Dai tempi
apostolici, come attesta il discorso di Paolo all’Areopago, non si è mai smesso
di dubitare della veridicità della risurrezione di Gesù Cristo. Anzi, egli non
era ancora asceso al cielo e, come il vangelo di Matteo annota: “Quidam autem dubitaverunt!” (alcuni
però avevano dubitato: Mt 28,17).
Alcuni anni
fa a Gerusalemme ci fu sul tema un dibattito teologico: il teologo cattolico
ricorse alla ‘leggenda eziologica’ per spiegare l’avvenimento, e quello
ortodosso reagì al punto da abbandonare l’incontro; così sulla risurrezione
inciampò anche il dialogo ecumenico cattolico-ortodosso, proprio nella Città
Santa. Ai nostri giorni, il dubbio sulle ‘prove’ della risurrezione è stato
alimentato proprio da taluni esegeti e cristologi, contro tutta la tradizione
della Chiesa, quella tradizione che il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum, descrive
come ciò che rende possibile l’accesso al vero senso del testo della Scrittura.
Si è adottata la perifrasi ‘evento pasquale’ e si è immaginato un Cristo
pre-pasquale in contraddizione con quello post-pasquale. Forse il popolo
cristiano non è stato molto toccato da ciò, malgrado non pochi preti e docenti
di seminario abbiano attinto ampiamente, come a materia canonizzata, ai vari
Raymond E. Brown, Pierre Benoit e Marie-Emile Boismard. Qualche direttore di
ufficio catechistico ha anche invitato i catechisti e gli insegnanti di
religione alla prudenza: a non dire che Cristo è risorto, ma che i discepoli
hanno detto che egli è risorto!
Anche in
Italia non sono mancati i divulgatori di questa teologia debole e derivativa.
Per esempio,
in uno dei suoi studi, Bruno Forte comincia con l’attribuire scarso valore
storico ai racconti del sepolcro vuoto, ritenendo questo argomento ambiguo e
frutto del lavoro redazionale degli evangelisti; quindi, sulla scia di autori
come G. Schille, L. Schenke, E. Schillebeeckx, lo considera appunto una
“leggenda eziologica”, ovvero un artificio per suffragare il culto che i
giudeo-cristiani svolgevano al luogo della sepoltura di Gesù.
Inoltre, il
dato della tomba vuota viene ritenuto ambiguo, perché suscettibile di svariate
interpretazioni e perciò incapace di fondare la fede nella risurrezione. Per
cui, al contrario, secondo un tipico procedimento bultmanniano, sarebbe la fede
ad interpretare il sepolcro vuoto, il quale non aggiungerebbe né toglierebbe
nulla all’esperienza degli apostoli che confessarono la risurrezione e la
glorificazione di Cristo, cioè la sua signoria sulla morte (cfr. B. Forte, Gesù
di Nazareth storia di Dio, Dio della storia, Cinisello B. 1994, 7ed., p 103).
Si dovrebbe
dedurre di conseguenza, che, qualora la risurrezione fosse storicamente
avvenuta, la fede sarebbe superflua. Inoltre, riferendosi a Mc 16,1-8, Forte
ritiene “inverosimile” che le donne si siano recate al sepolcro per “ungere un
cadavere a tanta distanza dalla morte” (Ibid., p 103, n 31). Il sepolcro vuoto
è all’origine di una suggestione mitica dei discepoli, ereditata dai cristiani
(cfr. Ibid., p 103, n 35). Dunque, il sepolcro vuoto, come altri particolari
evangelici riguardanti la risurrezione, sarebbe una ‘prova’ fabbricata dalla
comunità (V. Messori, Dicono che è risorto, Un’indagine sul Sepolcro vuoto,
Torino 2000, p 86).
Che dire?
Nelle Vite dei Profeti, un documento del I secolo, è attestato che i capi
religiosi giudei usavano recarsi a pregare presso i sepolcri intorno a
Gerusalemme, molti dei quali sono stati messi in luce dagli archeologi.
Chi conosce
il giudaismo sa che la mishna e il talmud prescrivevano che i sepolcri
rimanessero aperti per tre giorni dal momento della sepoltura di un defunto,
onde permettere i riti di pietà come l’unzione, che, infatti, veniva ripetuta
sui cadaveri già avvolti nei teli; però, in prossimità delle grandi festività
giudaiche come la Pasqua, i sepolcri venivano chiusi temporaneamente. Quindi,
anche i discepoli di Gesù si apprestavano ad osservare tali prescrizioni (cfr.
Mc 16,6), se non fosse intervenuta la risurrezione.
Infatti la
sepoltura del suo corpo era stata fatta in tutta fretta a motivo della
parasceve pasquale, pertanto bisognava ritornare a completare l’operazione.
Tutto questo avvalora ulteriormente l’importanza del sepolcro vuoto. Ma Bruno
Forte lo ignora.
In realtà,
come Vittorio Messori ha osservato, sussiste “in molti biblisti contemporanei,
pur di formazione e convinzioni cristiane, la persuasione sociologica che
l’uomo ‘moderno’ non potrebbe accettare l’idea di una risurrezione
corporale…”(Ibid., p 87): per loro quel che conta è ‘l’esperienza’ soggettiva
degli apostoli e non l’avvenimento storico della risurrezione.
Allora, ci si
dovrebbe chiedere: se il sepolcro vuoto non avesse avuto alcuna importanza,
perché l’angelo avrebbe invitato a vedere il luogo dove era stato deposto il
Signore? (cfr. Mc 16, 5 s). Se lo fece, non fu perché le donne non ne
conoscessero l’ubicazione, ma perché constatassero di persona lo stato dei teli
funerari, come meglio e con sguardo d’aquila farà Giovanni, sì che ‘vide e
credette’(cfr. Gv 20,8).
Il sepolcro
vuoto è ‘prova’ della risurrezione perché in esso le bende e il sudario erano
come svuotati, anzi, ad osservarli attentamente, davano la sensazione che non
fosse trascorso molto tempo. Così, il sepolcro vuoto appartiene al segno di
Giona promesso dal Maestro.
Come ben
ricorda Messori, l’invito dell’angelo a visitare la tomba vuota è del tutto
collegato ai segni del mistero che vi si era appena compiuto (cfr. Ibid., p
143). L’angelo rimosse la pietra dall’ingresso del sepolcro dopo che Cristo era
risorto; così la fede nasce dalla risurrezione e non il contrario, a meno che
non si ritenga che anche l’angelo sia un genere letterario.
Dunque, nel
sepolcro vuoto non v’è ambiguità, anzi vi sono i segni che provano la
risurrezione; più che da interpretare c’è da vedere e credere; quindi il
sepolcro vuoto “aggiunge” molto – e come! – all’esperienza apostolica della
risurrezione, altrimenti, secondo san Paolo, non sussisterebbe la fede (cfr.
1Cor 15,14). È proprio il contrario di ciò che sostiene Bruno Forte.
Ora, il
sepolcro vuoto è capace di fondare la fede nella risurrezione; non è argomento
con “qualche contenuto storico”; anzi, proprio le “incongruenze storiche” stanno
a dimostrare che il cosiddetto “lavoro redazionale dell’evangelista” non era
teso ad annullarle ma a rispettarle, in quanto collegate ad un fatto
storicamente avvenuto. La Chiesa di certo non le ha attenuate nella
proclamazione delle Scritture; pertanto, si deve affermare che ancora oggi “La
struttura della parola è sufficientemente univoca” (J. Ratzinger, Che cos’è la
teologia? in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B., 2004, p 32).
A questo
punto, il sepolcro vuoto si dimostra come un fatto degno d’essere raccontato e
un argomento che prova la risurrezione del Signore: perciò dalle origini ad
oggi ha motivato il culto a Gerusalemme e il pellegrinaggio da tutto il mondo.
Il sepolcro trovato vuoto non si può spiegare naturalmente, perché appartiene
ai fatti straordinari provati storicamente: cioè che Gesù era stato sepolto in
una tomba nuova e che fu visto (oftê), risorto ‘in carne ed ossa’ (Lc 24,39),
da Cefa e da molte altre persone (si veda la lista in 1Cor 15,5-7). Se la tomba
non fosse stata vuota, gli apostoli non avrebbero potuto predicare in
Gerusalemme; nemmeno ai Giudei fu possibile negarlo, sebbene accusassero gli
apostoli d’aver trafugato il corpo (cfr. Mt 28,11-15). Se la tomba non era
vuota, e il corpo di Gesù continuava a giacervi, subendo la decomposizione,
così che tutt’oggi avremmo potuto trovarvi i suoi resti, le sue ossa, Gesù non
è risorto.
La tomba
vuota non è la condizione sufficiente per la fede nella risurrezione, ma è la
condizione necessaria: quello che confessiamo dicendo ch’egli è risorto,
precisamente che il suo corpo non è rimasto morto. Diversamente ci sarebbe
soltanto la sopravvivenza dell’anima, e l’anima di tutti è sempre, per
definizione, immortale (per natura sua, come insegna l’Aquinate, o per speciale
decreto divino, come dice Scoto).
Oppure, come
vorrebbero appunto i demitizzatori vari, idealisti e liberal protestanti, si
tratterebbe meramente di una sopravvivenza ideale, morale, che non aggiunge
niente a quella di qualsiasi personaggio venerato o persona amata. Inutile,
parlare della convinzione dei discepoli ch’egli sia sempre vivo, se poi di
fatto non lo sia. E allora, secondo san Paolo, saremmo i più miserabili degli
uomini (cfr. 1Cor 15,19).
Confessare
Gesù risorto vuol dire che la tomba è realmente vuota, ch’egli vive in anima e
corpo, che il suo corpo non è rimasto nella tomba e non ha subito
decomposizione, ecc. Dire che questo non importa vuol dire non credere nella
risurrezione. Ad onta del ‘pensiero debole’ diffuso tra taluni teologi ed
ecclesiastici, la liturgia, come nel communicantes del canone romano, afferma
la risurrezione di Cristo “nel suo vero corpo”.
In verità,
“Il messaggio della risurrezione continua ad essere accompagnato e contrastato
dal dubbio, anche se alla fine si rivela essere un messaggio vincente capace di
superare tutti i dubbi” (J. Ratzinger, Dio e il mondo, Cinisello B., 2001, p
306), ad onta del ‘pensiero debole’ militante tra teologi ed ecclesiastici
spiritualisti. Surrexit Dominus vere!
(Fonte:
Nicola Bux, La Terra Santa, Anno LXXX
Luglio-Agosto 2004, p 9-11.
Nessun commento:
Posta un commento