lunedì 17 marzo 2014

Il papa emerito prega, ma anche consiglia. Ecco come

Nella sua ultima intervista, quella data al "Corriere della Sera", papa Francesco ha rivelato di aver concordato assieme a Joseph Ratzinger un ruolo attivo per il "papa emerito", senza precedenti nella storia della Chiesa: «Il papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione. Non eravamo abituati. Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa deve accadere per il papa emerito. Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile, non vuole disturbare. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa. […] Qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in una abbazia benedettina lontano dal Vaticano. Io ho pensato ai nonni che con la loro sapienza, i loro consigli danno forza alla famiglia e non meritano di finire in una casa di riposo».
Detto e fatto. Pochi giorni dopo è uscito un libro con uno scritto inedito di Benedetto XVI. E non si tratta di un testo qualsiasi. Ma di un giudizio che il penultimo dei papi – regnante il suo successore – pronuncia sul suo predecessore Giovanni Paolo II. Un vero e proprio giudizio pubblico non solo sulla persona, ma sulle linee portanti di quel memorabile pontificato.
Con sottolineature che non possono non essere messe a confronto con la situazione attuale della Chiesa.
Alcuni media, nel dar notizia di questo scritto del "papa emerito", hanno messo in evidenza il passaggio nel quale egli racconta come nella prima fase del pontificato di Karol Wojtyla si affrontò la questione della teologia della liberazione.
Ma di passaggi significativi ve ne sono anche altri. In particolare due.
Il primo è là dove Benedetto XVI dice quali sono state a suo giudizio le encicliche più importanti di Giovanni Paolo II.
Su quattordici encicliche, egli indica le seguenti:
- la "Redemptor hominis" del 1979, in cui papa Wojtyla "offre la sua personale sintesi della fede cristiana", che oggi "può essere di grande aiuto a tutti quelli che sono in ricerca";
- la "Redemptoris missio" del 1987, che "mette in risalto l'importanza permanente del compito missionario della Chiesa";
- la "Evangelium vitae" del 1995, che "sviluppa uno dei temi fondamentali dell'intero pontificato di Giovanni Paolo II: la dignità intangibile della vita umana, sia dal primo istante del concepimento";
- la "Fides et ratio" del 1998, che "offre una nuova visione del rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica".
Ma a queste quattro encicliche, richiamate in poche righe ciascuna, Benedetto XVI ne aggiunge a sorpresa un'altra, alla quale dedica una pagina intera, riprodotta più sotto.
È la "Veritatis splendor" del 1993, sui fondamenti della morale. L'enciclica forse più trascurata e inapplicata tra tutte quelle di Giovanni Paolo II, ma che Ratzinger dice doveroso studiare e assimilare oggi.
Un secondo passaggio significativo è quello in cui Benedetto XVI parla della dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000.
La "Dominus Iesus" – scrive Ratzinger – "riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica". Eppure è stato il documento più contestato di quel pontificato, dentro e fuori la Chiesa cattolica.
Per diminuirne l'autorità, gli oppositori usavano attribuire la paternità della "Dominus Jesus" al solo prefetto della congregazione per la dottrina della fede, senza una reale approvazione da parte del papa.
Ebbene, è proprio la piena concordia tra lui e Giovanni Paolo II nel pubblicare la "Dominus Iesus" che il "papa emerito" oggi rivendica. Rivelando l'inedito retroscena che si può leggere più sotto.
Di papa Wojtyla, Benedetto XVI ammira "il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile".
E aggiunge: «Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di prim'ordine della santità».
Un giudizio, questo, molto simile a quello espresso già su Paolo VI dallo stesso Ratzinger, nell'omelia funebre da lui pronunciata il 10 agosto 1978 come arcivescovo di Monaco: «Un papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. È per questo che ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall’insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni».
Ecco dunque qui di seguito i due passaggi del testo di Benedetto XVI sopra menzionati:
SULLA "VERITATIS SPLENDOR":
L'enciclica sui problemi morali "Veritatis splendor" ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità.
La costituzione del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all'orientamento all'epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico.
Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo. Poi andò affermandosi l'opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede.
Scomparve così, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell'efficacia, è meglio o peggio.
Il grande compito che Giovanni Paolo II si diede in quell'enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell'antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura.
Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere.
SULLA "DOMINUS JESUS:
Tra i documenti su vari aspetti dell'ecumenismo, quello che suscitò le maggiori reazioni fu la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000, che riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica. […]
A fronte del turbine che si era sviluppato intorno alla "Dominus Iesus", Giovanni Paolo II mi disse che all'Angelus intendeva difendere inequivocabilmente il documento.
Mi invitò a scrivere un testo per l'Angelus che fosse, per così dire, a tenuta stagna e non consentisse alcuna interpretazione diversa. Doveva emergere in modo del tutto inequivocabile che egli approvava il documento incondizionatamente.
Preparai dunque un breve discorso; non intendevo, però, essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il papa mi chiese ancora una volta: "È veramente chiaro a sufficienza?". Io risposi di sì.
Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il papa aveva prudentemente preso le distanze da quel testo.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 17 marzo 2014)

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