La produzione teologica di Kasper è costituita da saggi di argomento prevalentemente ecclesiologico e pastorale; l’edizione completa delle sue opere, programmata da Herder Verlag, prevede finora diciotto volumi. La prima osservazione da fare a riguardo di queste opere e di quelle che si sono poi aggiunte negli ultimi anni, è che in esse risulta evidente la mancanza di una corretta metodologia teologica.
Ogni singola tesi sostenuta da Kasper (che raramente ha i caratteri dell’originalità, visto che l’autore si accontenta di ripetere quanto già sostenuto dai suoi maestri, a cominciare da Karl Rahner), se analizzata da un punto di vista rigorosamente epistemologico, appare priva di quella consistenza epistemica che caratterizza la vera teologia; le sue ricerche teologiche non sono (e nemmeno si propongono di essere) un’ipotesi di interpretazione scientifica della fede professata dalla Chiesa attraverso la Sacra Scrittura, le formule dogmatiche e la liturgia: sono piuttosto espressioni di una ambigua “filosofia religiosa”, termine con il quale io designo quell’arbitraria interpretazione delle nozioni religiose proprie del cristianesimo che ha prodotto nell’Ottocento i grandi sistemi dell’idealismo storicistico, come quello di Hegel e quello di Schelling[2]. A questi sistemi di pensiero - che epistemologicamente sono da considerare esclusivamente filosofici ma che nell’ambiente luterano nel quale sono sorti sono considerati anche teologici - si sono ispirati nel Novecento e si ispirano oggi molti teologi cattolici, tra i quali proprio Walter Kasper, il quale si è formato presso quella scuola di Tubinga che, come egli stesso scrive compiaciuto in una sua opera prima,
«ha avviato un rinnovamento della teologia e dell’intero cattolicesimo tedesco nell’incontro con Schelling ed Hegel» [3],
il cosiddetto «incontro con Schelling ed Hegel», che i teologi appartenenti alla scuola di Tubinga hanno ritenuto necessario per “rinnovare” la teologia e con essa l’intera Chiesa “conciliare”, è in realtà un incomprensibile regresso alle posizioni ideologiche di quei teologi (non a caso anch’essi tedeschi) che nell’Ottocento erano stati condannati dalla Santa Sede proprio per l’adozione in teologia delle categorie filosofiche dell’idealismo hegeliano e schellinghiano. Il fatto che nel Novecento degli studiosi cattolici abbiano voluto combattere la loro battaglia contro la tradizione metafisica in teologia mediante la sistematica ripresa di una filosofia religiosa nata in ambiente luterano e sempre criticata in ambiente cattolico, non ha altra spiegazione plausibile se non la loro sudditanza psicologica nei confronti dei teologi luterani, la cui egemonia nella cultura tedesca è sempre stata assoluta (si consideri che persino la critica di Hegel svolta da Kierkegaard è sorta ed è rimasta all’interno della cultura religiosa luterana). Tra Hegel e Schelling, Kasper predilige quest’ultimo, chiamandolo «gigante solitario» [4] e mostrandosi affascinato dal carattere gnostico delle sue ricerche filosofico-religiose, senza avvertire alcun imbarazzo di fronte al loro esito chiaramente panteistico [5]. La ripresa di temi specificamente schellinghiani da parte di Kasper mi fa pensare all’analoga scelta metodologica operata da un altro teologo cattolico tedesco, Klaus Hemmerle, alla cui scuola si è formato poi in Italia Piero Coda, entrambi analiticamente da me criticati per via del metodo teologico, radicalmente incompatibile con quella della vera teologia[6].
Kasper sembra condividere senza riserve le premesse immanentistiche dell’analisi filosofica della fede cristiana condotta da Schelling, e nelle parole con le quali egli si dichiara convinto di dover “rinnovare” la teologia cattolica proprio sulla base di quelle premesse si avverte chiaramente come egli sia privo di quel senso critico che è il primo requisito di ogni ricerca scientifica, tanto che la sua sintesi della filosofia religiosa di Schelling è un accumulo di parole senza senso:
«Schelling non concepisce in modo statico, metafisico e sovratemporale il rapporto tra naturale e soprannaturale, bensì in modo dinamico e storico. L’essenziale della rivelazione Cristiana è proprio questo, che essa è storia» [7].
Che significa che la rivelazione cristiana, nella sua “essenza” (termine indubbiamente metafisico, ma che deve essere sfuggito a Kasper), è “storia”? Storia di che cosa, storia di chi? Si deve forse intendere la storia degli uomini (quello che Kasper chiama la «natura») in rapporto all’azione di Dio (il «soprannaturale»)? In questo caso, si tratterebbe della nozione teologica di “storia della salvezza”, ossia dell’iniziativa salvifica di Dio Creatore e Redentore, che è rivelata all’uomo da Dio stesso, prima tramite i Profeti e poi, definitivamente, mediante l’Incarnazione del Verbo. Questa però non può essere la concezione di Kasper, perché corrisponde pienamente alla dottrina teologica tradizionale, che per Kasper sarebbe da rigettare in quanto presupporrebbe un «modo statico, metafisico e sovratemporale» di concepire «il rapporto tra naturale e soprannaturale». Ora, tenendo conto del fatto che, parlando di un «rapporto tra naturale e soprannaturale», Kasper ammette (involontariamente) la distinzione tra il mondo (la creazione) e Dio (il Creatore), uno dei due termini del rapporto, Dio, non può essere identificato con la “Storia”: a meno che non si voglia, in definitiva, escludere Dio dal discorso teologico e parlare solo del mondo e delle sue vicissitudini, anche quando si tratta della vita religiosa e della Chiesa. Il che è proprio quello che intende Kasper, come ben presto si vedrà.
In un’ecclesiologia immanentistica il mistero eucaristico non trova più il proprio spazio teologico.
I frequenti cambiamenti di tesi teologiche che hanno caratterizzato la produzione scientifica e la pubblicistica divulgativa di Kasper fanno pensare che il criterio (i target, la finalità, lo scopo finale) dei suoi discorsi non sia tanto una valida proposta di interpretazione del dogma, animata dallo zelo per la sua applicazione salvifica alla vita dei fedeli, quanto piuttosto l’ansia di imporsi nell’opinione pubblica come figura di rilievo dell’ala progressista della teologia contemporanea, soprattutto in rapporto all’ecumenismo, ossia al “dialogo” con i protestanti in vista di un “riavvicinamento” rituale e dottrinale tra loro e la Chiesa cattolica. In ogni caso, va detto che, nelle opere di Kasper, la continua proposta di “riforme” della Chiesa - riforme istituzionali, liturgiche, pastorali - ignora il necessario riferimento alla fondamentale “forma” che la Chiesa ha per istituzione divina; e ciò dipende dalla svalutazione dei principi propriamente teologici dell’ecclesiologia, a cominciare dal riconoscimento esplicito della natura divina di Cristo come Verbo Incarnato che ha affidato alla Chiesa da Lui fondata la prosecuzione della sua missione salvifica con il fedele annuncio dei misteri soprannaturali e la grazia santificante dei sacramenti. I principi propriamente teologici dell’ecclesiologia erano stati giustamente connessi con il dogma cristologico (e anche a quello mariologico) negli anni precedenti il Concilio da un altro teologo del Novecento, lo svizzero Charles Journet, il quale aveva saputo ripresentare e sviluppare coerentemente i principi essenziali della tradizione dogmatica su Cristo, Maria e la Chiesa nel suo trattato su L’Église du Verbe Incarné [8], la cui dottrina risulta in gran parte recepita nella costituzione dogmatica Lumen gentium, specie nell’ottavo capitolo, lì dove il Concilio parla di Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa [9]. Ma Kasper, che pure si presenta come “teologo conciliare”, ignora sistematicamente le nozioni propriamente teologiche dell’ecclesiologia, anzi pretende di “purificare” la fede cattolica dalle «forme e formule» che pure erano state riconfermate solennemente dal Vaticano II, in quanto proprio queste «forme e formule» assicurano il carattere soprannaturale (trascendente) delle realtà divine e giustificano il culto di adorazione che la Chiesa tributa a Cristo, che è Dio, il Verbo eterno che nel tempo si è fatto carne ed è realmente presente nell’Eucaristia, così come giustificano la venerazione nei confronti di Maria, riconosciuta come Madre di Dio in quanto è la vera Madre di Cristo che è Dio [10]. La battaglia per l’abolizione di termini teologici dal sapore “metafisico”, presentata come mera esigenza pastorale (la solita pretesa necessità di abbandonare un linguaggio che risulterebbe incomprensibile e inaccettabile per l’uomo di oggi), è indirizzata in realtà a eliminare dalla “predicazione” tutti i principi di base dell’ecclesiologia cattolica, sottomettendoli a una sistematica critica razionalistica, a cominciare proprio dalla nozione di “Verbo Incarnato”. Questa infatti è ridotta in termini immanentistici nella sua opera più nota, Jesus der Christus [11], dove Kasper propone la “sua” cristologia in chiave antimetafisica: si tratta in realtà di una riformulazione del dogma cristiano attraverso l’adozione delle categorie immanentistiche proprie della filosofia religiosa di Schelling, il quale riduce le tre Persone divine a tre “modi di sussistenza” di un’unica realtà divina, la cui natura si risolve nella storia del suo manifestarsi al mondo. Nell’orizzonte di questa Selbstoffenbarung Gottes, Cristo non è più creduto e adorato come Mediatore tra Dio e gli uomini [12], ma è ridotto alla manifestazione storica della Trinità “economica” [13]. Kasper non riesce a emanciparsi dalla filosofia della rivelazione schellinghiana, come invece aveva fatto nel suo stesso ambiente tedesco Romano Guardini [14], e così, da teologo cattolico finisce per ostinarsi in un’opera insensata di decostruzione del dogma cristologico tradizionale; persino le prove storiche della divinità di Cristo - ossia i miracoli da Lui operati con l’esplicita intenzione di mostrare la sua onnipotenza e sostenere così la fede dei discepoli - vengono sottoposti da Kasper al dubbio sulla loro effettiva verità fattuale e sul loro significato teologico in rapporto alla fede, sicché in definitiva vengono a essere negate per quello che essenzialmente sono, cioè l’evidenza empirica dell’intervento di Dio, facente parte dei motivi di credibilità. Dalla negazione implicita della divinità di Cristo deriva l’uso insistito che Kasper fa dell’espressione «il Dio di Gesù Cristo», espressione che appare anche come titolo di una delle sue opere dianzi citate (Der Gott Jesu Christi) e che, in quanto separa il nome di Dio dal nome di Cristo, insinua semanticamente la negazione della divinità di Gesù, non riconosciuto come l’unigenito Figlio di Dio, consustanziale al Padre [15]. In realtà, Kasper partecipa in pieno a quella corrente ideologica che fa capo a Hans Küng e a Kar Rahner e che intende la teologia come antropologia, suggerendo alla Chiesa di parlare non tanto di Dio quanto dell’uomo [16]; in conformità a questo preciso indirizzo speculativo, Kasper mette da parte il discorso sulla duplice natura di Cristo, Verbo eterno (discorso che logicamente ha senso solo se si ammettendo che le categorie metafisiche di “persona” e di “natura” siano adeguate alla necessaria formulazione dogmatica del mistero soprannaturale contenuto nella Rivelazione) e riduce la cristologia a un discorso di stampo fenomenologico sulla coscienza di Gesù come “uomo che parla di Dio”.
Alcuni esempi di come Kasper, ricorrendo a categorie filosofiche inadeguate, non riesca mai a interpretare correttamente il dogma eucaristico.
In seguito alla pubblicazione dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia di papa Giovanni Paolo II[18], Walter Kasper volle commentarla in lunga intervista alla rivista italianaTrentagiorni per valutarne gli “effetti” nei confronti del dialogo ecumenico[19]. Leggendo le sue risposte si comprende come egli guardi all’Eucaristia in un’ottica umanistica e sociologica, che è l’ottica con la quale egli crede di dover affrontare da teologo i temi dell’ecclesiologia. In effetti, l’argomento pressoché unico di tutti gli scritti e i discorsi di Kasper è la Chiesa, vista però non come mistero soprannaturale intrinsecamente connesso ai dogmi della Trinità e dell’Incarnazione, bensì come una realtà umana sociologicamente rilevabile, che dal teologo tedesco viene identificata con la comunità di quanti professano la fede in Cristo, una comunità che è dinamicamente proiettata verso l’avvento del “Regno” e che oggi è chiamata a superare le divisioni confessionali del passato tra cattolici, ortodossi e protestanti. Al fine ultimo dell’azione ecumenica Kasper riduce ogni altro aspetto della Chiesa e dell’Eucaristia nella vita della Chiesa; l’Eucaristia come sacramento in senso proprio resta in un secondo piano, mentre in primo piano viene collocata la Chiesa, la cui “sacramentalità”, enunciata dal Concilio, è però da intendersi in senso soltanto improprio, cioè derivato per analogia. Sicché l’inevitabile ammissione della natura sacrificale della santa Messa (inevitabile in un commento all’enciclica, che di questo principalmente tratta) va di pari passo, nel discorso di Kasper, con la mancanza di ogni riferimento alla “presenza reale” di Cristo nell’Eucaristia, e quindi al culto di adorazione che la Chiesa le tributa, sia nella liturgia che nella pietà individuale dei fedeli. Ecco in proposito le parole di Kasper:
«Nel nostro tempo si assiste a tutta una fioritura di rituali prodotti quasi a ritmo commerciale, ma sembra perdersi la percezione stessa della specificità storica dei sacramenti cristiani. Per riprendere un’immagine usata una volta dal cardinale Danneels, si assiste a una sorta di atrofizzazione, di “accecamento”, per cui non si percepisce più la sacramentalità della Chiesa stessa, soprattutto nelle terre di antica evangelizzazione. Già il Concilio Vaticano II, con la costituzione Lumen gentium e con quella sulla liturgia, ha richiamato la natura sacramentale della Chiesa. Ma dopo si sono registrati una banalizzazione, un appiattimento, che certo non possono essere imputati al Concilio. Anche grazie al dialogo coi fratelli protestanti abbiamo imparato l’importanza del ministero della Parola. Ma intanto i sacramenti rischiano di non essere più il punto di gravità della pastorale cattolica»[20].
Discorso quanto mai confuso, dove l’unica cosa che si capisce è che Kasper aborrisce la concretezza del dogma eucaristico, dove l’essenziale è la Persona divina di Cristo Signore, che con la sua “presenza reale” sotto le specie del pane e del vino è a disposizione di quanti – singole persone umane – possono unirsi a Lui con la fede e con l’amore. Ma Kasper non riesce a parlare dell’unione personale con Cristo, tanto che traduce quell’espressione teologicamente pregnante di «contatto attuale» che aveva usato Giovanni Paolo II nell’enciclica in una soggettiva e impersonale «memoria celebrata»:
«Al paragrafo 12, riguardo all’Eucaristia, sta scritto che “la Chiesa vive continuamente del sacrificio redentore, e ad esso accede non soltanto per mezzo di un ricordo pieno di fede, ma anche in un contatto attuale”. La vita di grazia si trasmette per contatto: questa è la dinamica propria dei sacramenti, che è evidente nell’Eucaristia. La memoria celebrata nell’Eucaristia non è solo ricordo di un fatto passato su cui coltivare riflessioni religiose soggettive: al paragrafo 11, sta scritto che l’Eucaristia “non è solo l’evocazione, ma la ri-presentazione sacramentale” della passione e della morte del Signore. Il riconoscimento di questo contenuto oggettivo, reale della memoria eucaristica aiuta anche nel dialogo con i luterani, per far riconoscere anche a loro la dimensione sacrificale della celebrazione eucaristica»[21].
Non si sa a che cosa si riferisce precisamente Kasper quando parla di “contatto”, visto che ignora di proposito i presupposti metafisici della teologia sacramentaria. In ogni caso, trovandosi a doversi rifare, oltre che all’insegnamento di Papa Wojtyla, anche alle formule dogmatiche del Concilio di Trento, Kasper finisce per parlare di un «contatto personale» tra il singolo cristiano e Cristo nell’Eucaristia. Ma tale “contatto” si riduce evidentemente a qualcosa di meramente intenzionale (nel senso di cognitivo, rappresentativo): invece di riferirsi esplicitamente alla Persona di Cristo alla quale si unisce il cristiano nella comunione eucaristica, egli riduce il suo discorso alla percezione soggettiva del significato della celebrazione, percezione che consentirebbe – dice Kasper – di arrivare a «un contatto personale con lo stesso unico sacrificio di Gesù Cristo». Con queste incomprensibili contorsioni dialettiche il teologo tedesco spera di poter concludere positivamente i suoi sforzi di intesa dottrinale con i protestanti, i quali certamente non vogliono sentir parlare di “transustanziazione” e di “presenza reale”:
«I luterani in passato hanno spesso compreso il nostro riconoscimento del carattere sacrificale della celebrazione eucaristica come una moltiplicazione del fatto unico, singolare, non riproducibile della passione del Signore. Ma la Chiesa cattolica riconosce che l’evento unico, singolare della passione e morte di Gesù non può essere ripetuto. È lo stesso evento che in modo sacramentale, e quindi misterioso, diviene presente nella celebrazione liturgica. L’Eucaristia è il dono presente della stessa santa umanità di Gesù, e non una rappresentazione metaforica di quel dono messa in scena dagli uomini. Chi mangia il pane eucaristico entra in un contatto personale con lo stesso unico sacrificio di Gesù Cristo. L’enciclica al paragrafo 12 si rifà all’insegnamento del Concilio di Trento, quando riconosce che “la messa rende presente il sacrificio della croce, non vi si aggiunge e non lo moltiplica”. E cita su questo anche una bella frase di san Giovanni Crisostomo: “Noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il sacrificio è sempre uno solo”. Al paragrafo 13 si ripete che “l’Eucaristia è sacrificio in senso proprio, e non solo in senso generico”, come se Cristo si fosse offerto in senso metaforico, quale “cibo spirituale” per i fedeli. Il sacrificio di Cristo è autodonazione del Figlio al Padre e a noi. Ridurlo a un incontro conviviale fraterno per ricordare una vicenda del passato è una banalizzazione»[22].
Quella è certamente una «banalizzazione», ma lo è altrettanto e più ancora la riduzione che fa Kasper dell’Eucaristia a una “memoria celebrata” della Passione, trascurando il fatto che il fine proprio del sacramento, istituito da Cristo e che la Chiesa celebra come «memoriale mortis Domini», è la comunione eucaristica, ossia l’incontro personale del fedele con Cristo che si fa realmente presente, come Verbo Incarnato, con il suo corpo, il suo sangue, la sua anima e la sua divinità. Il significato memoriale dell’istituzione dell’Eucaristia, come risulta dalle parole dell’Ultima Cena riferite dai Vangeli sinottici, è da collegarsi alla sua finalità comunionale, quale risulta dalle parole di Cristo nel discorso a Cafarnao riferito da Giovanni nel quarto Vangelo, la cui redazione è di molti anni posteriore a quella dei primi tre Vangeli. Kasper, che si vede costretto dai testi del Magistero da lui citati a usare il termine metafisico “transustanziazione”, lo riferisce correttamente al momento liturgico della “consacrazione”, ma poi evita di metterlo in rapporto con la possibilità e con la convenienza della comunione eucaristica; mentre il suo maestro Rahner riconosce che la comunione è il fine principale della “transustanziazione”[23], come se avesse un significato teologico in rapporto alla sola celebrazione eucaristica, dove la Chiesa prega il Padre affinché renda presente il Figlio per opera dello Spirito Santo:
«Al paragrafo dell’enciclica 23 si trova scritto: “L’azione congiunta e inseparabile del Figlio e dello Spirito Santo, che è all’origine della Chiesa, del suo costituirsi e del suo permanere, è operante nell’Eucaristia”. Anche grazie all’ultimo Concilio ecumenico, abbiamo riscoperto l’importanza dell’epiclesi, cioè della preghiera eucaristica in cui il prete invoca il Padre di mandare il suo Spirito, affinché il pane e il vino diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Non è il sacerdote che compie la transustanziazione: il sacerdote prega il Padre, affinché essa avvenga per opera dello Spirito Santo. Si può dire che tutta la Chiesa è una epiclesis».
Ed ecco che il discorso torna, come sempre, sulla dinamiche della Chiesa e sulle pretese gestionali avanzate da parte di alcune sue componenti insoddisfatte di avere in essa un ruolo sociologicamente “passivo”:
«È una tentazione reale, che affiora in molti ambiti ecclesiali, quando ad esempio si dice di voler costruire la Chiesa “dal basso”. In senso proprio, non si può “fare” Chiesa, “organizzare” Chiesa. Perché la communio non viene dal basso, è grazia e dono che viene dall’alto.
Ma “dall’alto” vuol dire dallo Spirito Santo, non dalla gerarchia. La Chiesa non si può “fare” dal basso, ma nemmeno dal vertice. Neanche la gerarchia, il Papa, i vescovi, possono pensare di essere loro a “produrre” la Chiesa. E di fatto, la tentazione di “fare Chiesa” non è confinata solo alle comunità di base e ai gruppi parrocchiali. Si manifesta anche ai livelli più alti dell’istituzione ecclesiastica, o nelle accademie teologiche»[24].
E così il discorso si conclude riproponendo il tema del “dialogo ecumenico”, al cui successo Kasper pensa di contribuire re-interpretando il rapporto tra l’Eucaristia e la Chiesa con le categorie storicistiche dei suoi maestri della Scuola di Tubinga, eredi della “nouvelle théologie”:
«La riscoperta dei Padri della Chiesa, dovuta anche a Henri de Lubac, ha portato nuovi spunti per cogliere la connessione tra Chiesa ed Eucaristia. La Chiesa celebra l’Eucaristia, ma la Chiesa stessa vive dell’Eucaristia. Tutta l’enciclica è attraversata dal riconoscimento che la Chiesa non si dà la vita da sola, non si edifica da se stessa, non si autoproduce. La Chiesa non è un organo puramente esteriore creato dalla comunità dei credenti, né tanto meno una specie di ipostasi trascendente che quasi preesiste l’opera in atto di Cristo nel mondo. E la comunione non è una aggregazione volontaristica tra i fedeli. Vive della partecipazione a una realtà che la precede, che c’è prima e che ci viene incontro dall’esterno»[25].
Un’ecclesiologia di questo tipo, dove l’Eucaristia è ridotta a un momento celebrativo di una Chiesa che si riconosce soltanto in un’indefinita e indefinibile «opera in atto di Cristo nel mondo», sembra a Kasper la piattaforma ideale per ripristinare l’unità dei cristiani e mettere da parte le “incomprensioni” tra cattolici e luterani, già che essi hanno già in comune la considerazione dell’Eucaristia come “memoria” della Cena e come segno di appartenenza alla comunità. L’aspetto propriamente sacramentale, soprattutto per quanto riguarda la Presenza Reale, è messo da parte per non intralciare l’auspicata intesa con i protestanti. Sono prospettive teologico-pastorali che in quegli stessi anni Kasper espone in altri suoi scritti, che poi vengono raccolti nel 2004 in una pubblicazione dal titolo programmatico Sakrament der Einheit. Eucharistie und Kirche. Ecco che cosa scrive nella Presentazione:
«Il secondo e il terzo capitolo sono meditazioni bibliche su aspetti essenziali dell’eucaristia. Il quarto riprende una conferenza da me tenuta al Katholikentag di Ulm nel 2004 e colloca gli aspetti ecumenici dell’eucaristia nel più vasto orizzonte di un ecumenismo della vita. Dal punto di vista ecumenico ci troviamo in una fase intermedia, in un tempo di transizione. Nel nostro cammino abbiamo felicemente percorso alcune miglia, ma non abbiamo ancora raggiunto la meta. L’ecumenismo è un processo di crescita della vita. Lungo questa strada della crescita e della maturazione sono necessari molti passi intermedi, che dovranno sfociare nella comunione eucaristica, nel sacramento dell’unità. […] L’eucaristia è – come l’enciclica Ecclesia de eucharistia (2003) ha ancora una volta mostrato – fonte, centro e culmine della vita cristiana e della vita della chiesa, quindi anche della sua pastorale. Nel corso della sua missione la chiesa cerca in ogni tempo di diventare in maniera convincente quel che nella sua essenza già da sempre è: in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’unità e della pace del mondo [LG 1]. L’eucaristia è il sacramento di questa unità»[26].
Walter Kasper vede dunque nell’Eucaristia soltanto un rito, che deve esprimere e rafforzare l’unione (affettiva, sentimentale, non ontologica) tra i membri della comunità cristiana, auspicando che questa unità sia ancora più evidente (nell’esteriorità del rito) quando saranno superate le divisioni dottrinali tra cattolici e luterani[27]. Kasper rappresenta così uno dei più espliciti fautori di una falsa teologia che interpreta in termini umanistici (esclusivamente naturali) il genuino senso soprannaturale del dogma cattolico, proprio e soprattutto riguardo all’Eucaristia, creando tra i fedeli una progressiva insensibilità nei confronti del carattere soprannaturale dei sacramenti, con quelle conseguenze pastorali gravissime che già deprecava con giustificato allarme il cardinale Giuseppe Siri[28]. Questa impostazione umanistica si rileva anche in interventi più recenti, come ad esempio quello del 7 giugno 2014, quando si è recato a Orvieto per la solennità del Corpus Domini e ha concelebrato accanto al vescovo Benedetto Tuzia. In quell’occasione il cardinale Kasper ha reso ancora più esplicita la sua sistematica riduzione dell’Eucaristia a celebrazione liturgica e a simbolo di unità tra gli uomini, lasciando in ombra la comunione eucaristica (che presuppone la fede nella Presenza Reale) per mettere in luce la sola comunione ecclesiale (che può anche essere un risultato meramente umano, al di fuori della vita soprannaturale in Cristo). Ecco alcune sue parole nell’omelia in Duomo:
«L’Eucarestia è il sacramento della conoscenza di un amore che chiede di essere ricambiato con l’amore, con gratitudine e riconoscenza. Dio condivide con noi e noi siamo chiamati a condividere nella comunità della famiglia. Oggi porteremo il Sacramento in processione in questa antica e bellissima città come segno che Gesù vuole essere presente nelle nostre case e nelle nostre famiglie, nessuno è escluso dal suo amore. Non possiamo condividere il pane eucaristico, senza condividere anche il pane quotidiano, con i nostri gesti. Per il bene degli altri. Con noi celebra tutto il mondo, l’intera Chiesa».
Interventi ancora più recenti di Kasper sul tema dell’Eucaristia riguardano la possibilità di concedere l’accesso alla comunione eucaristica ai fedeli che, una volta divorziati, che si sono sposati con un rito civile. Kasper si è fatto promotore di tutta una serie di ipotesi “pastorali” che in pratica disconoscono la dottrina certa sul sacramento della Penitenza e su quello dell’Eucaristia. E pensare che Kasper, a proposito della comunione ai “divorziati risposati” che non possono ricevere l’assoluzione sacramentale in quanto incapaci di uscire da una situazione di peccato grave, nel 2003 aveva detto:
«Già san Paolo nella prima lettera ai Corinzi scrive che uno, quando accede all’Eucaristia, prova se stesso. L’Eucaristia e il sacramento della confessione dei peccati sono necessariamente collegati. Mio papà, molti anni fa, ogni domenica, non faceva la comunione se non si era prima confessato, e forse poteva sembrare un po’ esagerato. Ma adesso mi pare che si stia abbondantemente esagerando in senso opposto. Non si può andare a fare la comunione senza tener conto dello stato della propria coscienza»[29].
Ora invece Kasper ipotizza varie ipotesi di soluzione pastorale del problema, auspicando che vengano adottate dal Sinodo dei vescovi del 2015, strumentalizzando a tal fine il ricorso alla comunione spirituale. Ad esempio, nell’introdurre il concistoro del febbraio 2013, si rifà a quanto aveva detto Benedetto XVI nel 2012, ossia che «i divorziati risposati non possono ricevere la comunione sacramentale ma possono ricevere quella spirituale», e di conseguenza propone di consigliare ufficialmente a tutti quei fedeli che non fossero in condizione di comunicarsi sacramentalmente la pratica della “comunione spirituale”. Ma poi, nello spiegare il senso della sua proposta, Kasper mostra di non saper distinguere la “comunione di desiderio” dalla vera e propria comunione sacramentale, che per lui è un atto meramente “spirituale” e simbolico, senza un reale incontro del fedele con Cristo, Verbo Incarnato. E infatti dice:
«Molti saranno grati per questa apertura. Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo. […] Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale? […] Alcuni sostengono che proprio la non partecipazione alla comunione è un segno della sacralità del sacramento. La domanda che si pone in risposta è: non è forse una strumentalizzazione della persona che soffre e chiede aiuto se ne facciamo un segno e un avvertimento per gli altri? La lasciamo sacramentalmente morire di fame perché altri vivano?»[30].
Si noti l’ambiguità – o, per meglio dire, la vuotezza semantica – di questa frase, tutta retorica e nient’affatto teologica. Che cosa vorrebbe dire, teologicamente parlando, «lasciare sacramentalmente morire di fame» dei fedeli non riconoscendo loro le dovute disposizioni di grazia per ricevere l’Eucaristia? La Scrittura, quando parla di “fame” in senso teologico, intende la «fame e sete di giustizia», non il soddisfacimento di un preteso bisogno affettivo, psicologico, analogo al bisogno di nutrimento per il corpo. Se un fedele è consapevole di essere in stato di peccato mortale, la sua «fame e sete di giustizia» è da intendersi come desiderio di conversone e di riconciliazione, per poter poi ricevere, una volta riconciliato con la valida celebrazione del sacramento della Penitenza, il sacramento dell’Eucaristia, che assicura al fedele un aumento effettivo (sia o non avvertito sentimentalmente dal soggetto) della grazia santificante. Sia nell’uno che nell’altro sacramento opera (misteriosamente ma efficacemente) la grazia di Cristo, nostro divino Redentore, e proprio a Lui, percepito dalla fede attraverso i segni sacramentali, si rivolge l’anima credente che avverta la «fame e sete di giustizia».
Comunque, la relazione di Kasper è stata contestata da numerosi cardinali, sia durante il concistoro che dopo. Ma questa sua equiparazione tra comunione spirituale e sacramentale è stata poco toccata dalle critiche, che si sono concentrate su altri punti della relazione. Ma è proprio questa equiparazione che viene criticata come “fallace” da Alessandro Martinetti in un testo pubblicato da Sandro Magister[31].
È
l’immanentismo storicistico ciò che porta Kasper a privare di ogni contenuto
veritativo il dogma della Presenza Reale di Cristo nell’Eucaristia.
Da
quanto finora visto, è chiaro che è l’ecclesiologia storicistica ereditata dai
suoi maestri Rahner e Küng ciò che rende Kasper incapace di comprendere il
mistero eucaristico nei sui termini essenziali, che sono metafisici e
realistici. I discorsi di Kasper sulla Chiesa, ridotta a mera comunità dei
credenti in Cristo, – che lo Spirito guiderebbe non tanto a una “statica”
fedeltà alla Tradizione quanto a una “dinamica creatività” che renda possibile
il “dialogo con gli uomini del proprio tempo” -, se hanno qualche plausibilità
dal punto di vista sociologico, non ne ha alcuna dal punto di vista teologico.
Nulla giustifica la concezione esclusivamente “pneumatica” della Chiesa,
presentata dal teologo tedesco come «sacramento dello Spirito»,
definizione che per lui dovrebbe sostituire la definizione “giuridica”
tradizionale, quale ad esempio si ritrova nell’enciclica Mystici Corporis di
papa Pio XII[32]. Il campo di azione dello Spirito Santo non coincide
infatti, come vuole la Tradizione, con quello della Chiesa cattolica romana, ma
si estende ad una più vasta realtà ecumenica, la “Chiesa di Cristo” di cui la
Chiesa cattolica è parte. Per Kasper il decreto Unitatis redintegratio del
Vaticano II ha superato l’ecclesiologia tradizionale, insegnando che l’unica
Chiesa di Cristo va individuata ma in tante comunità ecclesiali separate: la
vera Chiesa cattolica si trova lì «dove non c’è alcun vangelo selettivo»
ma tutto si dilata in maniera inclusiva, nel tempo e nello spazio[33]. La
missione attuale della Chiesa cattolica, pertanto, è di “uscire da sé stessa”
per riacquistare una dimensione che la renda veramente universale[34]. In questa linea si collocano le tante proposte
di riforma della Chiesa formulate da Kasper in vista delle molteplici
iniziative ecclesiastiche per l’intensificazione del dialogo ecumenico, e più
recentemente in vista del Sinodo per la famiglia[35].Questa eliminazione radicale dalla teologia di un “discorso serio” su Dio come realtà personale e trascendente non è un aspetto marginale della riformulazione che della cristologia ha proposto Walter Kasper, il quale riconosce la sua dipendenza dall’interpretazione immanentistica dell’Incarnazione avevano già fornito altri due influenti teologi cattolici, il tedesco Karl Rahner[36] e lo svizzero Hans Küng[37], entrambi convinti che la ripresa del pensiero religioso di Hegel e di Schelling avrebbe favorito il rinnovamento della teologia cristiana. A riprova di tutto ciò, appare assai significativo un suo scritto del 1970, che fa parte di Die Frage nach Gott, opera collettanea alla quale hanno collaborato i teologi tedeschi all’epoca più attivi[38]. Nell’edizione italiana[39] il contributo di Kasper è intitolato La questione di Dio come problema della predicazione e riprende le tesi agnostiche e storicistiche esposte pochi mesi prima nella sua opera Glaube und Geschichte[40]. L’autore, a pochi anni dalla conclusione del Vaticano II, non ritiene sufficiente quanto la Chiesa stessa ha solennemente insegnato con la costituzione pastorale Gaudium et spes ma sostiene che il compito dei teologi sia di rimettere radicalmente in discussione la possibilità di parlare di Dio agli uomini del nostro tempo[41]. La prima cosa da fare, a questo proposito, è demolire con la critica razionalistica la tradizione dogmatica e pastorale della Chiesa, una tradizione che si è svolta in assoluta coerenza dall’epoca apostolica all’epoca contemporanea ma che – a detta di Kasper – non è mai stata capace di suscitare una fede autentica :
«Solo la fede nel Dio presente nella storia è in grado di offrire un ubi consistam nella storia. Il pensiero storico contemporaneo non rappresenta perciò soltanto una messa in questione dei modi di parlare di Dio finora in voga; esso dischiude anche alla predicazione cristiana un kairos unico, in quanto oggi storicamente per la prima volta può svilupparsi in condizioni ch’essa stessa ha concorso a produrre. Per poter cogliere questo kairos la teologia e la predicazione devono certamente liberarsi dalle forme e formule tradizionali, senza però smarrire la sostanza in esse contenuta. In effetti, già nel quadro della dottrina tradizionale di Dio, improntata alle categorie della metafisica greca, si era giunti con difficoltà a esprimere in maniera adeguata il Dio vivente nella storia»[42].
Non si può non rilevare come, al di sotto dell’evidente retorica storicistica, non ci sia in questo discorso un pensiero che abbia una qualche consistenza, né dal punto di vista teologico né da quello filosofico. Le contraddizioni si accavallano a ogni passo, e ci si può domandare con quale criterio Kasper pretende di «esprimere in maniera adeguata il Dio vivente nella storia», partendo dal presupposto che la «dottrina tradizionale di Dio, improntata alle categorie della metafisica greca» è stata totalmente inadeguata. Che cosa rende adeguata alle esigenze pastorali di oggi la dottrina nuova (immanentistica, storicistica, trascendentale, fenomenologica) già proposta da Rahner e riproposta ora da Kasper? La risposta a una domanda del genere non la si può naturalmente trovare negli scritti di Kasper: egli non fa che ripetere a ogni piè sospinto la necessità di eliminare tutta la teologia precedente, il che costituisce la pars destruens della sua dialettica storicistica, senza curarsi di illustrare quale dovrebbe essere una plausibile pars construens. A Kasper, in realtà, interessa soltanto mettere da parte il Dio che la ragione umana (dal senso comune alla metafisica come scienza dell’essere) riconosce come trascendente, in quanto creatore (anche se la Scrittura inizia proprio con la rivelazione di questa verità: «Nel principio Dio creò il cielo e la terra»: Libro della Genesi, 1, 1); il Dio che si rivela come l’Essere di per sé sussistente (è la “metafisica dell’Esodo” illustrata da Étienne Gilson); il Dio eterno e immutabile che ha creato liberamente, per amore, e destina gli uomini alla comunione con Sé nella vita eterna. Mettere da parte questo Dio, ritenuto “impresentabile” di fronte alla cultura secolarizzata di oggi, è per Kasper il principale dovere della teologia, che si deve oggi occupare soltanto dell’uomo nella storia: Dio può restare, nel discorso teologico, solo come esperienza interiore dell’uomo (Gotteserfahrung), come vissuto religioso esistenziale (religioser Erlebnis). Ecco allora che scrive:
«Sulla base di un concetto statico dell’eternità, si è spesso quasi reso Dio prigioniero del proprio essere e del proprio sistema. Le aporie che di qui derivano alla cristologia là dove si tratta di pensare il divenire-uomo (Menschen-Werdung) di Dio, recentemente, a seguito di K. Rahner, sono state rilevate energicamente ancora una volta da H. Küng. Le conseguenze di tale concezione certamente potrebbero essere ancora più funeste per la predicazione della fede. Un Dio che non abbia la possibilità di essere continuamente un nuovo inizio, secondo Schelling è “un Dio alla fine”»[43].
Basta questa breve citazione (che però è assolutamente omogenea allo stile e al contenuto di tutto lo scritto) per comprendere come il discorso di Kasper su Dio non abbia nulla di propriamente scientifico, ma vada affastellando i più triti luoghi comuni della pubblicistica religiosa cattolica del Novecento, tributaria della teologia (o meglio, della filosofia religiosa) luterana, rappresentata da Hegel e Schelling nell’Ottocento, cui si riconnettono in vario modo Oscar Cullmann e Karl Barth nel Novecento. Si noti in particolare l’assurdità di parlare di un «concetto statico dell’eternità» che andrebbe sostituito con un «concetto dinamico dell’eternità» capace di includere in sé il divenire: si tratta di un’assurdità, ho detto, perché la nozione metafisica di Dio creatore come “atto puro” non implica affatto la staticità, mentre esclude il divenire, che è caratteristica delle creature; e anche perché questi teologi, che mettono da parte il Magistero per restare con la sola Scrittura, contraddicono proprio ciò che nella Scrittura stessa è più insistentemente enunciato, ossia la trascendenza di Dio rispetto al divenire del mondo[44]. Ancora più assurdo è ricamare argomenti insensati sulla falsa nozione di un «divenire-uomo (Menschen-Werdung) di Dio», quando il dogma cattolico e il suo riferimento biblico dicono ben altro, parlano cioè dell’Incarnazione come assunzione nel tempo della natura umana da parte del Verbo eterno («Ho logos sarx egeneto»). Con l’Incarnazione Dio resta nella sua eterna perfezione e trascendenza: non cambia, non sparisce e non si annulla nell’uomo; solo la natura umana, assunta dalla Persona del Verbo, cambia e viene elevata grazie all’unione ipostatica. Ma non vale la pena sottoporre ad analisi critica queste sconclusionate elucubrazioni dialettiche, visto che esse hanno in Kasper solo una funzione pragmatica, performativa: servono a concludere che Cristo è uomo (anzi, simbolo o metafora dell’uomo) e che Dio può essere lasciato stare da una teologia che voglia parlare all’uomo di oggi. Questa intenzionale de-costruzione del dogma cristologico – dal quale dipende la retta comprensione del mistero della Chiesa – è il presupposto dottrinale di tutte le ambiguità o degli evidenti errori teologici dei riferimenti che Kasper fa all’Eucaristia nelle sue opere. In effetti, la dogmatica cattolica, come risulta dalle formule adottate dal concili ecumenici dei primi cinque secoli, esprime il mistero di Cristo in termini la cui semantica è sempre materialmente (e talvolta anche formalmente)metafisica, in quanto basata sulla nozione di “persona” (e quindi di sostanza) in rapporto dialettico con la nozione di “natura” (o “essenza”); di conseguenza, anche il dogma eucaristico, come ebbe a ricordare Paolo VI alla conclusione del Vaticano II[45], è parimenti espresso in termini la cui semantica è sempre metafisica, in quanto basata sulla nozione di “sostanza”, solo con la quale è possibile comprendere il significato del termine “transustanziazione” e il suo effetto sacramentale, la “presenza reale” di Cristo in Persona (metafisicamente, la persona è rationalis naturae individua substantia), ossia il fatto che Egli, dopo la consacrazione, sia presente «vere, realiter et substantialiter» sotto le specie del pane e del vino. Un teologo che abbia scelto come metodo teologico “più adeguato ai tempi” l’eliminazione della semantica metafisica dalla comprensione e dall’approfondimento del dogma eucaristico, non può che parlare dell’Eucaristia in termini retorici, inconcludenti, in definitiva irrispettosi di questo grande mistero dell’Amore che ci è rivelato da Dio e che la Chiesa proclama infallibilmente con le sue definizioni dogmatiche, la cui eco fedele si trova nella tradizione liturgica[46]: ed è proprio quello che si rileva nelle opere teologiche di Kasper, come più sopra ho sufficientemente documentato.
NOTE
[1] Vol. 1: Die
Lehre von der Tradition in der Römischen Schule; vol. 2: Das
Absolute in der Geschichte; Vol. 3: Jesus der Christus;
vol. 4: Der Gott Jesu Christi; vol. 5: Das Evangelium
Jesu Christi; vol. 6: Theologie und Wissenschaft; vol.
7: Grundlagen der Dogmatik; vol. 8: Gott, der Schöpfer und
Vollender; vol. 9: Jesus Christus, das Heil der Welt;
vol. 10: Die Liturgie der Kirche; vol. 11: Die Kirche
Jesu Christi; vol. 12: Die Kirche und ihre Ämter; vol.
13: Katholische Kirche; vol. 14: Wege zur Einheit der Christen;
vol. 15: Einheit in Jesus Christus: vol. 16:
Kirche und Gesellschaft; vol. 17: Pastoral; vol. 18: Predigten.[2] Vedi Antonio Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[3] Walter Kasper, Das Absolute in der Geschichte. Philosophie und Theologie der Geschichte in der Spätphilosophie Schellings, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1965; trad. it.: L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, Jaca Book, Milano 1986, p. 53.
[4] Walter Kasper, Das Absolute, trad. it. cit., p. 90.
[5] La metafisica storicistica di Friedrich Schelling (1775-1854), eliminata la trascendenza di un Dio creatore e provvidente, elabora alla fine una nozione di Storia (Geschichte) che figura come unico agente universale di ogni evento, con le caratteristiche dell’«anima mundi» degli Stoici e del «Deus sive natura» di Spinoza. Nella sua ultima opera, Philosophie der Offenbarung (1858), Schelling contrappone al cristianesimo “dogmatico” il cristianesimo “della storia”, e riduce la nozione realistica di “rivelazione” a quella immanentistica di autocoscienza (Selbsbewußtsein) dello Spirito nel suo sviluppo storico.
[6] Vedi Antonio Livi, Vera e falsa teologia, cit., pp. 246-255. Dello stesso avviso è un storico della Chiesa, il quale ha parlato di «quei teologi - ed oggi son i più - che si son formati non sulla Summa di san Tommaso d'Aquino e nemmeno su quei "loci" che Melchior Cano individuò soprattutto nella Rivelazione, nella Chiesa e nella Tradizione, ma sui testi di rinomati maîtres-à-penser, preferibilmente postconciliari, quasi tutti sensibili alla suggestione d'un hegelismo vagamente cristianizzato, che ciò nonostante imprigiona il messaggio evangelico nelle maglie del divenire, lo spoglia d'ogni sua componente soprannaturale e lo riduce ad un dato sempre cangiante dell'immanenza» (Roberto de Mattei, “Pasticcio Kasper”, in Il foglio, 1° ottobre 2014, pp. 1-3).
[7] Walter Kasper, Das Absolute, trad. it. cit., p. 206.
[8] Cfr Charles Journet, L’Église du Verbe Incarné. Essai de théologie speculative, tomo I: La hiérarchie apostolique, Téqui, Paris 1941; tomo II: Sa structure interne et son unité catholique, Desclée de Brouwer, Paris 1952. Nuova edizione riveduta: Charles Journet, L’Église du Verbe Incarné, 5 voll., Editions Saint-Augustin, Saint-Maurice 1998-2005. Vedi Antonio Livi, “Presentazione”, in Charles Journet, Maria corredentrice, Edizioni Ares, Milano 1989, pp. 6-10; Idem, Marian Coredemption in the Ecclesiology of Cardinal Charles Journet, in Mary at the Foot of the Cross, VII: Corredemptrix, therefore Mediatrix of All Graces, a cura di Alessandro Apolloni, Academy of the Immaculate, New Bedford, Massachusetts 2008, pp. 355-366.
[9] Cfr Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, §§ 52-69.
[10] Vedi Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, § 53: «La beata Vergine, predestinata fino dall'eternità, all'interno del disegno d'incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra l'alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all'opera del Salvatore, coll'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell'ordine della grazia». Si noti in particolare l’espressione «vita soprannaturale delle anime», che costituisce la più formale smentita delle pretese di certa esegesi dei testi conciliari (penso a Yves-Marie Congar, a Henri de Lubac, e infine a Karl Rahner, maestro di Kasper) nei quali non si troverebbero più né il sostantivo “anima” né l’aggettivo “soprannaturale”, considerati residui della teologia scolastica.
[11] Cfr Walter Kasper, Jesus der Christus, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1974; trad. it.: Gesù il Cristo, Editrice Queriniana, Brescia 1974.
[12] Cfr Prima Lettera a Timoteo, 2, 5: «C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo».
[13] Per una sintesi aggiornata delle diverse interpretazioni teologiche delle relazioni intra-trinitarie e del rapporto della Trinità con il mondo (creazione, missione del Figlio e dello Spirito Santo), vedi Antonio Livi, I presupposti logico-aletici delle diverse ipotesi teologiche sulle relazioni intratrinitarie, in Il “Filioque”. A mille anni dal suo inserimento nel Credo a Roma (1014-2014), a cura di Mauro Gagliardi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. 325-342.
[14] Vedi Josef Kreiml, Die Selbstoffenbarung Gottes und der Glaube des Menschen: Eine Studie zum Werk Romano Guardinis, EOS Verlag, Sankt Ottilien 2002.
[15] Vedi Brunero Gherardini, “Il Dio di Gesù Cristo”, in Divinitas, 2004.
[16] Vedi Cornelio Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Editore Rusconi, Milano 1970; Antonio Livi, “Il metodo teologico di Karl Rahner. Una critica del punto di vista epistemologico”, in Fides catholica, n. 2, II, 2007, pp. 269-276; Idem, Il metodo teologico di Karl Rahner. Una critica del punto di vista epistemologico, in Karl Rahner. Un’analisi critica, a cura di Serafino M. Lanzetta, Edizoni Cantagalli, Siena 2009, pp. 13-27; Idem, Vera e falsa teologia, cit., pp. 222-227.
[18] San Giovanni Paolo II, enciclica Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile 2003.
[19] Cfr Gianni Valente, “La Chiesa non si dà la vita da sola. Il presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani interviene sull’ultima enciclica del papa”, intervista al cardinale Walter Kasper, inTrentagiorni, maggio 2003. Nell’intervista, che pure riguarda direttamente ed esclusivamente il mistero eucaristico in rapporto con la vita soprannaturale della Chiesa, il giornalista presentava Kasper avvertendo i lettori che il teologo tedesco «non ha un profilo da nostalgico tradizionalista. Il cardinale Walter Kasper viene spesso annoverato nell’ala “progressista” da chi ama dividere anche il Sacro Collegio secondo le categorie ingessate del bipolarismo politico. Dal marzo 2001 è presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. È quindi ex officiol’esponente di spicco della Curia romana più coinvolto nei rapporti con i capi delle altre Chiese e comunità ecclesiali cristiane. […] Le sue lucide e pacate considerazioni acquistano valore anche in virtù del ruolo affidatogli, visto che le critiche più forti finora espresse all’Ecclesia de Eucharistia hanno preso di mira soprattutto il presunto passatismo antiecumenico che serpeggerebbe nell’enciclica»
[20] Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[21] Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[22] Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[23] Cfr Karl Rahner – Herbert Vorgrimler, Kleines theologishces Worterbuc, Verlag Herder, Freiburg 1968; trad. it.: Dizionario di teologia, a cura di Giuseppe Ghiberti e di Giovanni Ferretti, Editori Associati, Milano 1994, pp. 243-244: «Tale trasformazione si realizza per offrire la possibilità al credente di mangiare il corpo e il sangue di Cristo al momento della comunione e per rendere presente attraverso ad essa il sacrificio della croce in quest’ora concreta della storia (ad opera della Chiesa). Tuttavia l’avvenimento che in essa si attua è permanente: fintantoché le specie del “cibo” (per essere mangiate) rimangono presenti, è presente anche Cristo (perché venga adorato). Tale presenza durevole e reale di Cristo (“presenza reale”) resta però necessariamente rapportata all’atto con il quale la Chiesa la pone e alla sua finalità che è appunto la sua recezione (“mangiare”) da parte del credente».
[24] Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[25] Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[26] Walter Kasper, Sakrament der Einheit. Eucharistie und Kirche [2004]; trad. it.: Sacramento dell’unità. Eucaristia e Chiesa, trad. it., Queriniana, Brescia 2004, p.7.
[27] Kasper rifà poi a una celebre frase di padre Paul Couturier (Lione, 29 luglio 1881 – 24 marzo 1953), ideatore di un «ecumenismo spirituale», il quale auspicava che nella Chiesa si formasse «un monastero invisibile in cui si prega incessantemente per l’avvento dello Spirito» (cfr Walter Kasper, Sakrament der Einheit , trad.it., cit., p. 75).
[28] Cfr Giuseppe Siri, Dogma e liturgia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2014.
[29] Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[30] Il testo della Relazione introduttiva al dibattito concistoriale, munita di una Premessa e di due Appendici, è pubblicato in Walter Kasper, Das Evangelium von der Familie. Die Rede vor dem Konsistorium, Verlag Herder, Feiburg 2014; trad. it.: Il Vangelo della famiglia, Editrice Queriniana, Brescia 2014; il volume comprende anche le sue Considerazioni finali riguardo al dibattito svoltosi all’interno dell’assemblea dei cardinali e un Epilogo intitolato «Che cosa possiamo fare?».
[31] «Occorre badare a non favorire che prenda piede nella coscienza del fedele la convinzione fallace secondo cui la comunione sacramentale dell’eucaristia e la comunione spirituale siano sostanzialmente la stessa cosa. La convinzione della sostanziale identità tra comunione eucaristica e comunione spirituale condurrebbe infatti il fedele ad assuefarsi alla condizione di peccato grave abituale che gli impedisce la ricezione della comunione eucaristica, mettendo a repentaglio la salvezza della sua anima. Da una catechesi e da una pastorale che non siano limpide al riguardo il fedele potrebbe essere infatti indotto ad avvalorare il ragionamento seguente: la comunione spirituale produce i medesimi effetti della comunione eucaristica, non c’è differenza tra l’una e l’altra nel grado di unione a Cristo che realizzano, quindi il peccato grave che mi impedisce di ricevere la comunione eucaristica non è tale da interdirmi la medesima unione con Cristo che conseguirei con la recezione dell’Eucaristia. Conclusione: questo peccato grave (se ha ancora senso chiamarlo tale) non produce effetti così gravi da giustificare che io mi adoperi per emendarmene. Non mi pare inutile pertanto rimarcare che la comunione spirituale con Cristo da parte di chi, versando in situazione di peccato grave abituale, non può accostarsi alla comunione eucaristica, è dono largito dall’amore misericordioso di Cristo, che non vuole la morte del peccatore, ma incessantemente opera perché si converta e giunga a una perfetta comunione con Lui. La comunione spirituale deve pertanto essere vissuta (e i pastori debbono curare che sia intesa e praticata correttamente così) non come esauriente surrogato della comunione eucaristica ma come dono con il quale Cristo si unisce spiritualmente al fedele per infiammarlo di sempre più fervente desiderio di unirsi perfettamente a Lui, purificandosi dal peccato per poter accedere all’assoluzione sacramentale e alla comunione eucaristica» (Alessandro Martinetti, citato da Sandro Magister, “Settimo cielo”, inL’Espresso, 22 maggio 2014).
[32] Cfr Walter Kasper, Gerhart Sauter, Kirche – Ort des Geistes [1980]; trad. it.: La Chiesa luogo dello spirito.Linee di ecclesiologia pneumatologica , trad. it., Queriniana, Brescia 1980, p. 91.
[33] Walter Kasper, Das Absolute, trad. it. cit., p. 94. Come è noto, questa teoria (e la relative falsa interpretazione del dettato conciliare) è stata ufficialmente smentita dall’istruzione Dominus Iesus.
[34] Walter Kasper, Das Absolute, trad. it. cit., p. 206. La medesima tesi si ritrova, molti anni dopo, in Walter Kasper, Katholische Kirche. Wesen – Wirklichkeit – Sendung, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau/Basel/Wien 2011 (cfr trad. it.: Chiesa cattolica. Essenza, realtà, missione, Editrice Queriniana, Brescia 2012, p. 289).
[35] Vedi Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a cura diAntonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2015.
[36] Cfr Karl Rahner, Zur Theologie der Menschenwerdung, in Schriften zur Theologie, vol. IV, Einsiedeln 1960, pp. 145 ss.
[37] Cfr Hans Küng, Menschenwerdung Gottes. Eine Einfürung in Hegels theologische Denken als Prolegomena zu einer künftigen Christologie, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau 1970, pp. 522-557; 637-646.
[38] Die Frage nach Gott, herausgegeben von Joseph Ratzinger, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau 1971.
[39] Saggi sul problema di Dio, a cura di Joseph Ratzinger, Editrice Morcelliana, Brescia 1975.
[40] Cfr Walter Kasper, Unsere Gottesbeziehung angesichts der sich wandelden Gottesvorstellung, in Idem, Glaube und Geschichte, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1970, pp. 101-119; Idem, Möglickheiten der Gotteserfahrung heute, in Idem, Glaube und Geschichte, pp. 120.143.
[41] «In Rahner e nella vasta scuola (non si sbaglierebbe troppo se si dicesse che oggi è, forse, la dominante, almeno in sede accademica) a lui ispirata o prossima il mondo (de facto il mondo moderno, ovvero la modernità assiologica) diviene, in forza d’una ridefinizione del rapporto tra Dio e la Storia, della nozione di Rivelazione e del concetto stesso d’Incarnazione e di molto altro, luogo teologico, anzi “il” luogo teologico» (Samuele Ceccotti, “La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti e la non negoziabilità dei principi contrari all’ordine naturale”, in Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, 23 luglio 2015)
[42] Walter Kasper, La questione di Dio come problema della predicazione, in Saggi sul problema di Dio, cit., p. 182.
[43] Walter Kasper, La questione di Dio come problema della predicazione, in Saggi sul problema di Dio, cit., p. 183.
[44] Vedi, ad esempio, quanto si legge nella Lettera di Giacomo, 16-18: «Non lasciatevi ingannare, fratelli miei carissimi; ogni buona donazione e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre dei lumi, presso il quale non vi è mutamento né ombra di rivolgimento. Egli ci ha generati di sua volontà mediante la parola di verità, affinché siamo in certo modo le primizie delle sue creature».
[45] Cfr Paolo VI, enciclica Mysterium fidei, 3 settembre 1965.
[46] Vedi Giuseppe Siri, Dogma e liturgia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2014.
(Fonte:
Antonio Livi, Disputationes
Theologicae, 19 agosto 2015)
http://disputationes-theologicae.blogspot.it/2015/08/leucarestia-secondo-kasper.html#more
Nessun commento:
Posta un commento