti” viene “infangata l’onorabilità di tutti gli altri”. Il rischio è quello di generalizzare, dimenticando la dedizione con cui tanti bravi e santi sacerdoti svolgono la loro missione. Il rischio è anche quello di scagliare pietre come gli scribi e i farisei, dimenticando le parole di Gesù e lo sguardo cristiano sulle miserie umane e sull’abisso del peccato, lo sguardo di chi sa di essere bisognoso della misericordia di Dio, lo sguardo di chi non si erge a giudice considerandosi perfetto e migliore degli altri. Il rischio è infine quello di credere che il problema si risolva soltanto con la “pulizia”, con colpi di ramazza, pur necessari e in molti casi auspicabili. L’inchiesta di Panorama pone infatti domande serie sui criteri di ammissione e di selezione dei seminaristi, sulla loro formazione, sull’educazione a una sessualità matura, sulla disciplina del clero, su come i preti vengono seguiti e accompagnati dai loro vescovi, su quali risposte dare al problema della solitudine e sull’anonimato così facile nelle metropoli. Ma queste sono domande a cui non si risponde con un comunicato, con l’indignazione, o con un colpo di ramazza.
[N.B. Salvo poi constatare che gli indignati e le cassandre di oggi sono gli stessi che si sono drasticamente scagliati a suo tempo – con mille invettive – contro le direttive della Chiesa che invitava i formatori nei Seminari ad escludere dal sacerdozio i candidati con tendenze gay! - Annotazione personale]
(Fonte: Blog di Andrea Tornielli, 24 luglio 2010)
1) La mia prima reazione, nel leggere due giorni fa le anticipazioni stampa e nel vedere ieri il filmato messo in rete sul sito del settimanale, è stata quella di dire un’Ave Maria per i preti coinvolti: come sempre accade in questi casi l’anonimato non regge, le abitazioni risulteranno conoscibili per chi li frequenta; nel caso del prete di origini francesi si scorge la foto in bianco e nero di una donna, probabilmente la mamma, che speriamo non veda mai quelle immagini. Mi colpisce il fatto che, mentre nel Paese si discute animatamente sulla pubblicazione delle intercettazioni e sulla necessità di rispettare la privacy delle persone, le vite (non certo esemplari…) di questi anonimi sacerdoti vengano messe in pagina e in rete a loro insaputa e - immagino - senza il loro consenso. Non sto dicendo, ovviamente, che non si possano o non si debbano fare inchieste sull’argomento, che purtroppo offre materia e pure abbondante. Credo però esistano altri sistemi, più rispettosi delle persone. E altri stili, che non si riducono all’uso di telecamere nascoste e complici compiacenti disposti ad adescare o a farsi adescare per consumare, filmandolo, un rapporto omosex con un prete. Ricordo a questo proposito il libro Io, prete gay, scritto nel 2007 dal vaticanista Marco Politi, che ha raccolto la testimonianza, anonima, di un sacerdote omosessuale. Una lettura sconvolgente, utile per capire, ma senza alcuna concessione voyeristica o scandalistica.
2) Detto questo, però, non si può non notare l’assoluta gravità di ciò che Panorama racconta nella sua inchiesta. Vale a dire la “schizofrenia” di persone che riescono a vivere una vita assolutamente doppia, e che dopo aver consumato un rapporto omosessuale con un partner occasionale conosciuto a una festa, vestono i paramenti per celebrare messa come se niente fosse accaduto. Come se questa fosse la normalità. Vedete, non è il peccato che scandalizza e indigna. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, aveva detto Gesù, salvando la vita a una donna che stava per essere lapidata. Non è il peccato, la debolezza, la caduta del sacerdote a scandalizzare. E non si tratta qui di disquisire sulle abitudini sessuali dei singoli individui, sulla loro libertà, etc. etc. E’ piuttosto il fatto che questo peccato da parte di alcuni preti - il venir meno all’impegno del celibato, con rapporti omo o etero - in fondo, non sia più percepito come tale. Colpisce che vi siano preti che di giorno celebrano i sacramenti, studiano nelle facoltà pontificie o svolgono attività pastorali, e la sera, dismessa la tonaca (che forse non portano) o il clergyman, frequentano i locali gay alla ricerca di un compagno per la notte. Questo sì scandalizza, perché non è una novità che vi sia chi predica bene e razzola male, ma ciò che il settimanale descrive è a mio avviso qualcosa di più grave e consolidato. Come sapete ieri, in una nota, il Vicariato di Roma ha scritto che i sacerdoti gay con una doppia vita, oggetto dell’inchiesta di Panorama, “non dovevano diventare preti» e ora, per coerenza, dovrebbero “venire allo scoperto” perché “a causa dei loro comportamenti” viene “infangata l’onorabilità di tutti gli altri”. Il rischio è quello di generalizzare, dimenticando la dedizione con cui tanti bravi e santi sacerdoti svolgono la loro missione. Il rischio è anche quello di scagliare pietre come gli scribi e i farisei, dimenticando le parole di Gesù e lo sguardo cristiano sulle miserie umane e sull’abisso del peccato, lo sguardo di chi sa di essere bisognoso della misericordia di Dio, lo sguardo di chi non si erge a giudice considerandosi perfetto e migliore degli altri. Il rischio è infine quello di credere che il problema si risolva soltanto con la “pulizia”, con colpi di ramazza, pur necessari e in molti casi auspicabili. L’inchiesta di Panorama pone infatti domande serie sui criteri di ammissione e di selezione dei seminaristi, sulla loro formazione, sull’educazione a una sessualità matura, sulla disciplina del clero, su come i preti vengono seguiti e accompagnati dai loro vescovi, su quali risposte dare al problema della solitudine e sull’anonimato così facile nelle metropoli. Ma queste sono domande a cui non si risponde con un comunicato, con l’indignazione, o con un colpo di ramazza.
[N.B. Salvo poi constatare che gli indignati e le cassandre di oggi sono gli stessi che si sono drasticamente scagliati a suo tempo – con mille invettive – contro le direttive della Chiesa che invitava i formatori nei Seminari ad escludere dal sacerdozio i candidati con tendenze gay! - Annotazione personale]
(Fonte: Blog di Andrea Tornielli, 24 luglio 2010)
Roma, giro di vite del Cardinale Vallini sui preti “forestieri”
Roma, la capitale del cattolicesimo mondiale, è da sempre la città dove preti e religiosi di tutto il mondo si incontrano e vivono fianco a fianco, non solo negli uffici del Vaticano ma anche nei collegi e nelle parrocchie del centro e della periferia.
Sono migliaia i preti che arrivano per formarsi nelle facoltà teologiche della Capitale, e spesso vivono e prestano opera pastorale in una delle centinaia di Chiese dei quartieri. Ma tutto questo, secondo quanto hanno raccontato numerosi parroci romani consultati dall'Asca, sarebbe sul punto di finire, o quantomeno di venire fortemente ridimensionato.
Il vicario del Papa per la città di Roma, il Cardinale Agostino Vallini, in carica da due anni, da dodici mesi a questa parte ha messo in atto una rigorosa politica nei confronti dei preti che arrivano da fuori la Capitale: non solo nei confronti dei cosiddetti “preti girovaghi” - quelli che arrivano da una diocesi senza un incarico determinato, spesso perché in rotta di collisione con il proprio vescovo, e trovano posto in una delle Chiese, istituti e cappellanie della Città Eterna -, ma anche di quelli che vengono a Roma per studiare all'ombra del Vaticano. Si tratta in prevalenza di sacerdoti extra-comunitari, dai Paesi dell'Africa, dell'Asia e del Sudamerica, dove le vocazioni sono ancora abbondanti e per i quali un riconoscimento da parte del Vicariato e' necessario per ottenere il permesso di soggiorno in Italia.
Vallini ha annunciato in più occasioni la sua volontà di non “incardinare” (ovvero, dare cittadinanza ecclesiastica) preti di fuori Roma. Inoltre, a tutti i sacerdoti forestieri verrà permesso di restare nella città solo con una lettera del vescovo della loro diocesi di origine, da rinnovare ogni anno, che spieghi la necessità del prete di vivere a Roma e il tempo previsto del soggiorno. Infine, il parroco o il rettore dell'istituto dove il prete vive, dovranno ogni anno certificare, con una lettera, la sua “buona condotta”.
L'accoglienza a Roma - spiega infatti un documento del Vicariato su “Accoglienza in strutture direttamente dipendenti dalla Diocesi di Roma di presbiteri secolari incardinati in altre Diocesi” - sarà concessa temporaneamente e comunque solo per il tempo strettamente necessario al completamento degli studi, precisando da subito se si tratti di Licenza o Dottorato (e quindi esattamente per gli anni previsti dall'ordine degli studi, così come risulta dal certificato d'iscrizione). Un'accoglienza a tempo indeterminato non è ammessa: va specificato sin dall'inizio un limite temporale, rimanendo di norma possibile valutare caso per caso l'eventualità di un rinnovo.
(Fonte: Petrus, 17 luglio 2010)
Sono migliaia i preti che arrivano per formarsi nelle facoltà teologiche della Capitale, e spesso vivono e prestano opera pastorale in una delle centinaia di Chiese dei quartieri. Ma tutto questo, secondo quanto hanno raccontato numerosi parroci romani consultati dall'Asca, sarebbe sul punto di finire, o quantomeno di venire fortemente ridimensionato.
Il vicario del Papa per la città di Roma, il Cardinale Agostino Vallini, in carica da due anni, da dodici mesi a questa parte ha messo in atto una rigorosa politica nei confronti dei preti che arrivano da fuori la Capitale: non solo nei confronti dei cosiddetti “preti girovaghi” - quelli che arrivano da una diocesi senza un incarico determinato, spesso perché in rotta di collisione con il proprio vescovo, e trovano posto in una delle Chiese, istituti e cappellanie della Città Eterna -, ma anche di quelli che vengono a Roma per studiare all'ombra del Vaticano. Si tratta in prevalenza di sacerdoti extra-comunitari, dai Paesi dell'Africa, dell'Asia e del Sudamerica, dove le vocazioni sono ancora abbondanti e per i quali un riconoscimento da parte del Vicariato e' necessario per ottenere il permesso di soggiorno in Italia.
Vallini ha annunciato in più occasioni la sua volontà di non “incardinare” (ovvero, dare cittadinanza ecclesiastica) preti di fuori Roma. Inoltre, a tutti i sacerdoti forestieri verrà permesso di restare nella città solo con una lettera del vescovo della loro diocesi di origine, da rinnovare ogni anno, che spieghi la necessità del prete di vivere a Roma e il tempo previsto del soggiorno. Infine, il parroco o il rettore dell'istituto dove il prete vive, dovranno ogni anno certificare, con una lettera, la sua “buona condotta”.
L'accoglienza a Roma - spiega infatti un documento del Vicariato su “Accoglienza in strutture direttamente dipendenti dalla Diocesi di Roma di presbiteri secolari incardinati in altre Diocesi” - sarà concessa temporaneamente e comunque solo per il tempo strettamente necessario al completamento degli studi, precisando da subito se si tratti di Licenza o Dottorato (e quindi esattamente per gli anni previsti dall'ordine degli studi, così come risulta dal certificato d'iscrizione). Un'accoglienza a tempo indeterminato non è ammessa: va specificato sin dall'inizio un limite temporale, rimanendo di norma possibile valutare caso per caso l'eventualità di un rinnovo.
(Fonte: Petrus, 17 luglio 2010)
venerdì 23 luglio 2010
Gli eserciti di Dio
Lindau ha pubblicato l’ultimo libro di Rodney Stark “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate” il cui merito è quello di far piazza pulita di una vecchia menzogna: la strumentalizzazione delle crociate. Spesso, infatti, si vuole far credere che questi episodi della nostra storia simboleggino un modus operandi della Cristianità: aggressiva, pronta a fare proseliti con la violenza. La storia non è andata così, benché questa versione piaccia ormai, in primis, proprio a molti cattolici progressisti…
«Nello sconfortante panorama del cattolicesimo italiano attuale, non mancano però i segnali di speranza e di cambiamento.
Citavo, alcune settimane fa, la casa editrice Fede & Cultura, come segnale evidente di una voglia nuova di alcuni ambienti cattolici di fare cultura e di proporsi al mondo senza paure e complessi di inferiorità. Questa volta vorrei invece ricordare un’altra casa editrice che, come cattolico, sento il dovere di ringraziare. Sto parlando dell’editore Lindau, a cui si devono, negli ultimi anni, testi bellissimi e preziosi, come “La vita in vendita” di Jacques Testart, “Iota unum” di Romano Amerio, magistralmente curata da Enrico Radaelli, e gli ottimi lavori di Rodney Stark, grande sociologo delle religioni americano.
Si tratta di opere che sino a pochi anni fa difficilmente sarebbero stati stampate e diffuse in Italia, e che dicono appunto di un graduale, ma deciso, risveglio culturale. Vorrei oggi riferirmi in particolare all’ultimo libro di Stark pubblicato da Lindau: “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate”.
Anche perché in tempi di martirio, come quello di mons. Luigi Padovese, è forse necessario incominciare a spazzar via menzogne ormai secolari che non aiutano a capire. Padovese è stato vittima innocente, disarmata e coraggiosa, che ci ricorda ancora una volta, a chi voglia vedere, che la religione di Cristo si è diffusa nel mondo non col potere del denaro o delle armi, ma, soprattutto, col sangue dei martiri. Il merito di Stark è quello di far piazza pulita di una vecchia menzogna: la strumentalizzazione delle crociate.
Spesso si vuole far credere che questi episodi della nostra storia, così intessuti di grandezza e di miserie, come è inevitabile che sia quando il protagonista è l’uomo, simboleggino un modus operandi della Cristianità: aggressiva, pronta a fare proseliti con la violenza. La storia non è andata così, benché questa versione piaccia ormai, in primis, proprio a molti cattolici progressisti. Le crociate infatti non sono state il tentativo di sottomettere un’altra religione, né di convertire con la forza altri popoli. Per spiegare questa ovvietà storica, Stark ribalta la narrazione più canonica dell’ordine dei fatti.
Nella nostra cultura, influenzata dalle menzogne di Voltaire, Diderot e dei loro nipotini, le crociate compaiono all’improvviso, come Minerva dalla testa di Giove. Ebbene Stark svela l’inganno in modo semplicissimo: raccontando gli antefatti, cioè i quasi 5 secoli di continue aggressioni del mondo islamico contro quello cristiano! Inoltre pone all’inizio del libro due cartine storiche che sarebbero da sole sufficienti a fare chiarezza: la prima mostra la diffusione del cristianesimo sino alla nascita dell’islam; la seconda le terre cristiane, dall’Africa del nord, alla Spagna, dalla Sardegna, alla Sicilia, ecc., nelle mani dei maomettani. Non per pacifica concessione. Non per libera conversione, ma grazie alla forza delle armi! Stark ricorda che le crociate non nacquero dalla avidità dei nobili europei, molti dei quali, anzi, sostennero “di persona spese enormi, alcuni affrontando coscientemente persino la bancarotta pur di recarsi in Terra Santa”, né furono il primo tentativo di colonialismo europeo, dal momento che i regni cristiani in Oriente furono indipendenti da qualunque stato europeo e, lungi dall’essere sfruttati economicamente, godettero e vissero invece delle ricchezze che provenivano dall’Europa.
Le crociate, col loro inevitabile carico di crudeltà e di morte, nacquero invece come risposta ai continui e terribili attacchi islamici; in difesa degli ortodossi di Bisanzio, sempre a rischio di cadere sotto la spada islamica; per la difesa dei cristiani che si recavano in Terra Santa. Al riguardo Stark rievoca i periodici massacri di pellegrini che giungevano a Gerusalemme: le centinaia di cristiani crocifissi e lapidati, i monaci del monastero di Mar Saba messi al rogo, la devastazione di circa 30 mila chiese, tra cui la stessa chiesa del Santo Sepolcro, all’epoca del sovrano Hakim…
I membri dell’aristocrazia europea, nota sempre Stark, non avevano bisogno delle narrazioni di Urbano II, né delle invocazioni di Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio, per conoscere il trattamento riservato in Terra Santa ai pellegrini e ai non islamici: molti di loro vennero a conoscenza diretta, oppure grazie ai familiari e amici “che erano riusciti a sopravvivere e a fare ritorno in Europa, esausti, impoveriti e con spaventosi racconti da riferire”.
Infine Stark dimostra che le crociate non possono essere indicate come “una delle cause dirette dell’attuale conflitto mediorientale”, anche per il fatto che gli islamici, fino alla fine del XIX secolo, non dimostrarono interesse per questi fatti. Anzi, “per molti arabi le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi, e pertanto di scarso interesse”.
La verità storica è dunque chiara: l’avversione dell’Islam per l’Europa, come terra di conquista, è sempre esistita, ora più, ora meno; i papi hanno spesso salvato la libertà dell’Europa; le colpe europee verso i paesi islamici, ben meno di quelle che si vuole far credere, risalgono semmai alla colonizzazione ottocentesca e successiva, portata avanti non dalla Chiesa, ma da Stati in cui il cristianesimo era già stato sostituito, almeno a livello di elite, da ideali ben diversi, quando non esplicitamente anti-cristiani. »
(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 1 luglio 2010)
«Nello sconfortante panorama del cattolicesimo italiano attuale, non mancano però i segnali di speranza e di cambiamento.
Citavo, alcune settimane fa, la casa editrice Fede & Cultura, come segnale evidente di una voglia nuova di alcuni ambienti cattolici di fare cultura e di proporsi al mondo senza paure e complessi di inferiorità. Questa volta vorrei invece ricordare un’altra casa editrice che, come cattolico, sento il dovere di ringraziare. Sto parlando dell’editore Lindau, a cui si devono, negli ultimi anni, testi bellissimi e preziosi, come “La vita in vendita” di Jacques Testart, “Iota unum” di Romano Amerio, magistralmente curata da Enrico Radaelli, e gli ottimi lavori di Rodney Stark, grande sociologo delle religioni americano.
Si tratta di opere che sino a pochi anni fa difficilmente sarebbero stati stampate e diffuse in Italia, e che dicono appunto di un graduale, ma deciso, risveglio culturale. Vorrei oggi riferirmi in particolare all’ultimo libro di Stark pubblicato da Lindau: “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate”.
Anche perché in tempi di martirio, come quello di mons. Luigi Padovese, è forse necessario incominciare a spazzar via menzogne ormai secolari che non aiutano a capire. Padovese è stato vittima innocente, disarmata e coraggiosa, che ci ricorda ancora una volta, a chi voglia vedere, che la religione di Cristo si è diffusa nel mondo non col potere del denaro o delle armi, ma, soprattutto, col sangue dei martiri. Il merito di Stark è quello di far piazza pulita di una vecchia menzogna: la strumentalizzazione delle crociate.
Spesso si vuole far credere che questi episodi della nostra storia, così intessuti di grandezza e di miserie, come è inevitabile che sia quando il protagonista è l’uomo, simboleggino un modus operandi della Cristianità: aggressiva, pronta a fare proseliti con la violenza. La storia non è andata così, benché questa versione piaccia ormai, in primis, proprio a molti cattolici progressisti. Le crociate infatti non sono state il tentativo di sottomettere un’altra religione, né di convertire con la forza altri popoli. Per spiegare questa ovvietà storica, Stark ribalta la narrazione più canonica dell’ordine dei fatti.
Nella nostra cultura, influenzata dalle menzogne di Voltaire, Diderot e dei loro nipotini, le crociate compaiono all’improvviso, come Minerva dalla testa di Giove. Ebbene Stark svela l’inganno in modo semplicissimo: raccontando gli antefatti, cioè i quasi 5 secoli di continue aggressioni del mondo islamico contro quello cristiano! Inoltre pone all’inizio del libro due cartine storiche che sarebbero da sole sufficienti a fare chiarezza: la prima mostra la diffusione del cristianesimo sino alla nascita dell’islam; la seconda le terre cristiane, dall’Africa del nord, alla Spagna, dalla Sardegna, alla Sicilia, ecc., nelle mani dei maomettani. Non per pacifica concessione. Non per libera conversione, ma grazie alla forza delle armi! Stark ricorda che le crociate non nacquero dalla avidità dei nobili europei, molti dei quali, anzi, sostennero “di persona spese enormi, alcuni affrontando coscientemente persino la bancarotta pur di recarsi in Terra Santa”, né furono il primo tentativo di colonialismo europeo, dal momento che i regni cristiani in Oriente furono indipendenti da qualunque stato europeo e, lungi dall’essere sfruttati economicamente, godettero e vissero invece delle ricchezze che provenivano dall’Europa.
Le crociate, col loro inevitabile carico di crudeltà e di morte, nacquero invece come risposta ai continui e terribili attacchi islamici; in difesa degli ortodossi di Bisanzio, sempre a rischio di cadere sotto la spada islamica; per la difesa dei cristiani che si recavano in Terra Santa. Al riguardo Stark rievoca i periodici massacri di pellegrini che giungevano a Gerusalemme: le centinaia di cristiani crocifissi e lapidati, i monaci del monastero di Mar Saba messi al rogo, la devastazione di circa 30 mila chiese, tra cui la stessa chiesa del Santo Sepolcro, all’epoca del sovrano Hakim…
I membri dell’aristocrazia europea, nota sempre Stark, non avevano bisogno delle narrazioni di Urbano II, né delle invocazioni di Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio, per conoscere il trattamento riservato in Terra Santa ai pellegrini e ai non islamici: molti di loro vennero a conoscenza diretta, oppure grazie ai familiari e amici “che erano riusciti a sopravvivere e a fare ritorno in Europa, esausti, impoveriti e con spaventosi racconti da riferire”.
Infine Stark dimostra che le crociate non possono essere indicate come “una delle cause dirette dell’attuale conflitto mediorientale”, anche per il fatto che gli islamici, fino alla fine del XIX secolo, non dimostrarono interesse per questi fatti. Anzi, “per molti arabi le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi, e pertanto di scarso interesse”.
La verità storica è dunque chiara: l’avversione dell’Islam per l’Europa, come terra di conquista, è sempre esistita, ora più, ora meno; i papi hanno spesso salvato la libertà dell’Europa; le colpe europee verso i paesi islamici, ben meno di quelle che si vuole far credere, risalgono semmai alla colonizzazione ottocentesca e successiva, portata avanti non dalla Chiesa, ma da Stati in cui il cristianesimo era già stato sostituito, almeno a livello di elite, da ideali ben diversi, quando non esplicitamente anti-cristiani. »
(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 1 luglio 2010)
La vita, la morte e gli apprendisti stregoni
L’altro ieri sul laicissimo Corriere, una pagina interna sorprendente in cui la ragione sembrava farsi beffa dell’ideologia e la fede vincere sulla disperazione.
La prima notizia riguarda un uomo di 43 anni, Richard Rudd, ricoverato presso il reparto di neurologia dell'ospedale Addenbrooke di Cambridge a seguito di un grave incidente stradale. Ridotto in stato vegetativo, senza alcun segno di attività cerebrale residua, è riuscito ad opporsi al tentativo dei medici di porre fine alla sua esistenza. Il tutto è avvenuto in modo inatteso e clamoroso, davanti a giornalisti e telecamere della BBC che stavano realizzando un documentario. La notizia è stata pubblicata con grande evidenza sui giornali inglesi e sembra destinata a riaprire il dibattito sul fine vita in quel paese, anche perché la famiglia aveva regolarmente autorizzato il cosiddetto “distacco della spina” sulla base di una chiara volontà espressa in passato dall'uomo, di non voler sopravvivere ridotto in stato di incoscienza totale. Una richiesta sostenuta oltretutto da numerose testimonianze, poiché lo stesso Richard, quando ancora si trovava in buone condizioni di salute, aveva espresso più volte alla presenza di amici e conoscenti questo tipo di orientamento.
Tuttavia, arrivato infine il momento di obbedire da parte di medici e familiari ad una volontà così chiaramente espressa, è accaduto l’imprevisto: il paziente dava per la prima volta chiari, inequivocabili segni di vita e di coscienza nell’unico modo a lui possibile in quel momento, attraverso il battito delle ciglia. E mentre questo accadeva, le apparecchiature scientifiche utilizzate per esplorare la funzione cerebrale dell’infortunato continuavano a segnalare l’assenza di un qualsiasi stato di coscienza! Un fatto che lasciava del tutto spiazzati gli specialisti che, a quel punto, tornavano a sollecitare il paziente già dato per morto perché confermasse il suo stato di vigilanza. Il professor David Menon, in particolare, chiedeva: “Ma tu vuoi continuare a vivere?” E le ciglia di Rudd riprendevano a battere e le pupille si orientavano per tre volte di seguito verso sinistra, un noto segno convenzionale che significa assenso. I movimenti degli occhi in questi disabili sono talora l’estremo punto di riferimento: se a seguito di una domanda le pupille vanno verso sinistra, ciò significa “si”; se invece vanno verso destra, ciò significa “no”.
“Si è scoperto che era in uno stato come di blocco per il quale le persone possono avere normali processi cognitivi nel cervello, ma non riescono a comunicare se non muovendo talora gli occhi o le palpebre”, ha spiegato il prof. David Menon. Pensate se nessuno si fosse accorto di quel primo battito di ciglia… Una manifestazione di coscienza e di volontà giunta appena in tempo a rovesciare una sentenza che si pretendeva basata su un’evidente volontà espressa in vita dal paziente medesimo. La domanda viene da sé: quale valore può avere allora un “testamento biologico” redatto quando il soggetto è ancora in buona salute, magari anni prima di un possibile incidente, a fronte di un caso come questo? E’ innanzi tutto possibile che un soggetto sia dato per morto pur essendo invece vivo, ma impossibilitato a reagire e a comunicare. Inoltre, il caso di Rudd dimostra che l’orientamento sulla vita e sulla morte di una persona che si trova in una situazione estrema e drammatica può anche cambiare drasticamente. Comunque, a distanza di mesi e messe in campo tutte le risorse possibili, Richard Rudd ha fatto importanti progressi. È stato trasferito in un altro ospedale e si è riavvicinato a casa. Ora muove la testa, percepisce le situazioni attorno, sorride agli scherzi...
La seconda notizia riguarda la fuoriuscita dal coma di Caterina, la figlia ventiquattrenne di Antonio Socci, giornalista RAI e noto credente. Il dramma sconvolgente di questa vicenda è stato raccontato dall’ex conduttore di Excalibur in un diario dal titolo significativo: Caterina, diario di un padre nella tempesta (Rizzoli). Socci aveva scelto fin dall’inizio di non tenere celato il suo personale dramma familiare e, anche tramite il web, aveva posto il suo dolore all’attenzione di tutti facendo appello alle preghiere del popolo cristiano. Ora apprendiamo che Caterina è tornata indietro da quel buio misterioso. Quasi per caso è accaduto che, nel silenzio protetto di una camera ospedaliera, mentre la madre le leggeva un brano tratto dal romanzo di J. D. Salinger Il Giovane Holden, la ragazza si sia posta in ascolto ed abbia infine reagito a quella lettura con una risata. Il coma è ora alle spalle e può iniziare la riabilitazione. Dove finisce la vita e dove inizia la morte? Cosa dipende dall’uomo e cosa dipende da Dio? Lo sappiamo?
Forse in quest’epoca di grandi deliri tecnologici siamo diventati tutti degli “apprendisti stregoni”, gente che solo perché mastica un pochino di fisica o di biologia crede di aver penetrato il mistero della vita; gente saccente, sempre pronta a giocare con esagerata disinvoltura con le grandi parole: il diritto, la libertà, la scienza, la vita, la morte… Ma che ne sappiamo noi della vita e della morte? E qual è la vera libertà e cosa davvero la rende possibile? Ed è reale solo ciò che la ragione è in grado di spiegare?
Il pensiero corre ad Eluana Englaro, alle certezze di giudici e giornalisti, all’ostinazione del padre Peppino, al trionfalismo nichilista di Maurizio Mori, il bioeticista de L’Unità che all’indomani della morte della ragazza salutava la nuova “breccia di Porta Pia” ed affermava incauto: “Eluana ha rotto l’incantesimo della sacralità della vita, quello secondo cui la vita è un mistero sempre nuovo (…) un dono sempre buono in sé e positivo”.
Parole che sanno di proclama retorico, di astrattezza ideologica, e che fanno così tanto contrasto con quanto ci raccontano oggi le cronache.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 17 luglio 2010)
La prima notizia riguarda un uomo di 43 anni, Richard Rudd, ricoverato presso il reparto di neurologia dell'ospedale Addenbrooke di Cambridge a seguito di un grave incidente stradale. Ridotto in stato vegetativo, senza alcun segno di attività cerebrale residua, è riuscito ad opporsi al tentativo dei medici di porre fine alla sua esistenza. Il tutto è avvenuto in modo inatteso e clamoroso, davanti a giornalisti e telecamere della BBC che stavano realizzando un documentario. La notizia è stata pubblicata con grande evidenza sui giornali inglesi e sembra destinata a riaprire il dibattito sul fine vita in quel paese, anche perché la famiglia aveva regolarmente autorizzato il cosiddetto “distacco della spina” sulla base di una chiara volontà espressa in passato dall'uomo, di non voler sopravvivere ridotto in stato di incoscienza totale. Una richiesta sostenuta oltretutto da numerose testimonianze, poiché lo stesso Richard, quando ancora si trovava in buone condizioni di salute, aveva espresso più volte alla presenza di amici e conoscenti questo tipo di orientamento.
Tuttavia, arrivato infine il momento di obbedire da parte di medici e familiari ad una volontà così chiaramente espressa, è accaduto l’imprevisto: il paziente dava per la prima volta chiari, inequivocabili segni di vita e di coscienza nell’unico modo a lui possibile in quel momento, attraverso il battito delle ciglia. E mentre questo accadeva, le apparecchiature scientifiche utilizzate per esplorare la funzione cerebrale dell’infortunato continuavano a segnalare l’assenza di un qualsiasi stato di coscienza! Un fatto che lasciava del tutto spiazzati gli specialisti che, a quel punto, tornavano a sollecitare il paziente già dato per morto perché confermasse il suo stato di vigilanza. Il professor David Menon, in particolare, chiedeva: “Ma tu vuoi continuare a vivere?” E le ciglia di Rudd riprendevano a battere e le pupille si orientavano per tre volte di seguito verso sinistra, un noto segno convenzionale che significa assenso. I movimenti degli occhi in questi disabili sono talora l’estremo punto di riferimento: se a seguito di una domanda le pupille vanno verso sinistra, ciò significa “si”; se invece vanno verso destra, ciò significa “no”.
“Si è scoperto che era in uno stato come di blocco per il quale le persone possono avere normali processi cognitivi nel cervello, ma non riescono a comunicare se non muovendo talora gli occhi o le palpebre”, ha spiegato il prof. David Menon. Pensate se nessuno si fosse accorto di quel primo battito di ciglia… Una manifestazione di coscienza e di volontà giunta appena in tempo a rovesciare una sentenza che si pretendeva basata su un’evidente volontà espressa in vita dal paziente medesimo. La domanda viene da sé: quale valore può avere allora un “testamento biologico” redatto quando il soggetto è ancora in buona salute, magari anni prima di un possibile incidente, a fronte di un caso come questo? E’ innanzi tutto possibile che un soggetto sia dato per morto pur essendo invece vivo, ma impossibilitato a reagire e a comunicare. Inoltre, il caso di Rudd dimostra che l’orientamento sulla vita e sulla morte di una persona che si trova in una situazione estrema e drammatica può anche cambiare drasticamente. Comunque, a distanza di mesi e messe in campo tutte le risorse possibili, Richard Rudd ha fatto importanti progressi. È stato trasferito in un altro ospedale e si è riavvicinato a casa. Ora muove la testa, percepisce le situazioni attorno, sorride agli scherzi...
La seconda notizia riguarda la fuoriuscita dal coma di Caterina, la figlia ventiquattrenne di Antonio Socci, giornalista RAI e noto credente. Il dramma sconvolgente di questa vicenda è stato raccontato dall’ex conduttore di Excalibur in un diario dal titolo significativo: Caterina, diario di un padre nella tempesta (Rizzoli). Socci aveva scelto fin dall’inizio di non tenere celato il suo personale dramma familiare e, anche tramite il web, aveva posto il suo dolore all’attenzione di tutti facendo appello alle preghiere del popolo cristiano. Ora apprendiamo che Caterina è tornata indietro da quel buio misterioso. Quasi per caso è accaduto che, nel silenzio protetto di una camera ospedaliera, mentre la madre le leggeva un brano tratto dal romanzo di J. D. Salinger Il Giovane Holden, la ragazza si sia posta in ascolto ed abbia infine reagito a quella lettura con una risata. Il coma è ora alle spalle e può iniziare la riabilitazione. Dove finisce la vita e dove inizia la morte? Cosa dipende dall’uomo e cosa dipende da Dio? Lo sappiamo?
Forse in quest’epoca di grandi deliri tecnologici siamo diventati tutti degli “apprendisti stregoni”, gente che solo perché mastica un pochino di fisica o di biologia crede di aver penetrato il mistero della vita; gente saccente, sempre pronta a giocare con esagerata disinvoltura con le grandi parole: il diritto, la libertà, la scienza, la vita, la morte… Ma che ne sappiamo noi della vita e della morte? E qual è la vera libertà e cosa davvero la rende possibile? Ed è reale solo ciò che la ragione è in grado di spiegare?
Il pensiero corre ad Eluana Englaro, alle certezze di giudici e giornalisti, all’ostinazione del padre Peppino, al trionfalismo nichilista di Maurizio Mori, il bioeticista de L’Unità che all’indomani della morte della ragazza salutava la nuova “breccia di Porta Pia” ed affermava incauto: “Eluana ha rotto l’incantesimo della sacralità della vita, quello secondo cui la vita è un mistero sempre nuovo (…) un dono sempre buono in sé e positivo”.
Parole che sanno di proclama retorico, di astrattezza ideologica, e che fanno così tanto contrasto con quanto ci raccontano oggi le cronache.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 17 luglio 2010)
I giudici non sono migliori dei politici
Altro che legge sulle intercettazioni. Se il Parlamento non si spiccia a mettere mano a una seria riforma della giustizia, la politica morirà del tutto per manifesta sudditanza pratica e psicologica. Ormai sono i giudici a dettare l'agenda del Paese, le scalette dei giornali. Una volta, quando si immaginava un golpe, lo spauracchio erano i colonnelli, oggi sono le toghe. Le quali tengono un po' tutti per le palle in un gioco perverso di ricatti e minacce anche non dichiarate, perché si sa, nessuno è perfetto e le code di paglia abbondano. Solo quell'incosciente di Berlusconi ha il coraggio di affrontare a viso aperto i magistrati e i loro eccessi, gli altri volano bassi, rasenti ai muri perché non si sa mai, visto quello che è successo al Cavaliere. Così, mese dopo mese, la giustizia si prende nuove quote di potere e di immunità con l'applauso di quei gonzi di politici che sperano così di far fuori (...) avversari e nemici, non sapendo che di questo passo un giorno o l'altro toccherà anche a loro.
Per carità, P3, corruzione e mafia sono cose brutte. Ma possibile che ieri il Parlamento non si sia scosso per una sentenza della Cassazione che toglie l'obbligo dell'arresto per chi stupra o fa prostituire minorenni? Ma che razza di Paese sta diventando questo? Dov’è la politica? Chi ci difende da queste follie? Non certo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, tutto preso a salvarsi dai pasticci targati P3, quel gruppetto di faccendieri e mascalzoni che brigava, per lo più a vuoto, con politici e magistrati. Già, se c'è una cosa che questo scandaletto ha portato alla luce è che il Csm non è quel tempio di verità e giustizia che ci vogliono far credere. No, è un covo di veleni, intrighi, accordi sopra e sotto banco, sgambetti e cose indicibili. Insomma, non sono migliori, praticamente né moralmente, degli uomini che vogliono giudicare. Una classe politica seria non avrebbe paura di gente così, denuncerebbe tutto a costo di arrivare a toccare anche l'inquilino del Quirinale, che del Csm è il presidente e che anche di questo pasticcio, secondo i ben informati, qualche cosa sa.
Ieri Mancino ha detto che sul Csm si sta gettando un cono d'ombra. Lui che di ombre se ne intende, avendo attraversato tutta la storia italiana del dopoguerra, non è però intervenuto quando il procuratore di Caltanissetta, Domenico Gozzo, l'altro ieri, dopo aver rilasciato un'intervista a l'Unità (ma si può fare?) ha lanciato nell'arena la bomba della presunta verità dell'omicidio di Borsellino che «la politica non potrà reggere». Un messaggio ambiguo, destabilizzante, minaccioso. Se Gozzo ha in mano delle prove, arresti chi di dovere. Altrimenti taccia, glielo dovrebbero imporre il ruolo, l'etica e i suoi superiori. E invece niente. Il giorno dopo, cioè ieri, la retromarcia: non mi riferivo a Berlusconi, ha dichiarato il Pm, chiacchierone e impunito. E allora di chi parlava? L'unica cosa certa è che la stagione delle stragi del 1992 ha provocato l'immediata elezione di Scalfaro a capo dello Stato. Cioè una sciagura dietro l'altra. Lo stesso Scalfaro che tirò poi il famoso scherzo a Berlusconi (raggiunto guarda caso da un avviso di garanzia che poi risultò infondato) del ribaltone che, complice la Lega, aprì di fatto alla sinistra la strada di governo.
Insomma, a voler ben guardare sarebbe anche interessante sapere la verità. Il fatto è che la conosceremo solo se funzionale al progetto di disarcionare Berlusconi, cioè se cadrà la «bomba atomica» evocata da Fini nel famoso fuori onda con un magistrato. Il quale Fini ieri ha riproposto la questione morale per la politica. Come presidente della Camera avrebbe dovuta porla anche per quei giudici che non vogliono mandare in galera gli stupratori. Ma non lo farà, non gli conviene
(Fonte: Alessandro Sallusti, Il Giornale, 22 luglio 2010)
Per carità, P3, corruzione e mafia sono cose brutte. Ma possibile che ieri il Parlamento non si sia scosso per una sentenza della Cassazione che toglie l'obbligo dell'arresto per chi stupra o fa prostituire minorenni? Ma che razza di Paese sta diventando questo? Dov’è la politica? Chi ci difende da queste follie? Non certo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, tutto preso a salvarsi dai pasticci targati P3, quel gruppetto di faccendieri e mascalzoni che brigava, per lo più a vuoto, con politici e magistrati. Già, se c'è una cosa che questo scandaletto ha portato alla luce è che il Csm non è quel tempio di verità e giustizia che ci vogliono far credere. No, è un covo di veleni, intrighi, accordi sopra e sotto banco, sgambetti e cose indicibili. Insomma, non sono migliori, praticamente né moralmente, degli uomini che vogliono giudicare. Una classe politica seria non avrebbe paura di gente così, denuncerebbe tutto a costo di arrivare a toccare anche l'inquilino del Quirinale, che del Csm è il presidente e che anche di questo pasticcio, secondo i ben informati, qualche cosa sa.
Ieri Mancino ha detto che sul Csm si sta gettando un cono d'ombra. Lui che di ombre se ne intende, avendo attraversato tutta la storia italiana del dopoguerra, non è però intervenuto quando il procuratore di Caltanissetta, Domenico Gozzo, l'altro ieri, dopo aver rilasciato un'intervista a l'Unità (ma si può fare?) ha lanciato nell'arena la bomba della presunta verità dell'omicidio di Borsellino che «la politica non potrà reggere». Un messaggio ambiguo, destabilizzante, minaccioso. Se Gozzo ha in mano delle prove, arresti chi di dovere. Altrimenti taccia, glielo dovrebbero imporre il ruolo, l'etica e i suoi superiori. E invece niente. Il giorno dopo, cioè ieri, la retromarcia: non mi riferivo a Berlusconi, ha dichiarato il Pm, chiacchierone e impunito. E allora di chi parlava? L'unica cosa certa è che la stagione delle stragi del 1992 ha provocato l'immediata elezione di Scalfaro a capo dello Stato. Cioè una sciagura dietro l'altra. Lo stesso Scalfaro che tirò poi il famoso scherzo a Berlusconi (raggiunto guarda caso da un avviso di garanzia che poi risultò infondato) del ribaltone che, complice la Lega, aprì di fatto alla sinistra la strada di governo.
Insomma, a voler ben guardare sarebbe anche interessante sapere la verità. Il fatto è che la conosceremo solo se funzionale al progetto di disarcionare Berlusconi, cioè se cadrà la «bomba atomica» evocata da Fini nel famoso fuori onda con un magistrato. Il quale Fini ieri ha riproposto la questione morale per la politica. Come presidente della Camera avrebbe dovuta porla anche per quei giudici che non vogliono mandare in galera gli stupratori. Ma non lo farà, non gli conviene
(Fonte: Alessandro Sallusti, Il Giornale, 22 luglio 2010)
martedì 20 luglio 2010
Vecchioni e quello strano dio del deista
Roberto Vecchioni ha scritto un libro intitolato “Scacco a Dio”. L’altra sera, al festival Caffeina, ho avuto la possibilità di sentirglielo presentare in pubblico. Devo dire che se è vero, come lui stesso ha ammesso, che dopo 50 anni di ateismo è diventato, a modo suo, un credente, allora è Dio che ha dato scacco a lui. Puoi combatterlo, puoi negarlo, puoi convincerti della sua inesistenza, ma prima o poi col buon vecchio Dio devi fare i conti.
Da questo punto di vista è stato anche sorprendente sentire un uomo di cultura, un professore, che fu anche assistente di Storia delle Religioni dopo la laurea in Lettere, che si stupisce finalmente con la semplicità di un bambino davanti ad un dato facilmente constatabile: la genialità di certi scrittori (i suoi amati Saffo, Catullo, Shakespeare), o di certi artisti o di certi musicisti è di per sé una finestra sull’esistenza di Dio. Tanta genialità, riflette Vecchioni, non può essere sprecata nella stupida distruzione generale. Tutto questo fiume di sublimità deve venire da qualche parte e non può sfociare nello stupido nulla.
Un argomento importante, sul quale vale sempre la pena di riflettere. Ma di certo non nuovo. E’ un po’ la scoperta dell’acqua calda. Forse sarebbe bastato leggere il Libro della Sapienza, dove all’elenco delle manifestazioni del genio umano si aggiungono le perfezioni della natura. Sì, bastava leggere, ma è anche vero che finché uno a certe cose non ci arriva da solo, non c’è libro che gliele possa insegnare.
Dunque, Vecchioni è arrivato a postulare l’esistenza di Dio e, con espressione bella e poetica, ci dice che di Dio noi abbiamo solo una parola, uno schizzo di colore, una nota. Dio è il poema, l’affresco, la sinfonia. Ma noi nelle mani possediamo poco più di nulla. Anche questo è molto bello, e anche questa ammissione di piccolezza di fronte a Colui che è immensamente grande fa parte della sapienza dell’umanità, da millenni e millenni, almeno fino a quando non sono arrivati i filosofi atei a mettere forzatamente in dubbio quello che un selvaggio analfabeta ha sempre saputo benissimo. E con Dio vanno l’amore, la felicità, la speranza, la vita stessa. Bello anche questo.
C’è, nelle parole di Vecchioni, anche la constatazione che Dio si è manifestato nel mondo e nell’uomo, ma poi “se ne è andato” ed ha lasciato gli uomini da soli a costruirsi le proprie divinità per “salvarsi la vita”. Dio è silenzioso e questo suo silenzio è assordante. Vecchioni lo confessa. L’uomo è orfano di Dio.
Bene, fatte tutte queste belle premesse, cosa ti aspetteresti? Che l’uomo che ha intuito Dio gli lanci il grido che Manzoni mise in bocca all’Innominato: “Se ci sei manifestati!”. Insomma, ti aspetti un libro del tenore delle Confessioni di Sant’Agostino, pieno di angosciose domande, della coinvolgente testimonianza di un uomo che batte continuamente contro il muro del Mistero e cerca una risposta. E poi la trova, non a partire da se stesso, ma dalla comunicazione stessa di Dio. Ti aspetti che l’orfano scriva una lettera piena di amore al Padre, confessandogli il freddo che sente intorno, a causa della sua assenza.
Ma ecco il colpo di scena: «Il mio Dio non è di quelle divinità create o ricercate dagli uomini per salvarsi la vita. Questo libro comicamente teologico è una ricerca personale sulle domande banali: Dio esiste? Cos’è la fede? C’è il libero arbitrio? Nel testo Dio risponde e dimostra di esistere tramite una sua distrazione, il caso, che permette agli uomini di dargli scacco liberamente».
Direi che qui è testimoniato il particolare privilegio del deista, di Vecchioni come di Voltaire come di qualsiasi altro. E’ un privilegio strano, che possiamo sintetizzare così: di Dio il deista dice di non sapere niente, oltre quello che ci è consentito da qualche banale constatazione razionale e che è solo una briciola di quello che Dio è realmente. Però poi si permette di scrivere libri su Dio, addirittura di mettergli in bocca delle risposte! E ovviamente lo fa parlare contro quelli che sulla terra parlano in loro nome.
Di Dio il deista non sa niente, ma una cosa la sa: il Dio delle religioni (anche e forse soprattutto di quelle rivelate con le loro chiese) è solo una caricatura di Dio. Notevole. Da un’ammissione di sconfitta, di non sapere, non deriva logicamente un tacere, una sospensione totale di giudizio. No. Il deista parla, sproloquia, giudica, e, guarda un po’, in nome di Dio!
Nel suo discorso Vecchioni ha detto che noi non sappiamo niente di Dio, di questo Dio che “se ne è andato” e che il brutto è proprio quando, nonostante ciò, ci permettiamo di giudicare gli altri a partire da Dio. Bel ragionamento, ma è proprio quello che fa lui! Ditemi dove sta la coerenza. Ditemi se non è schizofrenia. Il Dizionario Filosofico del deista Voltaire è tutta una requisitoria contro le idee di Dio sparse nel mondo. Gli uomini, lo dice anche Vecchioni, si sono inventati il loro Dio. Ma non gli viene il dubbio che questa conclusione venga da uno che a sua volta si è inventato la propria idea di Dio? Singolare privilegio, quello del deista, di essere in contraddizione con se stesso, senza porsene minimamente il problema!
Insomma, alla fine percepisci l’approccio tutto professorale al problema di Dio. Il dio di Vecchioni, come quello del deista, è una realtà metafisica che assomiglia molto ad un’idea filosofica. E’ un parto dell’uomo che assomiglia molto al carattere dell’uomo che l’ha partorito.
Per adesso, pare, Vecchioni è arrivato qui. Non c’è ancora il Dio di Cristo, come lo definiva Pascal, il Dio fatto carne, quello che non se ne è andato, ma che è venuto. C’è da augurare al professore-cantautore che questo Dio lo incontri. E che ci racconti il miracolo. Forse in un prossimo libro...
(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 7 luglio 2010)
Da questo punto di vista è stato anche sorprendente sentire un uomo di cultura, un professore, che fu anche assistente di Storia delle Religioni dopo la laurea in Lettere, che si stupisce finalmente con la semplicità di un bambino davanti ad un dato facilmente constatabile: la genialità di certi scrittori (i suoi amati Saffo, Catullo, Shakespeare), o di certi artisti o di certi musicisti è di per sé una finestra sull’esistenza di Dio. Tanta genialità, riflette Vecchioni, non può essere sprecata nella stupida distruzione generale. Tutto questo fiume di sublimità deve venire da qualche parte e non può sfociare nello stupido nulla.
Un argomento importante, sul quale vale sempre la pena di riflettere. Ma di certo non nuovo. E’ un po’ la scoperta dell’acqua calda. Forse sarebbe bastato leggere il Libro della Sapienza, dove all’elenco delle manifestazioni del genio umano si aggiungono le perfezioni della natura. Sì, bastava leggere, ma è anche vero che finché uno a certe cose non ci arriva da solo, non c’è libro che gliele possa insegnare.
Dunque, Vecchioni è arrivato a postulare l’esistenza di Dio e, con espressione bella e poetica, ci dice che di Dio noi abbiamo solo una parola, uno schizzo di colore, una nota. Dio è il poema, l’affresco, la sinfonia. Ma noi nelle mani possediamo poco più di nulla. Anche questo è molto bello, e anche questa ammissione di piccolezza di fronte a Colui che è immensamente grande fa parte della sapienza dell’umanità, da millenni e millenni, almeno fino a quando non sono arrivati i filosofi atei a mettere forzatamente in dubbio quello che un selvaggio analfabeta ha sempre saputo benissimo. E con Dio vanno l’amore, la felicità, la speranza, la vita stessa. Bello anche questo.
C’è, nelle parole di Vecchioni, anche la constatazione che Dio si è manifestato nel mondo e nell’uomo, ma poi “se ne è andato” ed ha lasciato gli uomini da soli a costruirsi le proprie divinità per “salvarsi la vita”. Dio è silenzioso e questo suo silenzio è assordante. Vecchioni lo confessa. L’uomo è orfano di Dio.
Bene, fatte tutte queste belle premesse, cosa ti aspetteresti? Che l’uomo che ha intuito Dio gli lanci il grido che Manzoni mise in bocca all’Innominato: “Se ci sei manifestati!”. Insomma, ti aspetti un libro del tenore delle Confessioni di Sant’Agostino, pieno di angosciose domande, della coinvolgente testimonianza di un uomo che batte continuamente contro il muro del Mistero e cerca una risposta. E poi la trova, non a partire da se stesso, ma dalla comunicazione stessa di Dio. Ti aspetti che l’orfano scriva una lettera piena di amore al Padre, confessandogli il freddo che sente intorno, a causa della sua assenza.
Ma ecco il colpo di scena: «Il mio Dio non è di quelle divinità create o ricercate dagli uomini per salvarsi la vita. Questo libro comicamente teologico è una ricerca personale sulle domande banali: Dio esiste? Cos’è la fede? C’è il libero arbitrio? Nel testo Dio risponde e dimostra di esistere tramite una sua distrazione, il caso, che permette agli uomini di dargli scacco liberamente».
Direi che qui è testimoniato il particolare privilegio del deista, di Vecchioni come di Voltaire come di qualsiasi altro. E’ un privilegio strano, che possiamo sintetizzare così: di Dio il deista dice di non sapere niente, oltre quello che ci è consentito da qualche banale constatazione razionale e che è solo una briciola di quello che Dio è realmente. Però poi si permette di scrivere libri su Dio, addirittura di mettergli in bocca delle risposte! E ovviamente lo fa parlare contro quelli che sulla terra parlano in loro nome.
Di Dio il deista non sa niente, ma una cosa la sa: il Dio delle religioni (anche e forse soprattutto di quelle rivelate con le loro chiese) è solo una caricatura di Dio. Notevole. Da un’ammissione di sconfitta, di non sapere, non deriva logicamente un tacere, una sospensione totale di giudizio. No. Il deista parla, sproloquia, giudica, e, guarda un po’, in nome di Dio!
Nel suo discorso Vecchioni ha detto che noi non sappiamo niente di Dio, di questo Dio che “se ne è andato” e che il brutto è proprio quando, nonostante ciò, ci permettiamo di giudicare gli altri a partire da Dio. Bel ragionamento, ma è proprio quello che fa lui! Ditemi dove sta la coerenza. Ditemi se non è schizofrenia. Il Dizionario Filosofico del deista Voltaire è tutta una requisitoria contro le idee di Dio sparse nel mondo. Gli uomini, lo dice anche Vecchioni, si sono inventati il loro Dio. Ma non gli viene il dubbio che questa conclusione venga da uno che a sua volta si è inventato la propria idea di Dio? Singolare privilegio, quello del deista, di essere in contraddizione con se stesso, senza porsene minimamente il problema!
Insomma, alla fine percepisci l’approccio tutto professorale al problema di Dio. Il dio di Vecchioni, come quello del deista, è una realtà metafisica che assomiglia molto ad un’idea filosofica. E’ un parto dell’uomo che assomiglia molto al carattere dell’uomo che l’ha partorito.
Per adesso, pare, Vecchioni è arrivato qui. Non c’è ancora il Dio di Cristo, come lo definiva Pascal, il Dio fatto carne, quello che non se ne è andato, ma che è venuto. C’è da augurare al professore-cantautore che questo Dio lo incontri. E che ci racconti il miracolo. Forse in un prossimo libro...
(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 7 luglio 2010)
lunedì 19 luglio 2010
Vauro l’incoerente si copre di ridicolo
La censura? Utile, checché se ne dica. Un sano limite alla libertà di espressione risparmierebbe a chi deve ascoltare di sorbirsi banalità. E a chi vuole parlare di rendersi ridicolo.
Come è accaduto l’altroieri a Pontremoli, alla presentazione dei finalisti del premio Bancarella, il famoso riconoscimento letterario in cui a scegliere il vincitore sono 200 librai italiani. Nella cinquina c’è anche Vauro Senesi, noto semplicemente come Vauro, vignettista del manifesto e della trasmissione santoriana Annozero, in concorso con il romanzo La scatola dei calzini perduti, pubblicato da Piemme. È la storia di un giovane sudanese il quale grazie al talento per il canto e a un amico missionario riesce a giungere a Roma, dove in poco tempo capisce cosa significhi essere extracomunitari in un Paese come l’Italia di oggi, «fino al drammatico epilogo» come recita la scheda editoriale.
Comunque. Vauro, sabato pomeriggio, è chiamato a presentare il suo libro, insieme agli altri quattro finalisti, a Palazzo Dosi, davanti a un pubblico numeroso e ai vertici della Fondazione «Città del Libro» che gestisce il Premio. Prende la parola e in pochi minuti trasforma la presentazione del libro in un comizio politico-ideologico anticensura, antiBerlusconi, antigoverno, antitutto. Inizia lanciando frecciatine ironiche contro il Governo e la legge sull’immigrazione («una schifezza»), in riferimento al protagonista del suo romanzo, che è un extracomunitario («ma non un clandestino: ma cosa significa poi essere clandestino? Siamo cittadini del mondo, tutti possono stare dove gli pare», affermazione che è uno splendido principio di buonismo ecumenico ma una pessima interpretazione del diritto internazionale...) per finire col cadere nelle dozzinali banalità terzomondiste da manifesto: «Noi italiani prendiamo gli extracomunitari che hanno diritto di restare qui e li rimandiamo a morire nei lager di Gheddafi» eccetera eccetera, tutto in puro stile Vauro.
Fino a che, però, qualcuno si indispettisce, annoiato dalla solita predica ideologicamente corretta e disturbato dal fatto che uno spazio pubblico letterario diventi una tribuna politica privata. Prima una signora del pubblico fa notare che se lei, ad esempio, dovesse andare in Gabon senza passaporto e visto d’ingresso, non la farebbero entrare, extracomunitaria o no che sia; e Vauro, piccato, comincia con il ridisegnare se stesso a vittima sacrificale: «Sapevo che avrei dato fastidio anche qui... stia tranquilla signora, di bolscevichi ci sono solo io ormai». Poi Giancarlo Perazzini, scrittore che fa parte dell’entourage del presidente della Fondazione «Città del libro», interviene cercando di stemperare l’astioso soliloquio, ma causando un ulteriore attacco polemico del vignettista-romanziere: il premier è impresentabile, in Italia non c’è libertà di stampa, il Governo sta distruggendo la scuola, e tutta la colpa è di Berlusconi, al quale però elegantemente Vauro riconosce almeno un merito: «la sua personale battaglia a favore della ricrescita dei capelli».
Fino a che, a spezzare l’incantesimo del fastidioso sproloquio («Neppure ad Annozero si sarebbe giustificato un intervento così polemico e fuoriluogo sia rispetto al contesto che alle domande fatte», è il commento di Giancarlo Perazzini) interviene l’ospite inatteso.
Dal fondo della sala si alza Elido Fazi, editore non certo ascrivibile alla categoria politica-elettorale del «centrodestra» (anzi!), e a bruciapelo spara la domanda più semplice e intelligente che si possa porre: «Vauro, scusa, ma se ce l’hai tanto con Berlusconi, perché continui a pubblicare per Piemme, che è una casa editrice del gruppo Mondadori?».
Brusii, silenzio, imbarazzo.
Vauro rimane di sasso. Prima balbetta qualcosa, cerca di sviare, poi inizia l’arrampicata sugli specchi: «Sì, è vero pubblico per una casa editrice di Berlusconi, ma non è che tutti quelli che ci lavorano la pensano come lui. Anche Rai2, dove ho un contratto, fa capo al Premier, ma quelli che ci lavorano non sono tutti figli di... Berlusconi. Sarebbe come dire che perché Marchionne è a capo della Fiat tutti gli operai la pensano come lui» (dimenticando il piccolo particolare che gli operai della Fiat non hanno alternative, mentre uno come Vauro può scegliersi la casa editrice che vuole, anche se magari deve rinunciare ad anticipi più sostanziosi, ndr). Poi dall’errore logico è un attimo a passare alla banalità ideologica. «Ammetto - si giustifica il vignettista - che lavoro per un canale Rai e per Piemme... ma come si fa oggi in Italia a non lavorare per Berlusconi: ovunque ci giriamo c’è lui, è tutto suo... la verità è che in questo Paese non c’è libertà».
La verità, purtroppo, è che ce n’è troppa, come dimostra lo stesso successo mediatico di Vauro, stipendiato dalla Rai e da Piemme per poter essere libero di criticare legittimamente chiunque, a partire da chi lo paga. Si chiama democrazia, cosa che in Italia per fortuna abbonda.
Per il resto, non rimane che aggiungere due note di cronaca. La prima sono i mugugni di disapprovazione (per Vauro) e i brusii di solidarietà (a Fazi) da parte di una piazza «rossa» per antica tradizione (il giorno prima al Caffè Bellotti durante la presentazione del libro di Patrizia d’Addario non appena uno spettatore ha accennato un intervento appena appena simpatizzante con l’aria berlusconiana è stato zittito dal resto del pubblico). La seconda è l’«indisposizione» accusata in serata da Vauro, il quale ha preferito non partecipare alla tradizionale Cena dei Librai a Montereggio organizzata dal Premio Bancarella per i 200 librai votanti e i cinque finalisti, che quindi sono rimasti in quattro. Il quinto sarà andato a farsi una vignetta.
(Fonte: Luigi Mascheroni, Il Giornale, 19 luglio 2010)
Come è accaduto l’altroieri a Pontremoli, alla presentazione dei finalisti del premio Bancarella, il famoso riconoscimento letterario in cui a scegliere il vincitore sono 200 librai italiani. Nella cinquina c’è anche Vauro Senesi, noto semplicemente come Vauro, vignettista del manifesto e della trasmissione santoriana Annozero, in concorso con il romanzo La scatola dei calzini perduti, pubblicato da Piemme. È la storia di un giovane sudanese il quale grazie al talento per il canto e a un amico missionario riesce a giungere a Roma, dove in poco tempo capisce cosa significhi essere extracomunitari in un Paese come l’Italia di oggi, «fino al drammatico epilogo» come recita la scheda editoriale.
Comunque. Vauro, sabato pomeriggio, è chiamato a presentare il suo libro, insieme agli altri quattro finalisti, a Palazzo Dosi, davanti a un pubblico numeroso e ai vertici della Fondazione «Città del Libro» che gestisce il Premio. Prende la parola e in pochi minuti trasforma la presentazione del libro in un comizio politico-ideologico anticensura, antiBerlusconi, antigoverno, antitutto. Inizia lanciando frecciatine ironiche contro il Governo e la legge sull’immigrazione («una schifezza»), in riferimento al protagonista del suo romanzo, che è un extracomunitario («ma non un clandestino: ma cosa significa poi essere clandestino? Siamo cittadini del mondo, tutti possono stare dove gli pare», affermazione che è uno splendido principio di buonismo ecumenico ma una pessima interpretazione del diritto internazionale...) per finire col cadere nelle dozzinali banalità terzomondiste da manifesto: «Noi italiani prendiamo gli extracomunitari che hanno diritto di restare qui e li rimandiamo a morire nei lager di Gheddafi» eccetera eccetera, tutto in puro stile Vauro.
Fino a che, però, qualcuno si indispettisce, annoiato dalla solita predica ideologicamente corretta e disturbato dal fatto che uno spazio pubblico letterario diventi una tribuna politica privata. Prima una signora del pubblico fa notare che se lei, ad esempio, dovesse andare in Gabon senza passaporto e visto d’ingresso, non la farebbero entrare, extracomunitaria o no che sia; e Vauro, piccato, comincia con il ridisegnare se stesso a vittima sacrificale: «Sapevo che avrei dato fastidio anche qui... stia tranquilla signora, di bolscevichi ci sono solo io ormai». Poi Giancarlo Perazzini, scrittore che fa parte dell’entourage del presidente della Fondazione «Città del libro», interviene cercando di stemperare l’astioso soliloquio, ma causando un ulteriore attacco polemico del vignettista-romanziere: il premier è impresentabile, in Italia non c’è libertà di stampa, il Governo sta distruggendo la scuola, e tutta la colpa è di Berlusconi, al quale però elegantemente Vauro riconosce almeno un merito: «la sua personale battaglia a favore della ricrescita dei capelli».
Fino a che, a spezzare l’incantesimo del fastidioso sproloquio («Neppure ad Annozero si sarebbe giustificato un intervento così polemico e fuoriluogo sia rispetto al contesto che alle domande fatte», è il commento di Giancarlo Perazzini) interviene l’ospite inatteso.
Dal fondo della sala si alza Elido Fazi, editore non certo ascrivibile alla categoria politica-elettorale del «centrodestra» (anzi!), e a bruciapelo spara la domanda più semplice e intelligente che si possa porre: «Vauro, scusa, ma se ce l’hai tanto con Berlusconi, perché continui a pubblicare per Piemme, che è una casa editrice del gruppo Mondadori?».
Brusii, silenzio, imbarazzo.
Vauro rimane di sasso. Prima balbetta qualcosa, cerca di sviare, poi inizia l’arrampicata sugli specchi: «Sì, è vero pubblico per una casa editrice di Berlusconi, ma non è che tutti quelli che ci lavorano la pensano come lui. Anche Rai2, dove ho un contratto, fa capo al Premier, ma quelli che ci lavorano non sono tutti figli di... Berlusconi. Sarebbe come dire che perché Marchionne è a capo della Fiat tutti gli operai la pensano come lui» (dimenticando il piccolo particolare che gli operai della Fiat non hanno alternative, mentre uno come Vauro può scegliersi la casa editrice che vuole, anche se magari deve rinunciare ad anticipi più sostanziosi, ndr). Poi dall’errore logico è un attimo a passare alla banalità ideologica. «Ammetto - si giustifica il vignettista - che lavoro per un canale Rai e per Piemme... ma come si fa oggi in Italia a non lavorare per Berlusconi: ovunque ci giriamo c’è lui, è tutto suo... la verità è che in questo Paese non c’è libertà».
La verità, purtroppo, è che ce n’è troppa, come dimostra lo stesso successo mediatico di Vauro, stipendiato dalla Rai e da Piemme per poter essere libero di criticare legittimamente chiunque, a partire da chi lo paga. Si chiama democrazia, cosa che in Italia per fortuna abbonda.
Per il resto, non rimane che aggiungere due note di cronaca. La prima sono i mugugni di disapprovazione (per Vauro) e i brusii di solidarietà (a Fazi) da parte di una piazza «rossa» per antica tradizione (il giorno prima al Caffè Bellotti durante la presentazione del libro di Patrizia d’Addario non appena uno spettatore ha accennato un intervento appena appena simpatizzante con l’aria berlusconiana è stato zittito dal resto del pubblico). La seconda è l’«indisposizione» accusata in serata da Vauro, il quale ha preferito non partecipare alla tradizionale Cena dei Librai a Montereggio organizzata dal Premio Bancarella per i 200 librai votanti e i cinque finalisti, che quindi sono rimasti in quattro. Il quinto sarà andato a farsi una vignetta.
(Fonte: Luigi Mascheroni, Il Giornale, 19 luglio 2010)
sabato 3 luglio 2010
L'Occidente di Mons. Fisichella
La sfida è titanica, ma è unanime il consenso sul fatto che Papa Benedetto XVI abbia scelto l'uomo giusto al posto giusto. La nomina di monsignor Rino Fisichella al neoistituito Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione riscuote gli applausi di tutti. Fin dall'inizio del suo pontificato, Ratzinger ha puntato molto sulla rievangelizzazione dell'occidente secolarizzato. La Chiesa è universale, e i nuovi mondi in via di sviluppo offrono sfide incredibili sia per le enormi difficoltà che pongono, sia per la basilare questione di carità verso una massa di persone che soffrono, ma sia anche per la ricchezza di fermenti ed entusiasmo che si slanciano dai Paesi di recente cristianizzazione. Eppure il cuore della sfida è ancora lì, nel vecchio mondo, nell'Europa e nel Nord America. Senza tornare a consolidare questa roccaforte che ancora traccia la strada al resto del pianeta la Chiesa sarebbe più debole, più fragile. E proprio in queste nostre terre la Chiesa cattolica paga il dazio di una serie di battute d'arresto, l'ostilità della secolarizzazione, l'avanzata del pensiero debole, nonché, sono recenti riflessioni che il Papa ha ripetuto spesso, le ferite causate da suoi membri infedeli (il primo pensiero va ai casi di pedofilia) peggiori delle stesse persecuzioni. Ed è per invertire questa tendenza pericolosa che Benedetto XVI ha deciso di reagire con forza e di istituire un nuovo dicastero dedicato proprio alla nuova evangelizzazione dell'Occidente.
E per guidarlo ha puntato in alto, scegliendo un personaggio dal profilo elevato e dal carattere forte. Un uomo colto capace di confrontarsi alla pari con gli intellettuali del vecchio mondo, e che certo non ha alcun timore delle sfide poste dalla modernità. Questo compito «costituisce una vera sfida nell'attuale momento della storia », è stato il primo commento del neo nominato presidente. «Il mio primo pensiero è di grande gratitudine al Santo Padre per avere pensato a me per un compito così importante», ha detto Fisichella, che ha osservato: «Il Papa conosce questa tematica dalla sua lunga esperienza di docente e di acuto osservatore dei momenti storici e culturali. Quindi è evidente che vede in questo momento particolare una esigenza che è quella di riportare di nuovo il messaggio di Gesù Cristo perché gli uomini di oggi possano rinvigorire la loro fede». Benedetto XVI aveva annunciato la creazione del nuovo dicastero durante la cerimonia per la festa dei santi Pietro e Paolo. Ieri intanto il portavoce vaticano padre Federico Lombardi ha chiarito che non è "imminente" la pubblicazione del documento che definisce le competenze del nuovo dicastero, e il Papa si riserva di raccogliere "suggerimenti e considerazioni" prima di decidere. Monsignor Fisichella, di nome Salvatore ma più noto come Rino, è nato a Cologno, in provincia di Milano ma nella diocesi di Lodi, il 25 agosto 1951. Dopo gli studi al Liceo Classico Collegio San Francesco tenuto dai Padri Barnabiti di Lodi, ha frequentato il seminario a Roma dove il 13 marzo 1976 è stato ordinato sacerdote del clero romano dall'allora cardinal vicario Ugo Poletti. È stato vice-parroco ai SS. Protomartiri Romani, vice assistente e assistente diocesano dei giovani di Azione cattolica, Canonico di S. Maria in Trastevere. Da sempre distintosi per le sue dote intellettuali, è stato professore di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana, fino al momento della sua elezione a vescovo, il 12 settembre 1998, quando, con il titolo della chiesa di Voghenza venne nominato vescovo ausiliare di Roma incaricato del settore sud e ordinato dal cardinal vicario Camillo Ruini. È stato membro del Comitato centrale del Grande Giubileo dell'Anno 2000 e vice presidente della commissione teologico- storica del medesimo comitato. Il 18 gennaio 2002 viene scelto come Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense, dove nel suo primo quinquennio ha anche diretto l'Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia, creatura molto cara al Papa polacco. Il 17 giugno 2008 venne nominato Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e promosso arcivescovo. Dal 1994 è anche rettore della chiesa di San Gregorio Nazianzeno, un piccolo edificio sacro raramente accessibile perché all'interno delle strutture di Montecitorio, in virtù del quale infatti don Rino è cappellano della Camera dei Deputati, incarico che probabilmente manterrà. Già segretario della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l'Annuncio e la Catechesi della CEI, è Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e Membro della Congregazione delle Cause dei Santi; è stato Ponente della causa di beatificazione di Antonio Rosmini.
Di recente è stato attaccato per una incomprensione nel controverso caso dell'aborto di una bambina brasiliana, con un articolo sull'Osservatore Romano che poi la Congregazione per la Dottrina della Fede ha definito oggetto di "manipolazione e strumentalizzazione" da parte di altri media. Capace di confrontarsi con gli spiriti liberi (episodio famoso è la sua amicizia con Oriana Fallaci che nel 2005 riuscì a portare in udienza privata dal Papa prima che la scrittrice scomparisse), Fisichella è autore di moltissime pubblicazioni. Tra le più recenti nel 2007 “Fede e libertà. Dialoghi sullo spirito del tempo”, con Ferdinando Adornato, edizioni Liberal. Dello stesso anno “Nel mondo da credenti. Le ragioni dei cattolici nel dibattito politico italiano”, mentre del 2009 è “Identità dissolta. Il cristianesimo, lingua madre dell'Europa”, e, in occasione dell'Anno Sacerdotale, “Chiamati ad essere uomini liberi. Conversando con i preti oggi”. Come si vede, un sacerdote intellettuale che non teme di confrontarsi anche con temi spinosi, e una parte del suo carisma Fisichella lo ha anche utilizzato confrontandosi con i mezzi di comunicazione di massa, distinguendosi nel chiarire il pensiero della Chiesa in trasmissioni televisive come Porta a Porta o Anno Zero.
Tra le sue migliori caratteristiche, la capacità di unire chiarezza e profondità, ma anche un rigore senza cedimenti ma pure senza asprezze, con grande apertura di cuore per tentare di comprendere le posizioni degli altri. Il suo nome è stato più volte sussurrato tra i candidati a un'importante diocesi italiana, e di conseguenza alla porpora cardinalizia, che ora potrebbe arrivare per l'altra via del delicato Pontificio Consiglio.
(Fonte: Osvaldo Baldacci, © Copyright Liberal, 1° luglio 2010)
E per guidarlo ha puntato in alto, scegliendo un personaggio dal profilo elevato e dal carattere forte. Un uomo colto capace di confrontarsi alla pari con gli intellettuali del vecchio mondo, e che certo non ha alcun timore delle sfide poste dalla modernità. Questo compito «costituisce una vera sfida nell'attuale momento della storia », è stato il primo commento del neo nominato presidente. «Il mio primo pensiero è di grande gratitudine al Santo Padre per avere pensato a me per un compito così importante», ha detto Fisichella, che ha osservato: «Il Papa conosce questa tematica dalla sua lunga esperienza di docente e di acuto osservatore dei momenti storici e culturali. Quindi è evidente che vede in questo momento particolare una esigenza che è quella di riportare di nuovo il messaggio di Gesù Cristo perché gli uomini di oggi possano rinvigorire la loro fede». Benedetto XVI aveva annunciato la creazione del nuovo dicastero durante la cerimonia per la festa dei santi Pietro e Paolo. Ieri intanto il portavoce vaticano padre Federico Lombardi ha chiarito che non è "imminente" la pubblicazione del documento che definisce le competenze del nuovo dicastero, e il Papa si riserva di raccogliere "suggerimenti e considerazioni" prima di decidere. Monsignor Fisichella, di nome Salvatore ma più noto come Rino, è nato a Cologno, in provincia di Milano ma nella diocesi di Lodi, il 25 agosto 1951. Dopo gli studi al Liceo Classico Collegio San Francesco tenuto dai Padri Barnabiti di Lodi, ha frequentato il seminario a Roma dove il 13 marzo 1976 è stato ordinato sacerdote del clero romano dall'allora cardinal vicario Ugo Poletti. È stato vice-parroco ai SS. Protomartiri Romani, vice assistente e assistente diocesano dei giovani di Azione cattolica, Canonico di S. Maria in Trastevere. Da sempre distintosi per le sue dote intellettuali, è stato professore di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana, fino al momento della sua elezione a vescovo, il 12 settembre 1998, quando, con il titolo della chiesa di Voghenza venne nominato vescovo ausiliare di Roma incaricato del settore sud e ordinato dal cardinal vicario Camillo Ruini. È stato membro del Comitato centrale del Grande Giubileo dell'Anno 2000 e vice presidente della commissione teologico- storica del medesimo comitato. Il 18 gennaio 2002 viene scelto come Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense, dove nel suo primo quinquennio ha anche diretto l'Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia, creatura molto cara al Papa polacco. Il 17 giugno 2008 venne nominato Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e promosso arcivescovo. Dal 1994 è anche rettore della chiesa di San Gregorio Nazianzeno, un piccolo edificio sacro raramente accessibile perché all'interno delle strutture di Montecitorio, in virtù del quale infatti don Rino è cappellano della Camera dei Deputati, incarico che probabilmente manterrà. Già segretario della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l'Annuncio e la Catechesi della CEI, è Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e Membro della Congregazione delle Cause dei Santi; è stato Ponente della causa di beatificazione di Antonio Rosmini.
Di recente è stato attaccato per una incomprensione nel controverso caso dell'aborto di una bambina brasiliana, con un articolo sull'Osservatore Romano che poi la Congregazione per la Dottrina della Fede ha definito oggetto di "manipolazione e strumentalizzazione" da parte di altri media. Capace di confrontarsi con gli spiriti liberi (episodio famoso è la sua amicizia con Oriana Fallaci che nel 2005 riuscì a portare in udienza privata dal Papa prima che la scrittrice scomparisse), Fisichella è autore di moltissime pubblicazioni. Tra le più recenti nel 2007 “Fede e libertà. Dialoghi sullo spirito del tempo”, con Ferdinando Adornato, edizioni Liberal. Dello stesso anno “Nel mondo da credenti. Le ragioni dei cattolici nel dibattito politico italiano”, mentre del 2009 è “Identità dissolta. Il cristianesimo, lingua madre dell'Europa”, e, in occasione dell'Anno Sacerdotale, “Chiamati ad essere uomini liberi. Conversando con i preti oggi”. Come si vede, un sacerdote intellettuale che non teme di confrontarsi anche con temi spinosi, e una parte del suo carisma Fisichella lo ha anche utilizzato confrontandosi con i mezzi di comunicazione di massa, distinguendosi nel chiarire il pensiero della Chiesa in trasmissioni televisive come Porta a Porta o Anno Zero.
Tra le sue migliori caratteristiche, la capacità di unire chiarezza e profondità, ma anche un rigore senza cedimenti ma pure senza asprezze, con grande apertura di cuore per tentare di comprendere le posizioni degli altri. Il suo nome è stato più volte sussurrato tra i candidati a un'importante diocesi italiana, e di conseguenza alla porpora cardinalizia, che ora potrebbe arrivare per l'altra via del delicato Pontificio Consiglio.
(Fonte: Osvaldo Baldacci, © Copyright Liberal, 1° luglio 2010)
Vito Mancuso e la “Pascendi”: non sarà forse il caso di rileggerla?
Sta suscitando molto interesse – e come poteva essere altrimenti – l’ennesimo, “imperdibile” articolo di Vito Mancuso in cui, per la ennesima volta, il “teologo” invoca severe autoflagellazioni per la Chiesa, raffigurata naturalmente come un covo di pedofili. Su Vito Mancuso, e sul suo straordinariamente innovativo e originale pensiero, di cui ci siamo più volte occupati, riteniamo opportuno pubblicare un articolo di Pietro De Marco, apparso lo scorso febbraio nell’inserto fiorentino del “Corriere della Sera”.
Un confronto sulla fede, vecchio di un secolo.
La formula “Leggere per non dimenticare”, che intitola a Firenze una nutrita, seguitissima serie di presentazioni di libri e autori, suonava particolarmente convincente ieri al pubblico più provveduto. Il confronto tra Vito Mancuso, che “insegna teologia” all’università privata Vita-Salute di Milano, e Corrado Augias, giornalista e autore-conduttore di programmi televisivi, ricordava infatti i toni e i contenuti di una tipica discussione d’inizio Novecento, tra un intellettuale cattolico modernista e un divulgatore agnostico e anticlericale.
Mancuso ha ripetuto, con una semplificazione che è già tutta nei suoi libri, qualcosa che il secolo scorso ha conosciuto fino alla nausea e al rigetto, filosofico e teologico. La fede è esperienza vitale, nasce dalla Vita, sussiste, se resta autentica, nella Vita; le religioni vengono dopo, interpretano variamente l’Esperienza, le si aggiungono come sovrastrutture; la Realtà è un tutto energetico, percorso come da una “corrente elettrica” che è la modalità autentica dell’esistere; il Dio personale del cristianesimo è teologia infantile o erronea, da superare, al pari di altri fondamenti della fede cristiana come il peccato, il male, l’immortalità dell’essere personale creato.
In un libretto recente, “La vita autentica”, il nostro “teologo” scrive: “Essendo tutto dominato dalla logica evolutiva, non esiste alcun punto fermo, se con fermo si intende qualcosa di statico e di immobile [...]. Dio è un punto fermo [...] nel senso di immutabile quanto alla dinamica del suo movimento vitale che è l’amore [...]. E va da sé che, non essendo Dio, a maggior ragione non sono punto fermo né la Bibbia [...] né la Chiesa con il suo magistero dottrinale [...], il quale parla veramente nel nome del Dio vivo solo se consente e incrementa il creativo dinamismo della libertà”. Un linguaggio disarmante, che non accetterei nella tesina di uno studente.
Mancuso aggiunge che “il punto in base al quale pensare me stesso e gli altri [...] non è statico, ma è dinamico, e tuttavia è fermo”. Per lui “il punto fermo di tipo dinamico” è una essenziale libertà non anarchica, un principio guida dell’essere. Un punto archimedeo. Sulla sua base, scrive: “sollevo me stesso, posso prendere in mano la mia vita, so cosa sono, attivo la mia natura profonda”.
Questo monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age. La Rivelazione, le Rivelazioni, sono accessorie. Ma il sostrato teorico di Mancuso è ben descritto da molti passi di un testo scritto più di cento anni fa.
L’enciclica “Pascendi“, del settembre 1907, prima che condannare diagnosticava magistralmente derive simili. Per i modernisti, scriveva, “nel sentimento religioso si deve riconoscere come un’intuizione del cuore”; essa “mette l’uomo in contatto immediato la realtà stessa di Dio”, così “chiunque abbia questa esperienza diventa credente in senso vero e proprio”. Il filosofo religioso di tipo modernista divinizza sia il Cosmo sia il suo Principio immanente. Vale la pena di rileggere l’enciclica di Pio X, una diagnosi che fu giudicata in molte cerchie filosofiche un capolavoro. E che, perfetta per l’oggi, rivela il suo valore predittivo.
Da anni, leggendo Mancuso, sono diviso tra lo stupore per una cultura, filosofica e teologica, approssimativa ed esibita, e la riflessione sul suo successo. Che Augias abbia catturato Mancuso in un libro a due, che si vende molto, e che se lo porti dietro in un inesausto calendario di incontri, ha una sua logica. Mancuso produce, infatti, più danni nella religiosità comune e cattolica che la cultura ottocentesca del giornalista de “la Repubblica”. Dopo Adriano Prosperi, e altri, la coppia Mancuso-Augias garantisce una solida continuità di polemica anticattolica. Augias ha avuto persino il cattivo gusto di polemizzare a Firenze col suo “arcivescovo retrivo”.
Ma che la minoranza cattolica che legge di “teologia” accetti enunciati vitalistici che Max Weber avrebbe detto da rivista salottiera (“la vera fede si nutre delle interrogazioni radicali della vita perché sa di essere al servizio della vita”); e li accetti come “metodo” e come via d’uscita da quello che il nostro “teologo” definisce le incapacità teologiche della dommatica cattolica (che non conosce), produce allarme. Chi ha decostruito l’intelletto cattolico a questo punto?
(Fonte: Rai Vaticano, 30 Giugno 2010)
Un confronto sulla fede, vecchio di un secolo.
La formula “Leggere per non dimenticare”, che intitola a Firenze una nutrita, seguitissima serie di presentazioni di libri e autori, suonava particolarmente convincente ieri al pubblico più provveduto. Il confronto tra Vito Mancuso, che “insegna teologia” all’università privata Vita-Salute di Milano, e Corrado Augias, giornalista e autore-conduttore di programmi televisivi, ricordava infatti i toni e i contenuti di una tipica discussione d’inizio Novecento, tra un intellettuale cattolico modernista e un divulgatore agnostico e anticlericale.
Mancuso ha ripetuto, con una semplificazione che è già tutta nei suoi libri, qualcosa che il secolo scorso ha conosciuto fino alla nausea e al rigetto, filosofico e teologico. La fede è esperienza vitale, nasce dalla Vita, sussiste, se resta autentica, nella Vita; le religioni vengono dopo, interpretano variamente l’Esperienza, le si aggiungono come sovrastrutture; la Realtà è un tutto energetico, percorso come da una “corrente elettrica” che è la modalità autentica dell’esistere; il Dio personale del cristianesimo è teologia infantile o erronea, da superare, al pari di altri fondamenti della fede cristiana come il peccato, il male, l’immortalità dell’essere personale creato.
In un libretto recente, “La vita autentica”, il nostro “teologo” scrive: “Essendo tutto dominato dalla logica evolutiva, non esiste alcun punto fermo, se con fermo si intende qualcosa di statico e di immobile [...]. Dio è un punto fermo [...] nel senso di immutabile quanto alla dinamica del suo movimento vitale che è l’amore [...]. E va da sé che, non essendo Dio, a maggior ragione non sono punto fermo né la Bibbia [...] né la Chiesa con il suo magistero dottrinale [...], il quale parla veramente nel nome del Dio vivo solo se consente e incrementa il creativo dinamismo della libertà”. Un linguaggio disarmante, che non accetterei nella tesina di uno studente.
Mancuso aggiunge che “il punto in base al quale pensare me stesso e gli altri [...] non è statico, ma è dinamico, e tuttavia è fermo”. Per lui “il punto fermo di tipo dinamico” è una essenziale libertà non anarchica, un principio guida dell’essere. Un punto archimedeo. Sulla sua base, scrive: “sollevo me stesso, posso prendere in mano la mia vita, so cosa sono, attivo la mia natura profonda”.
Questo monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age. La Rivelazione, le Rivelazioni, sono accessorie. Ma il sostrato teorico di Mancuso è ben descritto da molti passi di un testo scritto più di cento anni fa.
L’enciclica “Pascendi“, del settembre 1907, prima che condannare diagnosticava magistralmente derive simili. Per i modernisti, scriveva, “nel sentimento religioso si deve riconoscere come un’intuizione del cuore”; essa “mette l’uomo in contatto immediato la realtà stessa di Dio”, così “chiunque abbia questa esperienza diventa credente in senso vero e proprio”. Il filosofo religioso di tipo modernista divinizza sia il Cosmo sia il suo Principio immanente. Vale la pena di rileggere l’enciclica di Pio X, una diagnosi che fu giudicata in molte cerchie filosofiche un capolavoro. E che, perfetta per l’oggi, rivela il suo valore predittivo.
Da anni, leggendo Mancuso, sono diviso tra lo stupore per una cultura, filosofica e teologica, approssimativa ed esibita, e la riflessione sul suo successo. Che Augias abbia catturato Mancuso in un libro a due, che si vende molto, e che se lo porti dietro in un inesausto calendario di incontri, ha una sua logica. Mancuso produce, infatti, più danni nella religiosità comune e cattolica che la cultura ottocentesca del giornalista de “la Repubblica”. Dopo Adriano Prosperi, e altri, la coppia Mancuso-Augias garantisce una solida continuità di polemica anticattolica. Augias ha avuto persino il cattivo gusto di polemizzare a Firenze col suo “arcivescovo retrivo”.
Ma che la minoranza cattolica che legge di “teologia” accetti enunciati vitalistici che Max Weber avrebbe detto da rivista salottiera (“la vera fede si nutre delle interrogazioni radicali della vita perché sa di essere al servizio della vita”); e li accetti come “metodo” e come via d’uscita da quello che il nostro “teologo” definisce le incapacità teologiche della dommatica cattolica (che non conosce), produce allarme. Chi ha decostruito l’intelletto cattolico a questo punto?
(Fonte: Rai Vaticano, 30 Giugno 2010)
Disinformazione continua sulla Chiesa e su Papa Benedetto XVI
Già tre anni fa scrivemmo che la Chiesa guidata da Papa Benedetto non gode di buona stampa: continui travisamenti delle parole del Pontefice, interpretazioni arbitrarie del suo pensiero, mistificazioni del suo magistero e dei suoi atti di governo. Che le cose stiano ancora oggi così, è confermato dal modo con cui la maggior parte dei mass media ha riportato e commentato due episodi accaduti negli ultimi giorni. Dapprima la notizia della non decisione della Corte Suprema americana in merito alla questione della chiamata in causa della Santa Sede nei processi che vedono coinvolti sacerdoti accusati di pedofilia è stata trasformata tout court in una decisione contro il Vaticano, preannunciando - in molti casi non senza soddisfazione - la presenza alla sbarra del Papa e dei suoi collaboratori, che, non si sa come, sarebbero responsabili di fatti accaduti quarant'anni fa.
E poi - secondo episodio - è stato completamente stravolto il senso dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la celebrazione della festa dei santi Pietro e Paolo. A leggere certi giornali e a sentire certi tg, il Pontefice avrebbe mosso un rabbioso atto d'accusa contro la Chiesa stessa, legittimando così i giudizi che dipingono la barca di Pietro come una banda poco raccomandabile di gente dedita ai peggiori crimini che si possano immaginare. Ratzinger ha detto tutt'altro, ma tant'è che nelle rassegne stampa del giorno egli era diventato il grande inquisitore, il fustigatore della Chiesa matrigna.
Ora, questa sistematica disinformazione in merito alla vita della Chiesa e all'opera del Papa può certamente essere spiegata - ma non giustificata - dicendo che il moderno sistema dell'informazione si nutre di immediatezza, di battute d'agenzia subito rilanciate da internet, di titoli rumorosi a cui non corrispondono contenuti meditati e approfonditi.
Si può anche sostenere che molto spesso ai giornalisti manca il tempo materiale per andarsi a leggere un intero discorso pontificio (anche se l'omelia del 29 giugno, ad esempio, non era certo un testo lungo e complesso). Ancora, è possibile affermare che talvolta all'origine della mancata comprensione delle parole papali vi sia una disarmante ignoranza a proposito dei contenuti della dottrina cattolica e della storia ecclesiale, insomma che manchi l'abc per poter correttamente intendere le riflessioni di un fine teologo come Joseph Ratzinger. Può essere, e forse in alcuni casi è così...
Ma non si può negare, di fronte agli articoli pubblicati e ai servizi mandati in onda nei giorni scorsi dai cosiddetti «media laici», che alla base della cattiva informazione sulla Chiesa e su Benedetto XVI vi sia anche una ferma e pervicace volontà di mettere in cattiva luce il cattolicesimo in quanto tale, di fornire all'opinione pubblica un'immagine distorta e negativa dell'esperienza cristiana, di propagandare, come la cara e vecchia stampa massonica anticlericale, il falso per vero all'interno di una lotta ideologica senza quartiere contro una realtà che ha il solo torto di proporre agli uomini di ogni epoca una verità che è «segno di contraddizione» rispetto al pensiero dominante mondano e rispetto al modo solito di concepire i rapporti di potere e il potere stesso, politico, culturale o mediatico che sia. La drammatica testimonianza di monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino, pubblicata su Il Foglio del 29 giungo, è in tal senso emblematica e deve far riflettere. Dice Negri: «Chi oggi attacca la Chiesa ha uno scopo preciso: toglierle il diritto di educare. Nella mia diocesi, da quando i media enfatizzano la pedofilia nel clero, i bambini non vengono più portati negli oratori. A San Marino non abbiamo avuto mai nessuna accusa di pedofilia contro i ministri di Dio. Eppure tutti hanno paura».
Un conto, dunque, è dare le notizie e commentarle, magari in modo distratto o approssimativo, un altro conto è alimentare, come stanno facendo tanti mezzi d'informazione, una caccia alle streghe contro la Chiesa il cui unico obbiettivo è quello di muovere guerra al cattolicesimo, al Papa e infine agli stessi fedeli, ai quali viene più o meno esplicitamente suggerito - per usare un eufemismo - di non fidarsi più delle parrocchie, dei preti, degli oratori, dei catechisti, dei movimenti ecclesiali, come luoghi sani e sicuri in cui mandare i propri figli. Come già abbiamo detto altre volte, nessuno - Benedetto XVI in primis - nega la gravità dello scandalo pedofilia riguardante singoli ecclesiastici, e nemmeno la necessità di un'azione forte per fare chiarezza e contrastarlo, ma è pure evidente che esso viene usato da molti media per alimentare una campagna contro la Chiesa nel suo insieme che dovrebbe essere avversata da chiunque, laico o cristiano, ha a cuore la libertà di pensiero, di religione, di educazione e la sua piena attuazione nelle nostre società cosiddette «civili».
(Fonte: Gianteo Bordero, RagionPolitica, 30 giugno 2010)
E poi - secondo episodio - è stato completamente stravolto il senso dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la celebrazione della festa dei santi Pietro e Paolo. A leggere certi giornali e a sentire certi tg, il Pontefice avrebbe mosso un rabbioso atto d'accusa contro la Chiesa stessa, legittimando così i giudizi che dipingono la barca di Pietro come una banda poco raccomandabile di gente dedita ai peggiori crimini che si possano immaginare. Ratzinger ha detto tutt'altro, ma tant'è che nelle rassegne stampa del giorno egli era diventato il grande inquisitore, il fustigatore della Chiesa matrigna.
Ora, questa sistematica disinformazione in merito alla vita della Chiesa e all'opera del Papa può certamente essere spiegata - ma non giustificata - dicendo che il moderno sistema dell'informazione si nutre di immediatezza, di battute d'agenzia subito rilanciate da internet, di titoli rumorosi a cui non corrispondono contenuti meditati e approfonditi.
Si può anche sostenere che molto spesso ai giornalisti manca il tempo materiale per andarsi a leggere un intero discorso pontificio (anche se l'omelia del 29 giugno, ad esempio, non era certo un testo lungo e complesso). Ancora, è possibile affermare che talvolta all'origine della mancata comprensione delle parole papali vi sia una disarmante ignoranza a proposito dei contenuti della dottrina cattolica e della storia ecclesiale, insomma che manchi l'abc per poter correttamente intendere le riflessioni di un fine teologo come Joseph Ratzinger. Può essere, e forse in alcuni casi è così...
Ma non si può negare, di fronte agli articoli pubblicati e ai servizi mandati in onda nei giorni scorsi dai cosiddetti «media laici», che alla base della cattiva informazione sulla Chiesa e su Benedetto XVI vi sia anche una ferma e pervicace volontà di mettere in cattiva luce il cattolicesimo in quanto tale, di fornire all'opinione pubblica un'immagine distorta e negativa dell'esperienza cristiana, di propagandare, come la cara e vecchia stampa massonica anticlericale, il falso per vero all'interno di una lotta ideologica senza quartiere contro una realtà che ha il solo torto di proporre agli uomini di ogni epoca una verità che è «segno di contraddizione» rispetto al pensiero dominante mondano e rispetto al modo solito di concepire i rapporti di potere e il potere stesso, politico, culturale o mediatico che sia. La drammatica testimonianza di monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino, pubblicata su Il Foglio del 29 giungo, è in tal senso emblematica e deve far riflettere. Dice Negri: «Chi oggi attacca la Chiesa ha uno scopo preciso: toglierle il diritto di educare. Nella mia diocesi, da quando i media enfatizzano la pedofilia nel clero, i bambini non vengono più portati negli oratori. A San Marino non abbiamo avuto mai nessuna accusa di pedofilia contro i ministri di Dio. Eppure tutti hanno paura».
Un conto, dunque, è dare le notizie e commentarle, magari in modo distratto o approssimativo, un altro conto è alimentare, come stanno facendo tanti mezzi d'informazione, una caccia alle streghe contro la Chiesa il cui unico obbiettivo è quello di muovere guerra al cattolicesimo, al Papa e infine agli stessi fedeli, ai quali viene più o meno esplicitamente suggerito - per usare un eufemismo - di non fidarsi più delle parrocchie, dei preti, degli oratori, dei catechisti, dei movimenti ecclesiali, come luoghi sani e sicuri in cui mandare i propri figli. Come già abbiamo detto altre volte, nessuno - Benedetto XVI in primis - nega la gravità dello scandalo pedofilia riguardante singoli ecclesiastici, e nemmeno la necessità di un'azione forte per fare chiarezza e contrastarlo, ma è pure evidente che esso viene usato da molti media per alimentare una campagna contro la Chiesa nel suo insieme che dovrebbe essere avversata da chiunque, laico o cristiano, ha a cuore la libertà di pensiero, di religione, di educazione e la sua piena attuazione nelle nostre società cosiddette «civili».
(Fonte: Gianteo Bordero, RagionPolitica, 30 giugno 2010)
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