martedì 24 gennaio 2012

Umberto Eco: “Il cimitero di Praga”, una noia mortale

Lo so, arrivo in ritardo. Il fatto risale ormai a un paio di mesi fa. Ma dopo averci pensato su un po', ho deciso di rivelarlo. Ebbene sì, lo confesso: non sono riuscito a finire Il cimitero di Praga di Umberto Eco. Ce l'ho messa tutta, dopo essermi risolto di acquistarlo. Ho provato ad arrivare all'ultima riga, ma alla fine mi sono arreso alla trecentocinquantaseiesima pagina. Una sconfitta, per me, che difficilmente non finisco di leggere un libro. Mi era capitato con Baricco: dopo aver divorato Oceano mare - che avevo trovato a dir poco straordinario, uno dei migliori libri che avessi mai letto - preso dall'entusiasmo avevo provato a leggere City e Seta. Li ho abbandonati entrambi dopo una manciata di pagine. Una delusione totale.
Tornando all'ultimo Eco, l'argomento mi sembrava interessante. Campo d'azione il XIX secolo, location tra Torino, Palermo e Parigi, città in cui troveremo un falsario senza scrupoli; una satanista isterica; un abate che muore due volte; alcuni cadaveri in una fogna parigina; un garibaldino che si chiamava Ippolito Nievo, scomparso in mare nei pressi dello Stromboli; il falso bordereau di Dreyfus per l’ambasciata tedesca; la crescita graduale di quella falsificazione nota come I protocolli dei Savi Anziani di Sion; gesuiti che tramano contro i massoni; massoni, carbonari e mazziniani che strangolano i preti con le loro stesse budella; un Garibaldi artritico dalle gambe storte; i piani dei servizi segreti piemontesi, francesi, prussiani e russi; le stragi in una Parigi della Comune dove si mangiano i topi; orrendi e maleodoranti ritrovi per criminali che tra i fumi dell’assenzio pianificano esplosioni e rivolte di piazza; barbe finte, falsi notai, testamenti mendaci, confraternite diaboliche e messe nere.
Non c'è che dire, materiale di prim'ordine per un romanzo d’appendice di stile ottocentesco, tra l’altro illustrato come i feuilletons di quel tempo. Anzi, a dire il vero, di roba ce n'è fin troppa. Avrei dovuto sospettare, ma, pur con titubanza e dopo lunga riflessione, ho acquistato il libro. Per scoprire, mio malgrado, che i sospetti erano fondati, vista la difficoltà a star dietro a tutto, a seguire il protagonista, che fa cose che sono state veramente fatte, anche se lo scrittore gliene attribuisce molte probabilmente compiute da altri.
Troppi intorcinamenti narrativi, troppi inutili dettagli, troppe verbose divagazioni, troppe devastanti elucubrazioni che mettono a dura prova anche il lettore più paziente e attento. Così, non per doverosa solidarietà cameratesca, ma per convinzione, devo dire che mi trovo completamente d'accordo con quanto scritto dalla brava collega Silvia Guidi su «L'Osservatore Romano» del 13 ottobre: «Troppo difficile e raffinato, inaccessibile alla massa, a quel volgo profano che, da Orazio in poi, ogni intellettuale d’élite che si rispetti si vanta di odiare e tenere accuratamente a distanza? No, solo troppo noioso. Irrimediabilmente noioso. Talmente noioso da risultare illeggibile».
La mia non è una critica ai contenuti, sebbene qualcuno vi abbia letto uno strisciante antisemitismo; né una presa di posizione a priori contro un personaggio che non ha risparmiato, anche di recente, discutibili critiche al Papa. Ho letto alti libri di Eco, che non mi sono dispiaciuti, almeno non del tutto (a scanso di equivoci chiarisco che non ho nemmeno provato a leggere Il pendolo di Foucault). La mia è una critica al romanzo in quanto tale, a come è scritto. Condivido i giudizi della liberalprogressista «Süddeutsche Zeitung» e della liberalconservatrice «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Per il primo Il cimitero di Praga «è, nel migliore dei casi, un fallimento di alto livello, un noioso ammasso di inverosimiglianze grottesche». Mentre per il secondo «dopo le prime trecento pagine non si tratta più di un romanzo ma di uno schedario di persone, mappe stradali e bibliografia».
Niente di più vero. Del resto Eco è un fine intellettuale – illuminista e snob – che prima di tutto sembra voler compiacere se stesso di questa sua erudizione. Certamente nello scrivere questo romanzo lui si sarà divertito un mondo a dar sfoggio di enciclopedica erudizione, ma io mi sono annoiato da morire, perdendomi nei contorti meandri della sua ridondante scrittura. E mi pento di aver resistito così a lungo, sottraendo tempo a più piacevoli letture.
Insomma: se proprio volete regalare un libro, non regalate Il cimitero di Praga. A meno che non vogliate punire qualcuno. Con raffinata cattiveria.

(Fonte: Gaetano Vallini, Camera con vista, dicembre 2011)


Facebook: quei giovani che chattano di amore senza realtà

L’amore ai tempi di Facebook. Fosse amore! Invece è spesso sexting e coinvolge drammaticamente i più piccoli: parliamo di medie, ma anche elementari.
Il neologismo, dato dalla crasi fra sex e texting, racconta del fenomeno di inviare foto e testi sessualmente espliciti tramite i mezzi informatici. Sono i videofonini a far da padroni, quei minicomputer portatili che i ragazzi hanno in mano e che sono autosufficienti allo scopo: fanno foto e video, li caricano in rete, aggiungono frasi maliziose e rispondono ai contatti che chiedono di più.
La cronaca ne sta segnalando un numero crescente, con la Polizia Postale e delle Comunicazioni in prima linea ad identificare i relativi siti e a prendere provvedimenti sanzionatori e deterrenti. Da Catania hanno ritrovato un sito di ragazze adolescenti ritratte nude e in pose esplicite messo online da un intraprendente “amico” quattordicenne tramite il server della biblioteca comunale (nella speranza di non farsi identificare).
Una bambina laziale di dieci anni (ma i grandi non sapevano che era su FB?) ha invece postato su Facebook una sua foto osé scattata in bagno davanti allo specchio; pare sia stata visitata da molti prima che la polizia sia intervenuta ad oscurare la pagina.
Storie così, sotterranee e lontane dalla nostra visibilità, ce ne sono molte, probabilmente.
Tutto ciò ha a che fare col corpo, anzi col corpo pensato, prima che con la tecnologia.
Non possiamo non considerare, vista l’età, una componente fortemente imitativa di modelli proposti e a loro modo imposti dagli adulti. Ne è zeppa la tele, la rete, i giornali, le pubblicità nelle strade. È infatti proprio dei bambini voler crescere, pensarsi grandi, anche travestirsi: insomma fare un po’ di prove generali. I bambini indossano il cappello di papà con la stessa nonchalance con cui infilerebbero l’elmo di Achille e le bambine salgono ancora sui tacchi delle mamme per vedere come ci si sente.
Diventare grandi, oggi, per molti coincide col diventare sexy, usare il corpo solamente nella sua immagine per attrarre a sé. Una deriva narcisistica della cultura individuale e sociale che nega come il corpo sia molto di più della sua pura apparenza: se guidate dal pensiero le gambe sanno correre verso gli amici veri, le braccia stringere altri corpi in un abbraccio di riconoscenza, gli occhi scorrere sulle pagine di un libro che non riusciamo a lasciar lì, lo stomaco sa convertire in nutrimento il piacere di una cena insieme.
C’è sexting quando non c’è più il reale, quando il corpo viene virtualizzato, quando solo Photoshop sa davvero renderlo come dovrebbe essere. C’è sexting quando non ci sono amici, quando tutti possono vedere tutto perché non c’è più preferenza, non esiste più quell’intimità speciale che si accorda a chi se ne rende degno. C’è sexting quando il corpo sessuato non può che fare-imitare-suscitare-idolatrare “quello”, un atto dovuto e necessario da consumarsi all’istante, piuttosto che un atto libero e da darsi a suo tempo.
Un articolo de La Stampa a firma Giuseppe Bottero riporta un’interessante ricerca fatta da Ericsson e presentata all’ultimo CES di Las Vegas, la kermesse mondiale dell’elettronica: Amore e Facebook nella fascia 13-17 anni. Balza agli occhi come il corteggiamento, dopo un primo incontro dal vivo, avvenga in rete con messaggi e poke fino alla dichiarazione online certificata dal cambiamento di stato da “single” a “impegnato” per arrivare a “fidanzato”. Fino a diciassette anni esiste solo FB per queste faccende, da lì in poi si attivano anche le mail documentandoci come i diversi mezzi tecnologici hanno diverse età di fruizione ed utilizzo, modalità esse stesse fluttuanti nel tempo. Come dire che i ragazzi usano ciò che hanno a disposizione, bene o male dipende da loro così come dalle indicazioni che ricevono.
Sempre nella ricerca, i ragazzi hanno dichiarato che nel 41% rinuncerebbero a una vacanza pur di non doversi staccare dal web. Sembra enorme, e forse lo è, e ci dobbiamo interrogare al riguardo; ma quanti adulti si sentono “nudi” se escono di casa la mattina avendo dimenticato il cellulare sul tavolo della sala? Viviamo nello stesso errore.
Qualche mattina fa, vicino alla Stazione Centrale, in mezzo al viavai indaffarato della città mi sono imbattuto in un ragazzo che abbracciava una ragazza e la baciava teneramente stringendola a sé; le luci di una vetrina facevano da spotlight perfetto. Mi sono fermato un istante e me ne sono rallegrato. Riprendendo il cammino ho osservato che i ragazzi non si baciano più nelle strade, ma nemmeno nei cortili, negli androni delle case, negli angoli delle scuole. Con qualcosa dovranno pur aver sostituito il bacio, diventato così demodé. È probabilmente lo scambio dei corpi: nella sua forma carnale in un atto sempre più comandato, dovuto e anticipato o in quella virtuale, col sexting online.
Mi piace immaginare che i due della Stazione la sera abbiano anche chattato in Facebook, raccontandosi del contrattempo con un esame, di un vecchio amico ritrovato, del nuovo panino di Mac che spacca davvero, della prof di Italiano che è una tosta, dell’orario dell’appuntamento la mattina successiva; in questo caso la tecnologia sarebbe stata al servizio del loro amore, non sostitutiva. È anche questo l’amore buono – pleonastico dirlo – ai tempi di Facebook.

(Fonte: Luigi Ballerini, Il Sussidiario, 19 gennaio 2012)


“Il XIII Apostolo”: i furbetti della fiction che falsifica la Chiesa

È una produzione di genere fantasy, cioè costruita su eventi, situazioni, fatti e personaggi di pura fantasia. In quanto tale, si connota a priori come racconto poco attendibile e tantomeno credibile. Eppure l’uso sapiente e un po’ furbetto delle tecniche narrative ispirate alle logiche della verosimiglianza ne ha fatto un prodotto capace di riscuotere un discreto successo di pubblico e di scuotere la coscienza di più di uno spettatore.
Si tratta di “Il tredicesimo apostolo – Il prescelto”, nuova produzione in onda su Canale 5 (mercoledì ore 21.10) che ha per protagonisti Claudio Gioè e Claudia Pandolfi. Lui interpreta padre Gabriel Antinori, giovane prete e professore universitario di teologia che collabora con la Congregazione della Verità, un’istituzione ecclesiastica che indaga su eventi razionalmente inspiegabili. Lei fa la parte di Claudia Munari, psicologa dall’atteggiamento scettico, che crede più nelle potenzialità della mente umana che nel divino. Nelle ambizioni degli autori “la loro collaborazione creerà un’alchimia speciale, che può nascere soltanto dal seducente confronto tra razionalità e fede, tra scienza e spiritualità”. E i due “insieme scopriranno nuove prospettive per spiegare i misteri che incontreranno sul loro cammino”. Gabriel è quasi ossessionato dall’idea di “esplorare i confini fra scienza e fede studiando il mondo dei fenomeni paranormali”. Destinato a una brillante carriera ecclesiastica, si trova tormentato dalla scelta impossibile fra i voti cui ha giurato fedeltà e l’attrazione verso Claudia. In più, deve fare i conti con un passato inquietante, di cui non ha memoria ma che nasconde la chiave per comprendere il suo presente e le usare al meglio capacità paranormali grazie alle quali può andare al di là del confine tra la vita e la morte. Ad aggiungere ulteriore pepe e un po’ di suspense, c’è l’attività carbonara di un’organizzazione segreta che sta mettendo in atto un misterioso piano imperniato su una antica profezia.
Come si vede, ci sono tutti gli ingredienti del classico thriller in cui elementi verosimili infarciscono sapientemente una narrazione completamente fantastica, riuscendo a renderla efficace e accattivante per il pubblico di bocca buona. La miniserie è ispirata – molto liberamente – al libro Il tredicesimo apostolo di Michel Benoit (edizioni Piemme Bestseller), che ha per protagonista padre Nil, amico di padre Andrei, ucciso in circostanze oscure sul treno che lo conduceva a Parigi dal Vaticano, dove era stato convocato dalla Congregazione per la Fede in ragione delle sue ricerche per “svelare” l’enigma del tredicesimo apostolo. Seguendo le sue orme, padre Nil si mette in cerca della presunta verità su questo fantomatico personaggio. Nella produzione di Taodue per Canale 5 si spinge l’acceleratore sull’effetto che eventi dalle cause ignote o difficilmente spiegabili possono provocare nel telespettatore. Si racconta di bambini che levitano, di ragazze che lacrimano sangue, di strane visioni che anticipano il futuro.
Si guadagna così la curiosità del pubblico in cerca non tanto di risposte quanto di domande, sfruttando il filone del dei fenomeni paranormali che già in altre trasmissioni (“Vite straordinarie”, “Miracoli”) sono stati trattati con ambigui riferimenti alla Chiesa e al soprannaturale. L’idea di fondo dei produttori è che per conquistare il pubblico italiano più che la fantascienza serva la religione. La cultura cristiana è ricca di episodi spiegabili soltanto attraverso la fede o da interpretare secondo finalità esemplari. A questi temi attinge la sceneggiatura di “Il tredicesimo apostolo”, rimestando soprattutto nelle zone di confine fra realtà e verosimiglianza. A rendere ancora il tutto più intrigante, si aggiunge la tensione affettivo-sessuale fra Gabriel e Claudia, due anime tanto lontane quanto vicine, due opposti che si attraggono quasi inevitabilmente. Entrambi sono segnati da un passato con cui hanno un conto aperto e che li rende vulnerabili dal punto di vista personale, tanto quanto sono efficaci sotto il profilo professionale. Lui ha perso i genitori da bambino ed è stato cresciuto da mons. Antinori, uno zio che gli ha fatto da padre. Lei, nata da una madre giovane e da un padre non gradito ai nonni materni, è stata affidata alle cure di un collegio cattolico.
Il risultato è narrativamente spiazzante, anche in forza di un sapiente uso degli effetti speciali che le moderne tecnologie di ripresa e di trattamento delle immagini rendono sempre più spettacolari e ad alto impatto emotivo. Le forzature sono nel dare per certo l’incerto, nel presentare un’immagine di Chiesa rigida e integralista, nel confondere il piano della fede con quello della superstizione, nell’ammantare di tinte fosche anche il dettaglio apparentemente più insignificante. Il che induce, una volta di più, a inquadrare questa produzione per quello che è: pura fiction, ovvero finzione immaginifica su argomenti di facile presa popolare. Cercare una lettura più profonda e più coerente nei suoi contenuti e nelle modalità espressive scelte rischia di essere una forzatura alla ricerca di un’attendibilità che non ha senso pretendere da una simile produzione.
Resta l’amarezza per un’immagine di Chiesa, veicolata in questa fiction e in troppe altre produzioni contemporanee (non soltanto televisive), che è fortemente riduttiva e spesso evidentemente falsata, ma che purtroppo fa presa su un pubblico sempre più disorientato e sempre meno capace di discernimento critico. Le modalità narrative spettacolari, accattivanti e truffaldine al contempo, sono in questo senso delle aggravanti.

(Fonte: Marco Deriu, La bussola quotidiana, 19 gennaio 2012)


Costruire queste navi è immorale

È trascorsa più di una settimana dal disastro della motonave Concordia, incagliatasi tra gli scogli del fondale marino dell’isola del Giglio. Sono stati giorni di bilanci, di resoconti per ricostruire i minimi dettagli del disastro e individuare le responsabilità umane. Al di là del gravissimo e colpevole errore umano facilmente imputabile, questo disastro dimostra di fatto che la normativa europea sulla sicurezza a bordo di navi così gigantesche non è stata sufficiente per il banale motivo che il natante ospita troppe persone. Come è possibile evacuare in poche ore 4.000 o 5.000 persone? Con la metà delle scialuppe disponibili, perché l’altra metà caso mai sono inservibili a causa del ribaltamento della nave. Non sarebbe stato meglio prevedere degli scivoli? Che avrebbero consentito un’evacuazione più rapida e sicura.
Tanti sono gli interrogativi che emergono. Ma uno è di capitale importanza. Ed è a monte del disastro: progettare e costruire motonavi di questa capienza è eticamente accettabile? Sono imbarcazioni a misura d’uomo? Gestibili facilmente? La progettazione di queste navi è per l’uomo? Detto in altri termini: qual è la logica, la ratio che sottostà a tali progetti?
Certamente si tratta di navi pensate per far trascorrere il tempo, una o due settimane, in modo piacevole ai numerosissimi passeggeri. Ammettiamo anche che si tratti di viaggi di piacere e di gioco, tralasciando altri particolari censurabili. Ma qual è il vantaggio di concentrare in così pochi metri cubi migliaia di persone? Clienti-viaggiatori, personale di bordo e di servizio, con una densità per metro quadrato che supera quella di Hong-Kong o del comune italiano di Portici. Il vantaggio sicuro è l’abbattimento dei costi ordinari di gestione della nave, del personale e della traversata. Tutto però a discapito della sicurezza, della tutela dell’integrità fisica e della salute di chi è salito a bordo.
Queste gigantesche navi da crociera dimostrano ancora una volta che quando l’uomo ideatore, finanziatore, costruttore o proprietario, ha come obiettivo principale, se non esclusivo, la crescita esponenziale del profitto, allora non avrà alcuno scrupolo nel mettere a rischio l’esistenza fisica dei suoi simili. La ricerca del profitto fine a sé è contro l’uomo. Non solo contro i malcapitati clienti-viaggiatori, ma alla fine anche contro l’uomo che ha progettato, finanziato e costruito.
L’abilità umana che valuta, soppesa, delibera e comanda la scelta di un mezzo piuttosto che un altro si chiama prudenza. In particolare questa virtù pervade tutti gli ambiti delle azioni umane perché commisura e proporziona i mezzi che ho a disposizione con l’obiettivo che mi sono prefisso.
Ognuno di noi, se ha a cuore il buon vivere in comune, non potrà non avere come obiettivo fondamentale non solo il rispetto della propria persona e dell’altro, ma anche l’amore di amicizia e la solidarietà verso l’altro, altrimenti la convivenza civile degraderà in barbarie.
Ideare e finanziare progetti per la costruzione di grattacieli-natanti risponde all’obiettivo del profitto, e non alla tutela e al benessere della persona umana. È la stessa logica del progetto che è contraria all’uomo, e in particolare alla prudenza, mettendo gravemente a rischio la vita di migliaia di persone senza un motivo altrettanto grave.
Ammessa anche la colpevolezza del comandante della Concordia, la responsabilità prima risiede nella fase della progettazione e del relativo finanziamento. È in questa fase iniziale che ci sono stati l’errore e la colpa contrari all’uomo ed è da questa fase progettuale che l’errore e la colpa si sono estesi fino al disastro che è evidente a tutti.

(Fonte: Giorgio Maria Carbone, La bussola quotidiana, 23 gennaio 2012)


mercoledì 18 gennaio 2012

Perché "mamma" Rai sfrutta il Papa per far pagare il canone?

Per una volta gli strillatori di professione dell’Idv, stranamente non hanno stonato: prendendosela con gli spot sul canone messi in onda dalla Rai, hanno gridato allo scandalo per la strumentalizzazione dell’abbraccio di Giovanni Paolo II a pastori di fede diversa. Davvero curioso che siano loro a farlo, ma tant’è… degli “altri” gli unici a lamentarsi sono stati quelli dell’Api e la Garavaglia dalle file del Pd. La sequenza incriminata, nelle intenzioni degli autori ancora sconosciuti, serve a sottolineare che in Rai c’è tanto pluralismo e rispetto per tutte le fedi. E che quindi merita di essere sostenuta con il pagamento del canone.
Gli spot sono diversi, alludono allo sport, al sociale, all’informazione, all’educazione, all’intrattenimento di qualità. La voce è quella di uno speaker molto sentito nel doppiaggio di notissimi attori, il tono - tra l’enfatico e il commovente - sembra celebrare un’impresa semplicemente eroica e meritevole per tutto il servizio pubblico che fa. Ma spulciando qua e là tra Twitter e Facebook, spunta una “vox populi” tecnicamente inappuntabile da sembrare una critica di Aldo Grasso. Molti sostengono - a ragione - che “pare di vedere gli spot della Chiesa sull’8 per mille. Peccato che siano a favore di un'istituzione che all’educazione e alla solidarietà dedicherà si è no il 5% delle sue risorse”. Si tirano in ballo il solito Piero Angela - la vera unica riserva indiana di servizio pubblico - e persino il maestro Manzi: ma sono passati sessant’anni!
Anni fa per lo meno si cercava di fare dello spirito… ed era assai meglio. Così ci si rideva su e si pagava, ci si lasciava convincere che in fondo tutta quella roba costava meno di un caffè al giorno. Alla fine degli spot di oggi in rapida sequenza passano i nomi dei nuovi canali digitali, che in effetti contengono parecchie proposte interessanti… ma subito incalzano diversi cinguettii: “Bella roba, almeno prima in analogico si vedeva qualcosa”. E poi - altro che dulcis in fundo - in zona Cesarini c’è la clamorosa rottura di linguaggio, la definitiva caduta di stile: dopo aver ricordato che la tassa del canone è un dovere civile per ricambiare tanta dovizia di offerta, la voce da morbida si fa secca, a ricordare che quella tassa è anche un obbligo.
In definitiva ne viene fuori un minestrone mal congegnato e peggio cucinato. Si copiano malamente le campagne della Chiesa Cattolica, ci si prende troppo sul serio ignorando la superba quantità di schifezze mandate in onda da mattina a sera per scippare un po’ di audience alla tv commerciale, nel tanto goffo quanto inutile tentativo di gloriarsi di una tv che non c’è più (o al massimo è visibile ogni tanto a notte inoltrata).
La strumentalizzazione dell’immagine di Giovanni Paolo II non è che l’ultimo scivolone: dopo averci campato sopra per tanto tempo da vivo e da moribondo, si vede che anche da morto la Rai spera di cavarci qualcosa. Questo, dalla cattolica direttora generale, tanto intima con alte gerarchie vaticane, non ce lo saremmo mai aspettato. Si vede che è proprio vero, come è successo a diversi presidenti, consiglieri, direttori generali, che una volta arrivati al settimo piano di Viale Mazzini si perde spesso la cognizione della realtà, per non dire la testa.
Peccato che sia poi dalle scelte concrete, come questa davvero risibile, modesta, pasticciata campagna a favore del canone, che si capisce se si è in grado di dirigere un’azienda così complessa in un momento così complesso: vox populi docet. E per una volta siamo pure costretti a essere d’accordo con quelli dell’Idv: bel risultato, cara vecchia Rai. Ti abbiamo sempre perdonato tanto, ma questo è davvero troppo!

(Fonte: Maestro Yoda, Il Sussidiario, 11 gennaio 2012)


Posso scegliere. E allora scelgo

Scelgo di non andare a Milano. Di non pagare il biglietto d’ingresso al Teatro Parenti.
Scelgo di non vedere la messa in scena delle feci di Castellucci (che meraviglia la polisemicità, le sfumature della lingua italiana!). Di non sentirne il fetore.
Scelgo che pazienza se mi dicono che non sono al passo con i tempi e nemmeno un’esperto di teatro d’avanguardia, o iperrealista. Non voglio naufragare nella realtà che il regista definisce “scatologica” (dal greco tç skòr, genitivo sktçv, che significa “escremento”, più lçgov, “pensiero, ragionamento”).
Contento lui di gettare merda su un giovane, un vecchio, il palcoscenico, la realtà, gli uomini e il loro Dio. Contenti gli allocchi di spettatori che per vederla ed odorarla, quella merda, pagano anche.
A me non interessa. Nel senso letterale del termine, non mi interessa (“inter – esse”, esserci dentro), quella merda. Ne sto volentieri fuori.
Meglio delle fogne il mare, anzi l’oceano della compassione, che c’è, grazie a Dio. C’è. Ma non finisce mai sotto i riflettori – e sarebbe interessante cominciassimo a chiederci perché. E neanche “recensita”, la compassione, dalle firme che sui giornali contano.
Anche Madre Teresa di Calcutta si è occupata di “scariche irrefrenabili di dissenteria”. Lei e tanti come lei. L’hanno fatto e lo fanno in silenzio, quotidianamente, senza montarci su uno spettacolo, senza lucrare, senza farsi pubblicità. Lo fanno gratuitamente, perché un essere umano accudito con amore ritrova la sua dignità.
Nella sua «Casa per i morenti abbandonati», vicino al tempio della dea Kalì (che simboleggia morte e distruzione), raccoglieva con le sue suore i poveri in fin di vita che trovava sui marciapiedi della metropoli, soli, da tutti abbandonati. «Qui possono fare una morte da uomini», diceva «sentirsi amati da qualcuno».
Posso scegliere. Allora scelgo, di fronte alla decadenza del corpo, in scena rappresentata da “scariche irrefrenabili di dissenteria”, lo sguardo di Madre Teresa e dei tanti come lei. Nell’uomo e nella donna, nel bambino e nel vecchio che stanno pulendo sanno che è di Cristo che si prendono cura.
Il padre e il figlio della performance di Castellucci raccontano l’umiliazione profonda della persona, della realtà, della quotidianità. E poi rabbia, frustrazione, debolezza, impotenza, disagio, malessere… Non c’è scampo. Non c’è via di fuga per nessuno di coloro che entrano in scena. Sommersi dalla realtà “scatologica”, in quel pantano e nel suo lezzo restano imprigionati. Loro, creature, e pure il Creatore che dileggiano, rabbiosi e infelici, trascinandolo con sé nel mare magnum della fogna fetente.
Posso scegliere. E allora scelgo.
Al posto del liquame nero che tutto copre e svilisce, deturpandolo, scelgo il cappottino rosso della bambina che, nel film “Schindler’s list” cattura irresistibilmente lo sguardo e commuove fino alle lacrime, ricordandoci che gli uomini non sono numeri, ma esseri unici e irripetibili.
Nelle scene in bianco e nero, nella confusione di vittime e carnefici, al ghetto di Cracovia, quel puntino rosso che non ha scampo, seguito con commozione dagli occhi impotenti di Schindler e di tutti noi, ci rammenta l’obbrobrio di un’umanità calpestata. Ed è grido di rivolta, perché non è la devastazione ciò a cui aspira il cuore dell’uomo, è la bellezza: spiraglio che sempre conduce al vero e al bene.
Posso scegliere. E allora scelgo.
Nel disfacimento che sembra, contagioso, divorare ogni cosa, scelgo la madre di Cecilia, uscita dalla penna e dal cuore di Manzoni. È una questione di sguardi. Sempre.
Di fronte al dolore della Storia e dell’uomo. Di fronte alla guerra, alla povertà, alla malattia. È una questione di sguardi. Posso scegliere. Scelgo lo sguardo della madre di Cecilia. Questo.
«Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de'volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete”. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così”.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri”. Poi, voltatasi di nuovo al monatto, “voi”, disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola”.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
Posso scegliere. E allora scelgo.
Dentro la sofferenza, dentro la devastazione, scelgo chi si commuove per l’uomo. Scelgo la pietà. Scelgo esseri umani che si prendono cura di altri esseri umani.
Scelgo - e desidero per me - lo sguardo di Cristo: “pupilla d’aquila, solo compagno sapiente”.

(Fonte: Luisella Saro, Cultura cattolica, 14 gennaio 2012)


Lo spettacolo blasfemo di Castellucci. Lettera di p. Giovanni Cavalcoli al santo padre Benedetto XVI

Beatissimo Padre, siamo un gruppo di fedeli che vuole esprimere a Vostra Santità solidarietà e rinnovata fedeltà come risposta all’indegno e blasfemo spettacolo teatrale “Il concetto del volto del Figlio di Dio” di Romeo Castellucci, programmato a Milano per la fine del corrente mese.
Si tratta infatti, come Ella avrà già saputo, di un’opera, già rappresentata in Francia, gravemente offensiva della Persona del Nostro Divin Salvatore Gesù Cristo, con evidente ripercussione ai danni della libertà religiosa, dell’ordine sociale, dei minori, della dignità dell’arte e del buon costume, valori sanciti e promossi dalla Costituzione della Repubblica Italiana, un gesto che pertanto sembra configurare gli estremi di un reato passibile di sanzione penale a norma delle leggi dello Stato.
Ci addolora inoltre in modo particolare la consapevolezza che questo inqualificabile atto di empietà colpisca pure, benché indirettamente, la venerabile e da noi amata Persona di Vostra Santità, Primate d’Italia, Rappresentante dell’intero mondo cattolico, Successore di Pietro, Vescovo di Roma, Vicario di Cristo, anzi, come si esprimeva la Santa Senese, “dolce Cristo in terra”.
Ci pare evidente, altresì, venerato Padre, a proposito di tale incresciosissimo avvenimento, che non si tratta di un fenomeno casuale, isolato e senza radici, ma bensì di una crescente ostilità nei confronti del Cristianesimo che si sta diffondendo nel mondo, nonché di un sintomo ed effetto di un disagio e di una crisi spirituali profondi e diffusi ormai da decenni anche in Italia, in parte anche per una mancata o malintesa applicazione del Concilio Vaticano II.
Vostra Santità con zelo infaticabile ed alta sapienza, appoggiato da molti buoni Pastori e Teologi, si prodiga ogni giorno nell’insegnamento della verità, ma purtroppo non sono poche le forze che “remano contro” e disattendono, a volte anche gravemente, le aspettative della Santità Vostra. Questo contrasto tra il Vostro insegnamento e le forze contrarie a Cristo, manifeste e nascoste, è notato dal Popolo di Dio amante della verità e della coerenza del vivere cristiano, ed è causa di sconcerto, di confusione e di angosciati interrogativi.
“Chi semina vento - dice il saggio proverbio popolare - raccoglie tempesta”: ed infatti è proprio quello che succede a causa di questi seminatori di falsità, ostinatamente sordi agli insegnamenti del Papa ed anzi con essi in contrasto, liberi di diffondere i loro errori senza che essi vengano contrastati.
Episodi come quelli del Castellucci sono resi possibili non solo dagli attacchi della cosiddetta “cristianofobia”, ma anche da gravi vuoti e carenze dottrinali ed educative non dovutamente eliminati da parte di chi di dovere. Pensiamo in modo particolare allo scandalo subito dai bambini, nei confronti del quale il Signore ha parole di estrema severità.
Il caso Castellucci è un ulteriore campanello d’allarme, se ce ne fosse bisogno, che invita tutti, compreso ogni uomo di buona volontà, a stringerci attorno al Successore di Pietro e all’intero Collegio Episcopale unito al Papa, al quale Cristo ha affidato la guida del suo Gregge.
Noi, grazie alla guida illuminata di Vostra Santità e dei buoni Vescovi, sappiamo riconoscere i lupi travestiti da agnelli. Siamo tuttavia preoccupati per coloro che, come il Castellucci, cercano di trarre vantaggio da una situazione nella quale si fa desiderare una maggiore vigilanza da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche. Temiamo inoltre per lo scandalo dei “pusilli” non sufficientemente protetti e messi in guardia.
Da parte nostra, pertanto, ci confermiamo senza alcuna esitazione, certi così di seguire Cristo, nella fedeltà a Vostra Santità, ricordandoLa nelle nostre preghiere a Maria Madre della Chiesa e Sede della Sapienza, mentre invochiamo su di noi e sui nostri cari il prezioso beneficio dell’Apostolica Benedizione. P.Giovanni Cavalcoli, OP, Teologo di Bologna

(Fonte: Riscossa Cristiana, 11 gennaio 2012)


Il Volto imbrattato

C’è davvero poco di artistico nell’opera intitolata “Sul concetto di Volto nel figlio di Dio” del regista e sceneggiatore Romeo Castellucci, che si terrà al Teatro Parenti di Milano dal 24 al 28 gennaio prossimo. Disgustosa la scenografia, ma ancor più disgustoso il contenuto blasfemo della rappresentazione. La scena si svolge in una stanza bianca e immacolata in cui un anziano incontinente guarda la televisione ad alto volume. Ad accudire quel vecchio ci pensa un altro personaggio, il figlio, il cui compito si traduce in una sorta di fatica di Sisifo. Infatti, ogni volta che si concludono le operazioni di pulizia del corpo del padre, una nuova scarica di dissenteria vanifica i gesti compiuti dal figlio, costringendolo a ricominciare da capo. Si tratta di un’opera iperrealista destinata a colpire i sensi dello spettatore, non solo la vista e l’udito, ma anche l’olfatto, poiché ogni volta che l’anziano padre evacua, si spande per la sala un odore acre e fastidioso. Su tutta la scena domina la riproduzione gigantesca di un quadro rinascimentale raffigurante il volto di Gesù – il celebre Salvator Mundi di Antonello da Messina –, volto che nel finale viene imbrattato di liquame, e si squarcia per lasciare in evidenza una frase che rappresenta la provocazione del regista: “You are not my shepherd” (Tu non sei il mio pastore).
Definire un’oscenità irriverente quest’opera non è semplice moralismo. E per essa non può valere l’idea, che va purtroppo diffondendosi anche in alcuni ambienti cattolici, per cui è meglio tacere per non pubblicizzare ulteriormente una rappresentazione blasfema.
In realtà il Volto di Cristo è ciò che di più caro ha la tradizione cristiana. Per quel Volto uomini come il pakistano Shahbaz Batthi hanno rischiato la vita e subito il martirio. Con quale coraggio, quindi, i cattolici italiani possono tacere di fronte ad una simile ingiuria. Con quale coraggio possono declamare in chiesa il salmo 28, «Il Tuo volto Signore io cerco», e poi restare inerti e silenziosi, per misere ragioni di opportunistica convenienza, dinnanzi al Suo oltraggio? Se il volto di nostra madre, o della persona più cara che abbiamo, fosse insozzato con escrementi umani in un’opera teatrale, noi faremmo di tutto per impedirlo. E la legge sarebbe dalla nostra parte. A proposito di legge, mi pare che il nostro ordinamento giuridico preveda ancora la fattispecie penale di cui all’art. 404, secondo comma. Si tratta del reato di offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose, recentemente modificato dall’art. 8 della L. 24 febbraio 2006, n. 85, il quale prevede che «chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibili o imbratta cose che formino oggetto di culto o siano consacrate al culto o siano destinate necessariamente all'esercizio del culto è punito con la reclusione fino a due anni». Poiché non mi risulta sia stata ancora abrogata l’obbligatorietà dell’azione penale, sarebbe interessante verificare se qualche Procuratore della Repubblica avvertisse il dovere di intervenire sulla vicenda. Magari in via cautelativa, impedendo così la commissione di un reato. Non si può neppure immaginare cosa sarebbe successo se al posto della gigantografia del Cristo di Antonello da Messina, ci fosse stata quella del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Probabilmente sarebbe già intervenuta l’Arma dei Carabinieri. Ma Romeo Castellucci, che nel 2002 è stato nominato Chevalier des Arts et des Lettres dal Ministro della Cultura della Laica Repubblica Francese, conosce bene la differenza tra Stato e Chiesa, e sa altrettanto bene, quindi, chi può colpire impunemente. Vive la laïcité!

(Fonte: Gianfranco Amato, Cultura Cattolica, 10 gennaio 2012)


L'incompatibilità della pratica Yoga con la fede in Cristo

Che cosa è lo yoga? La parola yoga significa "unione", l'obiettivo dello yoga è quello di unire il propria transitorio (temporaneo) sè, "JIVA" con l'infinito "Brahman", la sostanza spirituale, impersonale, che è tutt'uno con la natura e il cosmo, la sostanza divina impersonale che "pervade, avvolge e alla base di tutto".
Lo yoga ha le sue radici nelle Upanishad indù, risalente a 1.000 prima di Cristo, ed ha come fine quello di "unire la luce dentro di te con la luce del Brahman". "L'assoluto è all'interno di uno stesso", dice il Chandogya Upanishad, "TAT Tuam ASI" o "sei tu quello". Il Divino dimora in ognuno di noi attraverso il suo rappresentante microcosmico, il sé individuale chiamato "Jiva".
Nella Bhagavad Gita, il Signore Krishna descrive il Jiva come "la mia porzione eterna", e "la gioia dello Yoga viene allo yogi che è uno con Brahman".
Nel 150 d.C., lo yogi Patanjali ha spiegato gli otto modi che conducono le pratiche Yoga dall'ignoranza all'illuminazione.
Tali otto vie sono come una scala ascendente:
l'autocontrollo (yama), l'osservanza religiosa (niyama), le posture (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama), il controllo dei sensi (pratyahara), la concentrazione (dharana), la contemplazione profonda (dhyana), la illuminazione (samadhi).
È interessante notare, qui, che le posture e gli esercizi di respirazione, fondamentali nello yoga più diffuso in Occidente, rappresentano i punti 3 e 4 di questo vero e proprio cammino di unione con il Brahman!
Lo yoga non è solo un elaborato sistema di esercizi fisici, ma costituisce una vera e propria disciplina spirituale con la pretesa di condurre l'anima al Samadhi, l'unione totale con l'essere divino.
Samadhi è lo stato in cui il naturale e il divino diventano uno, l'uomo e Dio diventato uno senza alcuna differenza (Brad Scott. "Esercizio o pratica religiosa? Yoga: Che cosa mai l'insegnante ha insegnato in quella classe di Hatha Yoga" in "Expositor Watchman", Vol . 18, No. 2, 2001).
Una tale visione è radicalmente contraria al cristianesimo che distingue chiaramente tra Creatore e creatura, Dio e uomo.
Il nome "yoga" porta già in sé il riferimento esplicito ad un mondo lontano dal cristianesimo, ad un pensiero molto elaborato e distante dal Vangelo. Dire semplicemente "faccio yoga per il benessere del mio corpo", oppure "che male c'è a fare yoga, tanto è solo esercizio fisico" è un grave errore, una leggerezza intollerabile, perché di fatto più o meno inconsapevolmente lo yogi aderisce ad una vera e propria pratica religiosa.
Diffidate perciò da tutti coloro che nelle vostre parrocchie o nei luoghi in cui lavorate, pur presentandosi come cattolici vi parlano di yoga e vi fanno discorsi sul riprendere consapevolezza dell'essere scintille divine, oppure vi tirano in ballo grandi dottori della Chiesa come Tersa d'Avila o Giovanni della Croce per giustificare le loro astruse teorie. Dietro l'uso di termini ambigui si nasconde la menzogna.
Chi accetta lo yoga e le filosofie ad esso affini, accetta l'emanazionismo ed il panteismo, ed in alcuni casi, quando ad esempio si fa ricorso ai mantra, perfino alla divinazione.
La filosofia e la pratica dello yoga si basano sulla convinzione che l'uomo e Dio sono uno. Si insegna a concentrarsi su se stessi invece che sul vero Dio. Esso incoraggia i suoi partecipanti a cercare le risposte ai problemi della vita e le domande entro la propria mente e coscienza, invece di trovare soluzioni nella Parola di Dio attraverso lo Spirito Santo come è nel Cristianesimo.
Così si lascia sicuramente la porta aperta all'inganno del nemico di Dio.

(Fonte: Sorga Dio, 5 gennaio 2012)


Sulla cittadinanza italiana

Prima delle feste natalizie, era già intervenuto il Presidente della Repubblica. Andando un po’ oltre i propri compiti istituzionali, aveva lanciato un messaggio per riconoscere la cittadinanza italiana a tutti i bambini stranieri nati in Italia, cambiando l’attuale legge. Per la verità la proposta era stata accolta in modo non molto entusiasta dal Presidente Monti, forse consapevole delle diverse reazioni che avrebbe suscitato nell’anomala maggioranza bipartisan che lo sostiene.
Eppure oggi il ministro Riccardi, per la cooperazione internazionale e l’integrazione, rilancia la proposta: “ritengo che si debbano riprendere i lavori in materia di cittadinanza almeno per affrontare il problema dei bambini nati in Italia figli di stranieri che sono qui da un certo periodo. I minorenni figli di cittadini stranieri – ha precisato – sono il 7,5% della popolazione scolastica”.
Chi mai potrebbe non essere d’accordo con il fatto di considerare italiani i bambini figli di immigrati che vanno a scuola con i nostri figli e che imparano le stesse cose? Chi mai avrebbe tanto poco cuore da negare anche a loro di essere cittadini italiani, in omaggio tra l’altro al 150° anniversario dell’unità d’Italia?
Eppure, vorrei qui spiegare perché questa proposta ha ben poca utilità pratica, è uno specchietto per le allodole, per raccogliere facili consensi, e non migliorerebbe la situazione degli stranieri, anzi creerebbe diversi problemi.
Intanto vorrei sottolineare che la cittadinanza è una qualifica, uno status giuridico importante, è – diciamolo pure – un valore aggiunto, perché a essa sono collegati una serie di diritti (ad esempio, elettorato attivo e passivo), che si aggiungono ai diritti umani che spettano a tutte le persone in quanto tali. Essa rappresenta la caratteristica peculiare di una data comunità di persone legate da una storia e una tradizione ben precise. Alla base della cittadinanza c’è l’idea di fedeltà al paese e alle proprie leggi, come ben sottolinea l’art. 54 della Costituzione, “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”. In sostanza, alla base della cittadinanza c’è l’idea di appartenenza.
La prima riflessione è dunque che la cittadinanza non è un semplice titolo di carta, che può essere distribuito come un volantino propagandistico. Mi pare che oggi sia spesso uno sport nazionale quello di fare a gara a chi concede con più larghezza la possibilità di diventare italiani: bastano 5 anni di permanenza in Italia, basta nascere in Italia, diamo l’elettorato e il voto anche senza cittadinanza… tanto siamo tutti uguali. Certo, ma ciò non vuol dire che dobbiamo essere anche tutti italiani.
L’egualitarismo universale, l’indistinzione a priori ha solo provocato molti danni nella storia dell’uomo, così come oggi ne sta provocando la globalizzazione. In questo caso, la svendita della cittadinanza svilisce i riferimenti culturali insiti nel fatto di essere cittadino, e si considera così poco importante essere italiani che si concede la cittadinanza indipendentemente dal fatto che si desideri o meno far parte del nostro paese.
In secondo luogo, mi pare che quello sollevato sia un falso problema.
Già con l’attuale legge 91/1992, i bambini che nascono in Italia e che rimangono a vivere in Italia, possono diventare italiani al compimento del diciottesimo anno di età. A chi giova far acquisire loro la cittadinanza durante la minore età, quando non possono ancora esercitare i diritti a essa connessi? Giova solo a chi voglia dimostrarsi a tutti i costi paladino dell’accoglienza (a parole).
E’ invece importante mantenere il fatto che per ricevere la cittadinanza ci debba essere una richiesta, cioè una scelta ben precisa, dimostrando così di aver maturato una vera partecipazione al destino del paese in cui ci si è trovati a nascere e a vivere. E questo può avvenire solo con il raggiungimento della maggiore età, l’età in cui anche ai cittadini italiani è concesso di poter esercitare il proprio status in modo attivo.
Regalando la cittadinanza agli inconsapevoli bambini stranieri, le cui famiglie magari non la vogliono o comunque vogliono mantenere la propria, non si farebbe un buon servizio. Tanto più che quei bambini godono comunque – ovviamente – di tutti gli stessi diritti e servizi dei minorenni italiani.
Per quanto riguarda poi i minori stranieri di seconda generazione, che – si dice – sono quindi perfettamente integrati in Italia e sono più italiani degli italiani, ci si chiede per quale motivo debba riconoscersi loro la cittadinanza, quando il proprio nucleo familiare, pur in Italia da lungo tempo, non ha mai chiesto di diventare italiano. Si ricorda, infatti, che la cittadinanza si acquisisce anche da parte di qualunque straniero che sia in Italia da almeno dieci anni. Una volta acquisita la cittadinanza o dal padre o dalla madre, il bambino nato in Italia è italiano.
Se quindi permangono situazioni di minori stranieri nati da genitori stranieri a loro volta nati in Italia, è perché questi ultimi non hanno mai sentito la necessità e non hanno mai voluto diventare italiani.
E’ poi ovvio che la sorte dei minori stranieri è legata a quella del loro nucleo familiare.
Se il nucleo familiare è stabile e integrato in Italia da almeno un decennio, la cittadinanza è acquisibile in ogni momento e – come sopra visto – non ha molto senso riconoscerla “prima” al minore nato in Italia.
Se il nucleo familiare non è stabile o è da poco tempo in Italia, riconoscere la cittadinanza al minore nato in Italia, comporterebbe grossissimi problemi. Se i genitori non hanno il permesso di soggiorno o hanno perso i requisiti per mantenerlo, potrebbe verificarsi l’ipotesi di una possibile divisione della famiglia, con l’allontanamento dei genitori del minore ormai italiano. Oppure dovrebbe riconoscersi automaticamente il permesso di soggiorno anche ai genitori del minore italiano, in virtù del principio di unità familiare, pur in mancanza dei requisiti minimi per poter vivere, lavorare e mantenersi, con tutto ciò che ne consegue. Ciò tra l’altro alimenterebbe la speranza di venire in Italia al solo scopo di far nascere il proprio figlio per poi acquisire il permesso di soggiorno.
Un conto è aiutare e sostenere chi comunque si trova in Italia in queste difficili e precarie situazioni di vita e di lavoro, indipendentemente dal fatto che si tratti di italiani o di stranieri.
Un conto è il fatto che lo Stato stesso, con le proprie leggi, crei e faciliti l’incrementarsi e l’aggravarsi di queste situazioni, come sarebbe se si riconoscesse la cittadinanza a tutti i minori nati in Italia.
Se può aiutare il riferimento esterofilo, visto che sembra che non ne possiamo mai fare a meno, non mi risulta che in nessuno degli stati europei a noi vicini un bambino acquisisca automaticamente la cittadinanza.
Sostenere che il problema dell’integrazione si risolva attraverso la concessione di uno status giuridico è fuorviante e ideologico. Altri problemi incombono.
Se proprio si vuol porre mano a riformare la procedura sulla cittadinanza si proceda invece a eliminare le lunghezze e le pesantezze burocratiche che frenano le richieste di tante persone che pur vorrebbero veramente diventare cittadini italiani. Ogni ufficio sparso per la penisola è un’autorità a sé e richiede documenti i più disparati, con il rischio di dover spesso rifare tutto daccapo per un errore di certificazione.
I tempi sono biblici e spesso per delle inezie l’iter viene sospeso, con interminabili fasi istruttorie per decidere se è tutto a posto o meno.
Se si ha veramente a cuore il problema della cittadinanza, mi pare che più realisticamente debba porsi mano a questo aspetto della cosa, anche se meno appariscente e meno politicamente corretto.

(Fonte: Stefano Spinelli, Cultura Cattolica, 13 gennaio 2012)


mercoledì 11 gennaio 2012

L’ultima trovata europeistica: nutriamoci di insetti

L’Unione Europea spende oltre tre milioni di euro in messaggi pubblicitari per convincerci a nutrirci di insetti. Quei tre milioni sono minuscola parte dell’enorme prelievo fiscale di cui usufruiscono tutti coloro che a qualsiasi titolo lavorano al servizio dell’Unione Europea, i cui dirigenti nessun europeo ha mai votato e in buona parte nessun europeo nemmeno conosce: sono quindi soldi nostri. Sono una parte di quel più del 50% dei nostri introiti che ci vengono tolti tramite le tasse.
Di questo immenso prelievo continentale, in un momento di crisi spietata come l’attuale, di cui l’Italia è vittima sacrificale d’onore, fra un numero in costante aumento di persone disperate che si suicidano perché non reggono la pressione fiscale, con la disoccupazione giovanile arrivata al 30%, veniamo a sapere che 3 milioni di euro vengono spesi in questo modo.
Eppure, la notizia potrebbe avere un lato positivo. Quale? Evidentemente non quello nutrizionistico: chi ha commentato in un sito tale notizia, si è messo a disquisire se sia vero che gli insetti possano produrre vantaggi in tale campo: come se i fautori di questa immonda follia possano essere mai presi seriamente in considerazione nelle loro spiegazioni “scientifico-nutrizioniste”. Come se fossero “compagni che sbagliano”… Come se avessero delle buone intenzioni ma che producono risultati confusi, e quindi andassero corretti nei loro errori.
No, non si tratta di errore: essi non sbagliano affatto, e sanno perfettamente di non sbagliare, nel senso che essi vogliono, rincorrono, agiscono per ottenere, un mondo infernale. Questo è l’obiettivo: tutte le chiacchiere nutrizionistiche che si inventano servono solo allo scopo: quando le dicono o le scrivono, immagino le loro risate, dirette soprattutto verso quelle anime candide, meglio se cattolici, che si mettono pure a rispondergli “nutrizionisticamente”.
Lo scopo è la distruzione della civiltà, non solo cristiana ed europea, ma ormai anche della civiltà in sé. Lo scopo è farci tornare tutti selvaggi, macchine manovrabili senza più né coscienza individuale né dignità, per creare un “mondo diverso”, la “nuova era”, nelle intenzioni secolare e vecchia come il cucco, ma pur sempre meta suprema di tutti i rivoluzionari di tutti i tempi e luoghi.
Il movente di costoro non è l’amore per il bene o per il prossimo. È l’odio per la civiltà e per l’ordine e la bellezza del creato. È l’odio per l’uomo. E per il suo Creatore.
Dove potrebbe stare allora il vantaggio? Beh, voglio essere ottimista e pensare che forse, dinanzi a questa ripugnantissima e vomitevole follia, ennesima palese dimostrazione di un piano mondiale sovversivo che tutti ci sovrasta, le persone, gli italiani, gli europei, i cattolici, comincino ad aprire gli occhi. Comincino a riflettere e a smetterla di “archiviare” nella loro coscienza, giorno dopo giorno, anno dopo anno, vita dopo vita, qualsiasi cosa accada, venga decisa, come una sorta di “barzelletta”, di stranezza, o, al massimo, come un nuovo strambo mezzo finalizzato al capitalismo internazionale. Qui siamo già molto oltre il capitalismo internazionale. Qui siamo al “1984” che si avvicina ogni giorno di più e in maniera sempre più bestiale.
Spero che qualcuno cominci ad arrabbiarsi (e non solo tutti coloro che lavorano e vivono nel settore delle carni e della ristorazione, la cui rovina è ormai prossima): non solo e non tanto con misteriosi eurocrati che mai potremmo andare a pescare, ma con chi dà potere a questi eurocrati.
Infatti, i veri responsabili dell’oscuro tramonto della nostra civiltà, non sono tanto gli ideatori e gli “operai” di questo tramonto, in fondo numericamente limitati e in buona parte sconosciuti; sono invece i complici, tutti coloro che “appaiono”, in quanto eletti ai parlamenti, o alla presidenza delle repubbliche, in quanto nominati direttori dei grandi giornali e delle grandi televisioni e case editrici, che avallano tutto questo e molto di più. Tutti coloro che svolgono il compito di rendere possibili e accettabili ai più le mostruose follie di chi non appare a nessuno ma decide per tutti.
Il giorno in cui, dopo qualche anno di pressante campagna mediatica mondiale (quella che appunto è appena cominciata), ci imporrano di credere che ogni buon cittadino con la coscienza retta deve abbandonare la carne animale che mangiamo da millenni per cedere a quella degli insetti, vedremo il Napolitano di turno, anziano, distinto e equilibrato e applauditissimo presidente della Repubblica, farsi garante in nome di un bene superiore (magari la sconfitta della fame collettiva in cui saremo nel frattempo precipitati) di tale infame pratica; vedremo il Corrado Augias di turno vomitare veleno contro chi si oppone, il Fabio Fazio di turno intervistare solo chi aderisce, l’Umberto Benigni di turno innalzare a cavallo la bandiera del regno degli insetti, il Crozza di turno ridicolizzare chi protesta, il Di Pietro di turno invocare la galera per chi manifesta contro, il Pierluigi Battista di turno scrivere elzeviri di fuoco contro chi non è d’accordo a farsi “democratizzare” (come quella del 4 gennaio contro gli ungheresi), il Maurizio Costanzo di turno mettere alla berlina coloro a cui fanno schifo gli insetti, la ministra di turno Vittoria Michela Brambilla inneggiare vittoria a nome del progresso animalista, il ministro Riccardi di turno (con la sua potentissima Sant’Egidio di turno) che ci dirà che i veri cattolici non razzisti sono quelli che si mangiano gli insetti per lasciare la carne agli immigrati, i magistrati di punta in piena azione per mettere in galera chi ancora si ricorda il sapore della carne; ci sarà anche il Pierferdinando Casini di turno, anche lui bellissimo e sposatissimo con miliardaria di turno, dal viso e dai modi rassicurantissimi di uomo serio e dedito al bene comune, dirci, mentre vacanzeggia (e mangia a volontà) in qualche resort alle Maldive da 2000 euro al giorno, che mangiare gli insetti è segno di responsabilità civile e soprattutto moderazione (fra gli applausi dei Fini, Bocchino e Perina di turno che ci ricordano quanto fanatici possano essere “quelli di destra” che non mangiano gli insetti)?; e, infine, immancabilmente, vedremo i preti di frontiera, i teologi d’avanguardia e qualche illuminato vescovo di turno lanciare invettive contro quei cattolici che si rifiutano di aprirsi ai “segni dei tempi” in nome di un egoismo capitalistico tardo a morire.
Come faranno? Beh, tanto per fare un esempio, così come hanno fatto finora con l’Unione Europea, “convincendoci” che è un bene necessario, che questo bene necessario necessita a sua volta di membri non eletti da alcuno che abbiano poteri enormi e sempre crescenti su tutti gli europei, che gli Stati nazionali perdano gradualmente ma inesorabilmente la loro sovranità nazionale, che era necessario (e sicuramente vantaggioso per tutti) distruggere le secolari monete nazionali in nome di un conio “nuovo di zecca” inventato a tavolino, che è necessario divenire tutti miserabili per mantenere questo conio inventato e dimostrarsi “responsabili e moderati”, che è necessario mandare a casa i governi democraticamente eletti (e con essi la democrazia e la sovranità popolare, divinità dogmatiche della modernità, che ci hanno iniettato nel sangue fin dalla nascita – sempre in contrapposizione al precedente mondo della civiltà cristiana, quello dei “secoli bui” anteriori al mitico 1789 – e che oggi a quanto pare occorre buttare via) e piazzare uomini scelti da loro per garantire il bene comune degli europei, fanciulli immatura e incapaci di scegliersi liberamente il proprio futuro e i propri governanti…
C’è bisogno di continuare? Faranno nello stesso modo in cui hanno fatto a convincerci che in natura non esistono solo 2 sessi, ma 23 sfumature di “gender”; che oggi la famiglia non è più composta da padre, madre e figli, ma genitore 1, genitore 2 e figli, senza “sessismo” discriminatore; nello stesso modo in cui ci stanno convincendo che il crocifisso mette paura ai bambini, e quindi va eliminato; o che è giusto non offendere Maometto o qualsivoglia religione (altrimenti cadiamo nel reato abominevole di razzismo) ma si può vilipendere, bestemmiare e profanare tutto ciò che di più sacro hanno i cattolici, e il cattolico che protesta si rende complice di lesa laicità dello Stato.
C’è bisogno di continuare? C’è bisogno di dire che alla peggio, qualora l’Ungheria di turno non fosse d’accordo a eliminare la carne e imporre gli insetti sulle tavole degli ungheresi, arriverebbero immediatamente due arcinoti fratelli, il dottor “Default” e mister “Spread”, a far cambiare idea ai quei razzisti degli ungheresi?
Spero di no. Spero che non ci sia bisogno di continuare. Spero, veramente, che tutti, a partire da chi si professa cattolico e ha a cuore il mantenimento della nostra civiltà e il futuro dei nostri figli e nipoti, inizino ad aprire gli occhi. Che non si continui a deridere amaramente chi li invita a riflettere sull’abisso immondo che ci attende se le cose non cambiano, che non si continui ad abdicare alla propria intelligenza e responsabilità accettando passivamente ogni follia ci sta accadendo intorno; che non si continui, soprattutto, a trovare ridicole spiegazioni economicistiche per trovare un falso senso a ciò che ha tutt’altro senso.
È giunto il momento di accettare la realtà dei fatti quale essa è: esiste un progetto, ad altissimi livelli, portato avanti da istituzioni e associazioni di cui poco o nulla sappiamo (è pure nocivo parlarne, si fa la figura dei “complottisti” un po’ disadattati) che mira a sovvertire non solo l’economia e la politica mondiali, ma lo stesso ordine morale e perfino la stessa “humanitas” dell’uomo come finora è sempre stato.
Qui non si tratta più neanche di distruggere solo gli Stati nazionali per la repubblica universale, le economie nazionali e locali per il mondialismo, la famiglia tradizionale per l’anti-società della a-moralità assoluta; qui si vuole distruggere i cardini stessi del mondo: genderismo, animalismo, bestialità (se ne parla sempre di più), insettismo, e tutto quello che verrà (“escrementismo”?), sono solo lo strumento di turno per arrivare gradatamente a ciò, per creare qualcosa di sovversivo e folle, un uomo mai esistito, ma creato e voluto a tavolino (come l’euro…) rispondente alle esigenze del secolare piano di distruzione della Rivoluzione anticristiana e antiumana.
Non esiste un complotto? E come è possibile, solo per dire l’ultima di una secolare e progressiva serie di inimmaginabili mutazioni di vita e costumi, che gli esponenti politici della UE ci possano proporre di mangiare insetti? Sono tutti impazziti contemporaneamente? O forse devono, volenti o nolenti che siano, rispondere a poteri e logiche più grandi di loro?
Siamo troppo pessimisti? Il mio è un travisamento di un ingenuo disadattato per colpa delle “esagerazioni bruxellesi”? Sorrisetto ironico e “composto” da “cattolici adulti”? Risata smodata da laici impertinenti? E allora accettate pure i 23 gender, diventate genitore 1-2-3 (come preferite), difendete il diritto degli omosessuali ad adottare bambini, magari quello dei pedofili a esternare il loro “gender” purché in maniera “pacifica” (progetto di legge presentato al Parlamento Europeo dal Partito Radicale Transnazionale), dialogate sui vantaggi della bestialità, rinunciate per sempre alla bistecca, al pollo arrosto e alla mortadella e mangiatevi un bello scarafaggio alla griglia. Così sì che sarete adeguati ai “segni dei tempi”, veri “cattolici adulti” che non si chiudono al nuovo e al dialogo, o laici progressisti che guardano con ottimismo all’orizzonte delle nuove democrazie.
Io, da parte mia, proprio perché possiedo l’unico vero possibile e razionale ottimismo, quello del cattolico che è perfettamente cosciente del mondo in cui vive, della micidiale lotta fra il bene e il male che si sta sviluppando dinanzi ai nostri occhi, che non si nasconde il mostruoso livello di abiezione verso cui stiamo precipitando, ma che sa bene anzitutto che tanto, alla fine di questa lotta epocale, senso di tutta la storia umana, la sconfitta è riservata al principe del mondo e la vittoria al Re dei Re, Signore dell’Universo, ebbene, vedo la speranza dei primi segni di ravvedimento di molti e mi auguro che un numero sempre maggiore di uomini e donne inizino a indignarsi veramente, inizino a trovare il coraggio di dire no a ciò che accade, inizino quella ribellione, pacifica e legale ovviamente, ma ferma, costante e irresistibile, che ci conduca tutti a cambiare strada e a ricreare i presupposti per un mondo ordinato secondo natura e soprattutto secondo la legge e l’amore di Dio.
Io, spero negli insetti… Perché, se accettiamo anche gli insetti, allora ci può attendere solo l’arrivo delle sette piaghe d’Egitto. Ma noi, a differenza degli antichi egizi, abbiamo i mezzi di ordine spirituale e materiale per evitare la catastrofe preparata dai nostri nuovi padroni e riprenderci in mano la nostra civiltà, la nostra bellezza, il futuro della vita nostra e delle generazioni che verranno. Hanno anch’esse diritto alla gioia tutta italiana e cattolica di mangiarsi una bella bistecca alla fiorentina.

(Fonte: Massimo Viglione, Corrispondenza Romana, 7 gennaio 2012)


Mancuso? È anche un cattivo filosofo

Come già tutti sanno, Vito Mancuso si definisce un teologo cattolico eterodosso, impegnato nel tentativo di una rifondazione radicale della fede cattolica che dovrebbe essere – a suo giudizio – riproposta su basi razionali nuove, più adeguate alle esigenze della coscienza dell’uomo contemporaneo. Il suo libro più recente si intitola “Io e Dio”.
Dal punto di vista teologico è già stato autorevolmente spiegato, a proposito di Mancuso, che «se il teologo non accetta i dogmi della fede cattolica e si adopera piuttosto per ri-formularli, cambiarne il senso o addirittura negarli apertamente, allora egli abusa del suo titolo scientifico, la sua non è vera teologia. Chiunque può liberamente esporre le sue teorie su Dio e sulla religione, ma se uno non assume i dogmi come verità rivelata, non si deve presentare come un teologo ma come un filosofo» (Cfr. Antonio Livi, Mancuso, il falso teologo, L’Apologeta, 3 novembre 2011)
Ciò premesso intendo di seguito criticare alcune delle argomentazioni proposte da Mancuso nella prima parte del suo testo (in particolare nel capitolo III), quella di matrice più evidentemente filosofica, incentrata sulla critica alle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio.
Come noto, alcuni grandi filosofi (per esempio Tommaso d’Aquino) e il Magistero della Chiesa Cattolica affermano che esistono alcune verità naturali che sono conoscibili con certezza dalla ragione umana anche senza bisogno di fare un atto di fede: sono delle verità universali che fungono da preambula fidei, ossia da premesse razionali dell’atto di fede. La prima e fondamentale tra queste verità di ragione naturale è appunto l’esistenza di Dio.
Mancuso intende criticare questa posizione; a suo avviso gli argomenti elaborati nella plurisecolare tradizione filosofica e teologica (che egli prende in considerazione attraverso una sintetica rassegna) non avrebbero lo statuto di dimostrazioni, ossia di evidenze razionali, ma solo quello di argomentazioni persuasive (in quanto tali non immuni dal rischio di essere il prodotto di «ingenuità, proiezioni, ignoranza, paura di vivere» (p. 96). Attribuire alle argomentazioni razionali lo statuto di “prove” significherebbe infatti pretendere di esaurire il mistero di Dio, riducendolo alla misura delle capacità di conoscenza della ragione umana.
Inoltre – sostiene Mancuso nell’ultima parte del capitolo, quella costruita sul dialogo immaginario con il Cardinale Ruini – nessuna delle prove proposte dalla tradizione è in grado di provare l’esistenza del Dio personale, il Dio della fede cattolica.
In sintesi, la critica di Mancuso riguarda un duplice piano: quello epistemico (lo statuto epistemologico delle prove) e quello dei contenuti, incentrato sul motivo dell’incommensurabilità di Dio e della non dimostrabilità dei suoi attribuiti.
Per quanto riguarda il primo aspetto Mancuso espressamente si rifà alla posizione antimetafisica kantiana. E lo fa, sia detto per inciso, ripetendo gli errori di Kant: ad esempio nella lettura che Mancuso fa della quinta via di Tommaso, una lettura che ne misconosce le differenze di impostazione rispetto alla prova teleologica criticata da Kant. Come noto, infatti, Tommaso inferisce l’esistenza di un principio ordinatore non dalla constatazione del finalismo dell’universo nel suo complesso («dall’ordine finalizzato nella natura», p. 87), una constatazione che potrebbe essere il frutto di una lettura aprioristica da parte della mente umana, come ha supposto Kant, ma dall’osservazione del comportamento finalizzato di alcuni particolari enti non dotati di ragione, il che rende – paradossalmente – più “scientifica” e “moderna” la posizione del filosofo e teologo medievale rispetto a quella del filosofo illuminista che Mancuso vorrebbe riproporre.
Ma è soprattutto il motivo dell’incommensurabilità di Dio che rappresenta il punto più debole dell’argomentazione di Mancuso, in cui viene sovrapposto il discorso sull’essenza o natura di Dio a quello sull’esistenza di Dio, come se si trattasse di un'unica verità di ragione.
Certamente la ragione umana non è in grado di “comprendere” Dio, ossia di rivelarne l’essenza ultima, che rimane un mistero inconoscibile per l’intelletto umano.
Però ciò non priva la ragione umana della capacità di comprendere alcune verità su Dio: prima fra tutte quella relativa alla sua esistenza.
Attraverso l’argomentazione razionale (che procede dall’osservazione del mondo od anche dalla riflessione su se stessi) è infatti possibile inferire l’esistenza necessaria di un principio ordinatore dell’universo, di una causa prima all’origine del mutamento, di un sommo bene perfetto, causa di ogni perfezione, di un ente necessario, di una causa incausata, e così via.
Certamente queste conclusioni razionali non conducono alla definitiva chiarificazione intellettuale dell’essenza di Dio, all’esaurimento del Mistero.
Proprio per questo il Magistero della Chiesa distingue (ed afferma) entrambe le verità: quella della conoscibilità razionale dell’esistenza di Dio e quella dell’inconoscibilità della sua essenza, che trascende il contenuto di ogni intelligenza.
Le due verità, distinte ma compossibili e complementari, sono contrapposte da Mancuso come contraddittorie: egli oppone dunque la via autentica della mistica fondata sul riconoscimento dell’ineffabilità di Dio – come si evince dal riferimento a S. Giovanni della Croce (p. 34) – alle esorbitanti pretese «autoritarie» seguite dalla teologia tradizionale dei preambula fidei. Dimostrare l’esistenza di Dio significherebbe cioè, secondo Mancuso, pretendere di comprendere Dio, esaurirne il Mistero.
È vero piuttosto il contrario di quanto afferma l’autore: una prassi mistica presuppone la verità di una previa metafisica sottostante. La stessa intuizione della sovraeminenza di Dio, della sua essenziale trascendenza rispetto a qualunque realtà creata (da cui si sviluppa il modo di argomentare caratteristico della teologia negativa) presuppone infatti la previa intuizione di una qualche verità sul Mistero di Dio (in primis: la certezza della sua esistenza), sebbene il linguaggio umano possa poi incontrare dei limiti insuperabili nell’espressione del contenuto positivo di tali intuizioni.
Per contro, una mistica totalmente slegata dal riconoscimento di alcune salde verità razionali rischia di declinare nel puro irrazionalismo (e faticherebbe a distinguersi da tante forme di sincretismo così diffuse anche oggi, nell’ambito di quel variegato fenomeno di rinascita religiosa contemporanea di cui lo stesso autore non omette di criticare l’essenziale ambiguità).
Infine, anche l’ulteriore obiezione secondo cui le prove tradizionali non conducono all’affermazione dell’esistenza di un Dio personale non pare concludente: infatti la dimostrazione dell’esistenza di un Dio personale richiede ulteriori passaggi argomentativi (che Mancuso omette di proporre) desunti però sempre a partire da quelle prime verità fondamentali rappresentate dai preambula.
Mancuso sembra riconoscere «tracce dell’esistenza di un Dio personale» (p. 105) soltanto all’interno delle argomentazioni delle prove antropologiche e, in particolare, fra le argomentazioni della prova etica, che afferma che l’esistenza di un fondamento ultimo del valore morale e dell’obbligazione è un’esigenza razionale; ma si tratta, secondo Mancuso di «tracce così nascoste che nessuno le vede» (p. 105).
Anche questa obiezione non sembra cogliere nel segno: essa muove infatti sul piano dell’efficacia pratica della dimostrazione, ma non può inficiarne il valore teoretico.
Un’ultima considerazione relativa al dato del successo editoriale che i saggi di Mancuso riscuotono. Da un lato, diversamente da molti teologi e filosofi che si compiacciono di scrivere in modo oscuro e/o che non sono capaci di fare divulgazione e parlano solo agli addetti ai lavori, Mancuso si esprime invece in forma chiara e di agevole lettura, il che rappresenta un’indiscutibile qualità. Dall’altro il suo successo credo possa essere un dato positivo: testimonia il fatto che anche in quest’epoca contemporanea di conclamata crisi della filosofia la posizione delle domande ultime corrisponde ad un’ineliminabile esigenza di ricerca della ragione umana. Che non è moderna, antica o contemporanea, bensì semplicemente ragione universale.

(Fonte: Cristiano Cannizzaro, La bussola quotidiana, 6 gennaio 2012)


2012, tutte le bugie sui vaticini dei maya

Rispondiamo allo sciocchezzaio che impazza, secondo cui il 2012 sarebbe l’anno della fine del mondo, consigliando il bel libro di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari “2012 - Catastrofismo e fine dei tempi” (Piemme 2010).
È un antidoto necessario perché le sciocchezze continuano, anche su quotidiani apparentemente «seri». La storia, tutta la storia finirà il 21 dicembre 2012, si ripete, lo assicurano i Maya. Vale la pena allora di chiederci che cosa c’è – eventualmente – di vero in questa storia che sta facendo ancora una volta il giro del mondo.
Per rispondere con una parola sola: nulla. Cominciamo con una risposta di buon senso, che però nei discorsi di questi giorni va completamente perduta. Ammettiamo – ma vedremo in seguito che non è così – che gli antichi Maya abbiano davvero previsto la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. Questo ci direbbe qualcosa sui Maya, ma nulla sulla fine del mondo. La cultura e le credenze dei Maya non sono “la verità”, ed è strano che qualcuno oggi le prenda come guida infallibile. Per esempio, i Maya credevano che gli dei avessero bisogno di sacrifici umani, un elemento assolutamente centrale nella loro cultura Credevano anche che migliaia di sacrifici umani avrebbero reso i loro regni invincibili ed eterni. Non è successo: i regni Maya sono stati spazzati via dalla conquista spagnola. Elementi non secondari, anzi fondamentali della visione del mondo dei Maya si sono rivelati falsi.
Inoltre, della fine del mondo nel 2012 nessuno aveva sentito parlare fino agli anni d’oro del dopo-1968 e del New Age. Antropologi accademici hanno visitato in lungo e in largo le comunità dei discendenti dei Maya in Messico e in Guatemala e non hanno trovato nessuna particolare aspettativa relativa al 2012. E si tratta di comunità che conservano moltissimi elementi della cultura Maya precolombiana.
La storia della fine del mondo nel 2012 è stata sostanzialmente inventata da un teorico del New Age nato in Messico ma cittadino statunitense, José Argüelles (1939-2011), a partire dagli anni 1970 e illustrata particolarmente nel suo volume del 1987 “The Mayan Factor” (in italiano “Il fattore maya”). Argüelles – che è morto il 23 marzo 2011, così che non vedrà se nel 2012 la “sua” profezia si realizza o meno – aveva ottenuto un dottorato e tenuto corsi in varie università, ma la sua materia era la storia dell’arte, non l’archeologia o la cultura Maya. Inoltre egli ha sempre francamente dichiarato che molte sue teorie derivavano da “visioni” che aveva avuto sotto l’influsso dell’LSD. Neppure un solo specialista accademico dei Maya ha mai preso sul serio Argüelles o le sue teorie sul 2012, e “ciarlatano” non è neppure la più severa fra le molte espressioni sgradevoli che la comunità accademica ha usato nei suoi confronti.
Il libro di Argüelles parte da un dato vero. Per i Maya questo mondo è iniziato a una data che può essere calcolata. Varie fonti danno diverse versioni, ma la data più diffusa corrisponde all’anno 3114 a.C. del nostro calendario. Da questa data iniziano cicli di anni chiamati b’ak’tun. Molti testi Maya parlano di venti b’ak’tun, dopo di che finirà questo mondo o ciclo. In una data che corrisponde nel nostro calendario a uno dei tre giorni fra il 21 e il 23 dicembre 2012 secondo questi testi Maya finirà il tredicesimo b’ak’tun e inizierà il quattordicesimo.
Senonché la fine di un b’ak’tun per i Maya non è la fine del mondo come la intende l’Occidente cristiano. Anzi la fine di un b’ak’tun per i Maya è occasione di celebrazioni e feste. Le iscrizioni e altre fonti che parlano di avvenimenti rilevanti in occasione della fine del tredicesimo b’ak’tun, nel nostro dicembre 2012, fanno riferimento appunto a celebrazioni.
Argüelles e i suoi sostenitori insistono sul Monumento 6 del sito archeologico Maya di Tortuguero, in Messico, che in corrispondenza della fine del tredicesimo b’ak’tun allude in termini peraltro confusi alla discesa di divinità e al fatto che “verrà il nero”. I commentatori accademici delle iscrizioni di Tortuguero pensano che si faccia riferimento anche qui a future cerimonie. In ogni caso, se si guarda al complesso dei testi di Tortuguero, si trovano riferimenti anche ai b’ak’tun dal quattordicesimo al ventesimo, per cui è certo che i Maya dell’epoca di questi monumenti (secolo VII d.C.) non pensavano affatto che il mondo sarebbe finito nel nostro 2012, cioè alla fine del tredicesimo b’ak’tun.
E non è neppure certo che i Maya pensassero a una fine del mondo con la fine del ventesimo b’ak’tun (da cui comunque ci separa qualche millennio), perché prima del nostro mondo ce n’era stato un altro, e potrebbe dunque trattarsi della fine di un mondo e non del mondo. E rimane anche vero che delle credenze dei Maya noi abbiamo un quadro incompleto e frammentario.
Non bisogna poi confondere le conoscenze astronomiche dei Maya, abbastanza avanzate, con le loro credenze religiose o magiche. Un calendario costruito sulla base di osservazioni astronomiche più o meno precise ci dice “quando” secondo un certo modo di calcolo termina un ciclo. Ma “che cosa” succede alla fine di questo ciclo non ce lo dice l’astronomia ma la religione o l’astrologia.
Il problema, però, è che non è neppure certo che i Maya avessero un’astrologia. Tutto quello che si può dire è che è possibile – ma non certo – che alcuni segni trovati in diversi codici e principalmente in quello di Parigi, acquisito dalla Biblioteca Nazionale della capitale francese nel 1832 – mettano in corrispondenza animali e costellazioni, creando una sorta di zodiaco, forse con significato astrologico. Siamo dunque in presenza di una congettura sull'esistenza di tredici simboli che potrebbero formare uno zodiaco e che secondo l'interpretazione più autorevole sono: due tipi diversi di uccelli (ma è difficile identificare quali siano), uno squalo o pesce “xoc”, uno scorpione, una tartaruga, un serpente a sonagli, un serpente più grande ma non identificato quanto alla specie, uno scheletro, un pipistrello, più due animali che corrispondono a zone del codice (di Parigi) troppo danneggiate per un'identificazione certa. Dal momento che non è neppure certo che esistesse un’astrologia Maya, ogni congettura su “previsioni” collegate a questa astrologia è del tutto insensata.

Ma, se si tratta di congetture insensate, perché ci sono oltre un milione di siti Internet, centinaia di libri e trasmissioni televisive quotidiane che le diffondono? Diversi studiosi accademici dei Maya, piuttosto infastiditi, hanno parlato di una pura speculazione commerciale. È servita a lanciare diversi film, alcuni dei quali dal punto di vista meramente cinematografico sono anche ben fatti e gradevoli, purché li si consideri appunto dei semplici film e non si pretenda di ricavarne profezie autentiche.
Il sociologo forse può anche dire due cose in più. La prima riguarda l’enorme impatto della “popular culture” – romanzi, film, televisione – su un’opinione pubblica dove ormai è la vita a imitare l’arte e non viceversa e la fiction è considerata fonte d’informazioni sulla realtà (“Il Codice da Vinci” insegna). L’ultima puntata, del 2002, della popolarissima e storica serie televisiva X-Files annunciava l’invasione degli alieni proprio per il 21 dicembre 2012. Serie TV e film hanno una grandissima influenza su un pubblico “postmoderno”, dove i confini fra finzione e realtà si sono fatti davvero molto labili.

La seconda osservazione parte da un fatto: l’idea della profezia Maya lanciata da Argüelles era parte integrante del New Age. Oggi il New Age è in crisi, ma ci sono molti che – per le più svariate ragioni – hanno interesse a rilanciarlo. La diffusione della presunta profezia sul 2012 è stata ed è una grande occasione di rilancio del New Age.
Per noi cattolici l’occasione potrebbe essere buona per parlare male del New Age. Ma non solo. Papa Benedetto XVI nell’enciclica del 2007 Spe salvi lamenta che nella Chiesa non si parli abbastanza della fine del mondo, perché la prospettiva della fine della storia e del Giudizio Universale, dove i sacrifici dei buoni e la malizia dei malvagi emergeranno agli occhi di tutti e saranno definitivamente giudicati, illumina l’intera storia umana. La Chiesa, però, ha sempre condannato il millenarismo, che pretende di detenere un sapere dettagliato, che va oltre la Sacra Scrittura e l’insegnamento del Magistero, sul “come” della fine del mondo e pensa di poterne determinare anche il “quando”. La Chiesa annuncia la parola del Vangelo di Matteo (25, 13): “Non sapete né il giorno né l’ora”. E chi afferma di saperli s’inganna, e inganna chi gli presta fede.

(Fonte: Massimo Introvigne, La bussola quotidiana, 5 gennaio 2012)