mercoledì 19 settembre 2018

Attacco del Vaticano alla vita monastica contemplativa

La pesantezza di questo attacco è stata avvertita con molta preoccupazione in tanti monasteri, ai quali ha dato voce il vaticanista Aldo Maria Valli in queste tre analisi concatenate, pubblicate pochi giorni fa:

1. Qualcuno vuole liquidare il monachesimo?
L’esortazione apostolica “Vultum Dei quaerere” e la sua Istruzione Applicativa “Cor orans”: ovvero come colpire l’autonomia dei monasteri
Nell’esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et exsultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018) a un certo punto, nella sezione dedicata a L’attività che santifica, si legge: “Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione” (n. 26).
Come mi succede spesso con Francesco, ho letto e riletto più volte il passaggio, con crescente sconcerto. Il mio collega Marco Tosatti, di fronte a quelle parole, ha commentato: “Saranno felici le suore di clausura e i religiosi contemplativi. In cinque righe il Pontefice regnante liquida un paio di millenni di monachesimo contemplativo, maschile e femminile”.
Ciò che colpisce è la confusione unita alla superficialità, il tutto condito con il livore. Come sarebbe a dire che “non è sano amare il silenzio”? E come si può pensare che amare il silenzio voglia dire “desiderare il riposo”? E come si può pensare che “ricercare la preghiera” sia qualcosa da contrapporre al servizio? E perché mettere “l’incontro con l’altro” in cima a tutto quando, semmai, ciò che conta è l’incontro con Dio?
Tutto in quelle parole mi sembra sbagliato, frutto di una visione difficilmente comprensibile. In ogni caso non ci ho più pensato.
Poi, pochi giorni dopo l’uscita di Gaudete et exsultate (documento che non mi convince sotto molti altri aspetti), il Vaticano rende nota Cor orans, istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, che porta la data del 1° aprile 2018 e le firme del cardinale João Braz de Aviz e di monsignor José Rodríguez Carballo, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
Testo prolisso (108 pagine nell’edizione della Libreria Editrice Vaticana), Cor orans è una sorta di manuale di applicazione di Vultum Dei quaerere, la costituzione apostolica sulla vita contemplativa femminile firmata da Francesco il 29 giugno 2016.
La cosa curiosa è che Vultum Dei quaerere (sempre nell’edizione della Libreria Editrice Vaticana) conta 62 paginette, contro le 108 del manuale che serve per applicarla. Perché tanto puntiglio? Che cosa c’è in  gioco?
Colpito negativamente dalle parole di Gaudete et exsultate riportate all’inizio, ho riletto Vultum Dei quaerere sotto una nuova luce e mi sono accostato a Cor orans con un certo sospetto. Mi sono chiesto: dove sta l’inganno? Vuoi vedere che davvero qualcuno è al lavoro, per usare il termine di Tosatti, per liquidare il monachesimo (in questo caso femminile)?
Vultum Dei quaerere all’apparenza è un documento che elogia coloro che compiono la scelta della vita contemplativa all’interno di comunità “poste come città sul monte e lampade sul lucerniere” (n. 2), ma, in concreto, come ha osservato Hilary White su The Remnant  (https://remnantnewspaper.com/web/index.php/fetzen-fliegen/item/3906-pope-francis-vs-contemplative-orders) se lo si legge con gli occhiali messi a disposizione da Cor orans si scopre che la costituzione è una sorta di “palla da demolizione” del monachesimo, almeno così come la Chiesa l’ha conosciuto fino a oggi.
Stiamo per entrare in un campo eminentemente giuridico e quindi complicato. In questi casi sembra che l’autorità cerchi di prendere i destinatari per sfinimento, così che a un certo punto dicano: va bene, avete ragione voi. Ma non bisogna arrendersi tanto facilmente.
Con Vultum Dei quaerere si fa piazza pulita di ciò che la Chiesa ha prodotto in precedenza in materia: articoli del Codice di diritto canonico, costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII (1950), istruzione Inter praeclara della Sacra congregazione per i religiosi (1950), istruzione Verbi sponsa sulla vita contemplativa e la vita delle monache (1999). Nelle disposizioni finali il tono è perentorio: superare tutto. Ma perché? Con quale scopo?
Leggendo con attenzione si scopre che la questione è l’autonomia (a tutti i livelli) dei monasteri. È questa autonomia che si vuole colpire. È questa autonomia, antica e radicata, che si vuole superare. E di nuovo torna la domanda: perché?
Prima di rispondere occorre ricordare che cos’è un monastero e quale valore ha la sua autonomia.
All’interno di un ordine religioso (San Benedetto, San Domenico, Santa Chiara eccetera), ogni monastero nasce come piccola isola di un arcipelago, nel quale i collegamenti con gli altri monasteri sono spontanei e comunque blandi. Contrariamente alle case delle congregazioni religiose femminili, i monasteri di monache sono sui iuris: significa che, in relazione al regime interno, sono autonomi e indipendenti. Hanno quindi il diritto di governarsi da soli senza essere soggetti ad altri superiori oltre a quello interno, eletto dal capitolo. L’abbadessa, o priora, governa la comunità senza che i suoi atti siano verificati, moderati o confermati da un altro superiore maggiore. I monasteri non hanno tra loro relazione o subordinazione alcuna in quanto al regime, ma sono assolutamente e perfettamente indipendenti. Tra loro e con l’ordine religioso sono uniti da vincoli morali e spirituali, in quanto riconoscono tutti il medesimo fondatore o la medesima fondatrice, professano la stessa regola, godono degli stessi privilegi, si aiutano con suffragi e con la fratellanza di orazioni e comunicazioni spirituali. In base all’autonomia, i sudditi si aggregano per tutta la vita alla comunità e con la professione s’incorporano direttamente ad essa, prima ancora che all’ordine. Ecco perché ogni monastero ha il suo noviziato e lo spirito comune dell’ordine offre  in ciascuno di essi modalità particolari, con uno spiccato carattere familiare, così che i membri formino una famiglia permanente sotto il governo dell’abbadessa o priora.
Per ciò che riguarda l’esterno, i monasteri dipendono dal papa come loro superiore supremo, ma sono anche sottoposti alla vigilanza (non all’autorità) dell’ordinario del luogo o dei superiori dell’ordine maschile corrispondente, se sono ad esso collegati. L’autonomia e la mutua indipendenza dei monasteri, “ottenuta piuttosto di fatto che di diritto” (art. VII, par.2 degli Statuti generali delle monache di Pio XII, 1950), derivano dall’organizzazione e dal carattere particolare che la regola di San Benedetto diede all’istituzione monastica e in particolare, per i monasteri femminili, è la diretta conseguenza della stretta clausura e della vita contemplativa, alla quale le monache si dedicavano totalmente ed esclusivamente.
Le norme applicative della regola, ossia le costituzioni e gli eventuali altri codici, dopo aver ricevuto l’approvazione della Santa Sede, possono variare da un singolo monastero a un altro. Le differenze tra monasteri dello stesso ordine, pur poggiati sulla stessa regola, possono quindi essere notevoli. Ogni monastero, di solito radicato nella realtà locale, declina la propria spiritualità in modo originale, dando vita a tradizioni che attraverso i secoli rendono i monasteri stessi altrettanti universi completamente unici e diversi tra loro.
Ma ecco che a un certo punto entra in campo un nuovo soggetto: si tratta delle federazioni. Previste dalla costituzione apostolica di Pio XII Sponsa Christi (21 novembre 1950), che le incoraggia e raccomanda, ma non le impone, le federazioni vogliono essere uno strumento per l’aiuto reciproco. Siamo nel dopoguerra e moltissimi monasteri versano in condizioni critiche, anche per quanto riguarda i beni materiali. Le federazioni di monasteri nascono quindi come organizzazioni di supporto. Di fatto però, nel corso degli anni, finiscono col mettere a repentaglio l’autonomia attraverso continue intrusioni nella vita comunitaria e pressioni psicologiche perché tutte le comunità si uniformino alla linea dettata dalla maggioranza. Spesso ci sono conseguenze negative sulla vita spirituale delle singole monache. Inoltre l’alternanza tra due autorità (da una parte l’abbadessa, dall’altra la presidente della federazione) crea conflitti e confusione, esponendo le monache, almeno quelle più fragili e meno preparate a fronteggiare i drammi di coscienza, alla paura di mancare all’obbedienza e ai voti, senza contare le spaccature all’interno delle comunità e i continui disturbi alla vita di contemplazione.
Insomma, in base a questa esperienza devastante, un provvedimento sensato sarebbe stata l’abolizione delle federazioni, o per lo meno un loro deciso ridimensionamento, così da consentire il rispetto delle tradizioni religiose sotto ogni profilo (spirituale, liturgico) e il ritorno alla piena autonomia. Invece avviene esattamente il contrario. Con Vultum Dei quaerere, infatti, le federazioni sono rese obbligatorie e Cor orans, attraverso i suoi 289 punti, lo ribadisce nel dettaglio, inserendo i monasteri all’interno di una struttura burocratica che non ha nulla a che fare con la loro indipendenza ma, anzi, sembra fatta apposta per svilirla. Infatti oltre alle federazioni abbiamo le associazioni dei monasteri, le conferenze dei monasteri, le confederazioni, le commissioni internazionali e le congregazioni monastiche. Tutti organismi dotati di loro organi di governo, secondo una logica che sembra mutuata da quella dei partiti politici e dei sindacati.
Questa ossessione per l’organizzazione piramidale e il controllo oscura completamente il senso più profondo della vita monastica. Orazione e adorazione diventano quasi un dettaglio. In primo piano c’è invece la struttura, pensata per mortificare l’autonomia e “normalizzare” le comunità.
Ma è tutta l’impostazione ad apparire distorta. In Cor orans un campanello d’allarme suona subito, al punto 19, dove leggiamo: “Un monastero di monache, come ogni casa religiosa, viene eretto tenuta presente l’utilità della Chiesa e dell’Istituto”. Come sarebbe a dire “tenuta presente l’utilità”? Da quando in qua per una comunità di contemplative si pone come fondamentale il criterio dell’utilità? E in che modo, poi, si può determinare l’utilità di un monastero nel quale le suore, magari di stretta clausura, trascorrono la vita in preghiera? In che modo un monastero, per giustificare la propria esistenza, può dimostrare di essere “utile”?
Il criterio dell’utilità si collega a quello dell’azione. Sei utile se accogli il migrante, se curi il malato, se educhi il bambino, se aiuti il povero. Ma se sei un monastero di vita contemplativa, la tua “utilità” è di altro tipo.
Al documento però non sembra interessare più di tanto la qualità della vita di preghiera, che in fin dei conti corrisponde all’identità stessa di un monastero. Ciò che Cor orans fa con grande impegno è invece sottolineare la necessità della “continuità” con il Concilio Vaticano II e la sua teologia, alla luce delle mutate condizioni sociali. Dunque, se una comunità monastica, in virtù della sua spiritualità e di una tradizione secolare, volesse per esempio pregare e rendere gloria a Dio mediante il rito antico, sarebbe fuori legge?
Continueremo in un prossimo articolo l’esame dei nodi critici dell’istruzione applicativa Cor orans, che mettendo a rischio autonomia e indipendenza dei monasteri costituisce un attacco a un secolare e prezioso patrimonio di fede.

2. Se nel nome del rinnovamento si distrugge la vita contemplativa.
Vultum Dei quaerere e Cor Orans: tra ambiguità e incongruenze
Nel precedente paragrafo ci siamo occupati del rischio che i monasteri femminili stanno correndo, sotto il profilo della loro autonomia e quindi della loro stessa vita, a causa dei contenuti di Vultum Dei quaerere, la costituzione apostolica sulla vita contemplativa del 29 giugno 2016, e di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, documenti che rendono obbligatoria l’affiliazione dei monasteri alle federazioni.
Proprio in Cor orans, balza agli occhi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “superino l’isolamento” (n. 7). Ma il fatto che un monastero si isoli, vista la sua natura, dovrebbe essere un valore da promuovere, non un limite da superare.
Troviamo poi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “promuovano l’osservanza regolare e la vita contemplativa” (n. 7), ma l’esperienza ha dimostrato che le federazioni non hanno fatto questo. In realtà esse hanno imposto uscite continue e confronti, hanno introdotto disturbi e squilibri, e in tal modo non hanno favorito la vita contemplativa, ma l’hanno piuttosto minata, perché uscite, riunioni, discussioni e corsi sono fattori che nulla hanno a che fare con la spiritualità di chi decide di ritirarsi dal mondo per vivere nella preghiera.
Ma il documento, soprattutto, mette a repentaglio l’autonomia giuridica del monastero. Leggiamo infatti che “l’autonomia giuridica deve essere costantemente verificata dalla Presidente [della federazione], a suo giudizio” (n. 43). Inoltre (n. 45) se le monache sono meno di cinque perdono il diritto di eleggere la propria superiora e “in tal caso la Presidente federale è tenuta a informare la Santa Sede” in vista della nomina di una “Commissione ad hoc”.
Proseguiamo. Al n. 54 leggiamo che l’affiliazione alla federazione “è una particolare forma di aiuto che la Santa Sede viene a stabilire in particolari situazioni in favore della comunità di un monastero sui iuris che presenta un’autonomia solo asserita, ma in realtà assai precaria o, di fatto, inesistente”. Ma quali sarebbero queste “particolari situazioni”? Chi le stabilisce? Secondo quali criteri? E chi può dire che un’autonomia è “solo asserita”? Se la presidente di una federazione stabilisce che una comunità ha un’autonomia “solo asserita” chi può assicurare che il suo sia un giudizio imparziale?
In realtà la preoccupazione principale sembra non quella di fare di tutto per garantire la vita delle comunità, ma di arrivare, attraverso lo strumento della federazione, alla loro soppressione. Leggiamo al n. 55: “L’affiliazione si configura come un sostegno di carattere giuridico che deve valutare se l’incapacità di gestire la vita del monastero autonomo in tutte le sue dimensioni sia solo temporanea o irreversibile, aiutando la comunità del monastero affiliato a superare le difficoltà o a disporre quanto è necessario per addivenire alla soppressione di detto monastero”. Capolavoro di ipocrisia: quello che è detto un “sostegno” per il “monastero autonomo” è invece, in pratica, l’organismo che ha su di esso il potere di vita o di morte.
E il potere della federazione è confermato al n. 56, dove si stabilisce che nella “Commissione ad hoc”, in parole povere un tribunale, dovrà entrare la “Presidente della Federazione”.
Un’espressione ambigua si trova al n. 70, dove scopriamo che “fra i criteri che possono concorrere a determinare un giudizio riguardo alla soppressione di un monastero” c’è la “fedeltà dinamica” nel vivere e trasmettere il carisma. Che significa “fedeltà dinamica”? La fedeltà è fedeltà. Se non c’è la fedeltà c’è l’infedeltà, il tradimento. Essere “dinamici”, nell’ottica di Cor orans,  vuol dire forse adeguarsi al mondo? Cedere al modernismo? O piegarsi ai diktat della federazione?
Altra ambiguità al n. 72, dove, a proposito dei beni di un monastero soppresso, scopriamo che la Santa Sede può disporre di attribuirli “alla carità” oltre che alla federazione o alla “Chiesa locale”. Che significa “carità”? A chi andranno i beni? E in base a quali criteri?
Al n. 74 viene detto che la vigilanza “necessaria e giusta” sui monasteri deve essere “esercitata principalmente – se non esclusivamente – mediante la visita regolare di un’autorità esterna ai monasteri stessi”, e al n. 75 si precisa che tale compito spetta alla “Presidente della Congregazione monastica femminile”, “al superiore maggiore dell’Istituto maschile consociante” e “al vescovo diocesano”, ma al successivo n. 111 scopriamo che “la Presidente della Federazione, nel tempo stabilito, accompagna il Visitatore regolare nella visita canonica ai monasteri federati come convisitatrice”. In pratica, una supervisione che, ancora una volta, assegna un grande potere alla federazione.
Vediamola un po’ più di vicino, allora, questa federazione di monasteri. La sezione di Cor orans ad essa dedicata è la seconda, dove in primo piano viene messa (n. 86) l’esigenza che i monasteri “non rimangano isolati”, perché “valore irrinunciabile” è quello della “comunione”. Ma chi l’ha detto? La parola stessa, monastero, dal latino monastērĭum e dal greco antico μοναστήριον (monastrion), deriva da  μόνος (mónos: solo, unico), e μονακός (monakós) vuol dire solitario, eremita. Il vero valore irrinunciabile del monastero non sta certamente nella comunione, né con altri monasteri né con altre realtà religiose, ma nella sua unicità e anche nel suo isolamento.
Ma le contraddizioni non finiscono qui. Al successivo n. 87 si dice che “la federazione è costituita da più monasteri autonomi che hanno affinità di spirito e di tradizione e, anche se non sono configurate necessariamente secondo un criterio geografico, per quanto possibile, non devono essere geograficamente distanti”. Di nuovo viene da chiedersi: perché? Che importanza può avere tutto questo? L’unico disegno che si vede dietro tali indicazioni, ancora, è di affermare il ruolo e la funzione della federazione. Un ruolo che arriva fino a garantire “l’aiuto nella formazione iniziale permanente” e promuovere “lo scambio di monache e di beni materiali”, con tanti saluti all’autonomia del monastero!
E a proposito di autonomia, enunciata a parole ma nei fatti negata, ecco che al n. 93 il documento svela le carte: “A norma di quanto disposto nella Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, tutti i monasteri inizialmente devono entrare in una Federazione”. Quell’”inizialmente” dice tutto: di fatto si tratta di un obbligo inderogabile. E l’affiliazione ha un significato precipuo: amministrare i beni dei monasteri.
Al n. 98 leggiamo: “Per tenere viva e rafforzare l’unione di monasteri (di nuovo: come se fosse questo lo scopo decisivo del monastero, ndr), attuando una delle finalità della Federazione, viene favorita tra i monasteri una certa comunicazione di beni, coordinata dalla Presidente federale”.
“Una certa comunicazione di beni”? Che significa? L’unica cosa chiara è che se ne deve occupare la federazione, nella persona della sua presidente.
E che dire del successivo n. 99? Eccolo: “La comunicazione dei beni in una federazione si attua mediante contributi, doni, prestiti che i monasteri offrono per altri monasteri che si trovano in difficoltà economica e per le esigenze comuni della Federazione”. Contributi, doni, prestiti? E chi decide chi dona a chi, chi presta a chi? E in quale misura? E per quali motivi? Ovviamente decide la federazione, che così acquisisce un ulteriore potere. Con tanti saluti, di nuovo, all’autonomia dei singoli monasteri.
Con gli esempi si potrebbe continuare a lungo. A un certo punto, sempre a proposito di beni (argomento principe), si stabilisce che presso la federazione dovrà essere costituito “un fondo economico (cassa federale)” il cui scopo è quello di “realizzare le finalità federative”. Quali? Non è chiaro. Molto chiaro è invece che il fondo sarà amministrato dalla presidente della federazione, specie per quanto riguarda (n. 109) “l’alienazione dei beni dei monasteri totalmente estinti”.
La presidente della federazione ha un potere enorme. Ma chi la controlla? Chi ha autorità su di lei? Al n. 110 scopriamo che sarà eletta “dall’Assemblea federale” e che “non è una Superiora maggiore”. Di fatto, la presidente della federazione sta al di sopra anche delle superiori maggiori, il che determina, di nuovo, un vulnus per l’autonomia e l’indipendenza del monastero, tanto è vero che (n. 141) ci saranno norme che le suddite saranno tenute ad osservare anche contro la volontà della propria abbadessa, e la presidente della federazione potrà addirittura decidere in merito al passaggio di una monaca da un monastero all’altro, anche a fronte di un rifiuto da parte della superiora maggiore (n. 122).
Pure a proposito delle visite (di ogni tipo: canoniche, materne, sororali) la discrezionalità della presidente della federazione (“ogni volta che la necessità lo richiede”) è totale. In più, al termine delle visite la presidente “indica per iscritto alla Superiora maggiore del monastero le soluzioni più adatte ai casi e alle situazioni emerse durante la visita e ne informa la Santa Sede” (n. 115). Insomma, la presidente comanda e la superiora esegue. E l’autorità del vescovo che fine ha fatto?
Nel successivo punto (n. 116) scopriamo poi che la presidente della federazione, durante la visita canonica, verifica che siano osservate “le norme applicative” stabilite da Vultum Dei quaerere. Ecco che cosa interessa. Non la vita di preghiera, non la penitenza, non il digiuno, non la qualità della vita fraterna, non le relazioni tra sorelle, non la fedeltà al carisma, ma l’aderenza alle nuove norme.
Circa, in particolare, la formazione iniziale, se la presidente scopre che, a suo insindacabile giudizio, qualcosa non va, come procede? Informa la superiora? Ne parla con le monache? No, “informerà la Santa Sede” (n. 117).
Che si tratti di un intervento dal significato punitivo lo si desume dall’uso ripetuto del verbo “deferire”. Se il monastero non si mostra disponibile e pronto ad accogliere tutti i comandi nel campo della formazione, la presidente “deferisce la cosa alla Santa Sede”, e lo stesso avviene “per coloro che sono chiamate a esercitare il servizio dell’autorità”. Insomma, controllo e dominio totali.
Interessante è poi scoprire che il potere della presidente della federazione arriva fino al punto di scegliere “i luoghi più adeguati” nei quali tenere i corsi di formazione (i monasteri non vanno bene? Pare di no. Infatti attualmente le federazioni scelgono luoghi “adeguati” quali alberghi e resort) e stabilire la durata dei corsi stessi. Quanto deve durare un corso? Una settimana? Un mese? Un anno? Non si sa. Ma niente paura: ci pensa la presidente della federazione.
Un’altra conseguenza chiara è che le monache dovranno uscire piuttosto spesso dal monastero. Stabilito (n. 133) che l’assemblea federale ha il compito di “promuovere un adeguato rinnovamento” (ma perché? Chi lo dice che il rinnovamento sia un valore?), il documento prevede ben tre tipi di assemblea: ordinaria, intermedia e straordinaria. In una logica che sembra appartenere più a un partito politico o a un sindacato che alla vita contemplativa, le monache sono coinvolte in un tourbillon di incontri assembleari che si aggiungono a tutte le altre uscite, per i corsi, le riunioni, le visite eccetera. Uno strano modo di tutelare e promuovere la vita di preghiera e contemplazione.
Molti altri sono i punti che negano nei fatti l’autonomia dei monasteri e ne mettono a rischio la vita religiosa. Si pensi alla figura della segretaria della federazione (che, come la presidente, dura in carica sei anni, contro i tre della maggior parte delle superiore dei monasteri), la quale può risiedere in un monastero di sua scelta, circostanza che ha determinato danni immensi: intrusioni, sotterfugi, confronti, conflitti tra segretaria e abbadessa.
In Cor orans la sezione dedicata alla separazione dal mondo (l’aspetto più significativo nella vita delle monache) è la terza, dove vediamo che la Santa Sede ha rimaneggiato l’istruzione Verbi sponsa del 1999.
Per i mass media è questa la parte che più delle altre ha fatto notizia, perché vi si trovano le norme sull’uso dei mezzi di comunicazione nei monasteri, ma dal punto di vista sostanziale ciò che conta è quanto si prevede a proposito di clausura papale, ovvero quella conforme alle norme stabilite dalla Sede apostolica.
Qui ciò che più colpisce è l’abolizione dell’aggettivo “grave” che in Verbi sponsa era ripetutamente usato a proposito di obbligatorietà della clausura, uscite e ingressi.  Per esempio, se in precedenza si diceva che “la concessione della licenza di entrare e di uscire richiede sempre una causa giusta e grave” (VS n. 15), ora  si parla soltanto di “giusta causa” (CO, n. 194).
Anche in questa sezione non mancano le contraddizioni (per esempio si dice che la vigilanza sull’osservanza della clausura spetta al vescovo diocesano o all’ordinario religioso, ma subito dopo si dice che in deroga a quanto disposto dal Codice di diritto canonico il vescovo e l’ordinario non intervengono nella concessione delle dispense) e le ambiguità, ma forse il vertice dello sconcerto lo si raggiunge nella sezione dedicata alla “formazione permanente” (altra definizione tratta dal mondo, come se fare la monaca fosse una professione) dove non si parla mai, ripeto mai, di preghiera. Si dice invece (n. 237) che “ogni monaca è incoraggiata ad assumere la responsabilità della propria crescita umana, cristiana e carismatica, attraverso il progetto di vita personale, il dialogo con le sorelle della comunità monastica, e in particolare con la Superiora maggiore, così come attraverso la direzione spirituale e gli appositi studi contemplati negli Orientamenti per la vita monastica contemplativa”. Ora, a parte la forma (gli studi contemplati per la vita contemplativa), provate a sostituire alla parola “monaca” la parola “manager”: vedrete che non cambierà gran che. La dimensione è tutta orizzontale, di tipo tecnico e funzionalistico. Non si parla di Dio, di adorazione, di vita di preghiera. Sembra che per fare la monaca l’importante sia frequentare “gli appositi studi”.
Il testo poi sembra non rendersi conto dei problemi pratici quando afferma (n. 263) che “compete alla Superiora maggiore con il suo Consiglio, tenendo conto di ogni singola candidata, stabilire i tempi e le modalità che l’aspirante trascorrerà in comunità e fuori dal monastero”. Si può immaginare il disturbo arrecato alla comunità monastica dal dentro-fuori, ma, soprattutto, viene da chiedersi: come può essere possibile questo doppio regime? Dove va a vivere una giovane quando è fuori se non è tanto ricca da permettersi un appartamento? E se poi viene chiamata a trascorrere alcuni mesi in monastero che cosa fa? Mantiene comunque un appartamento che non usa? Va in albergo? Va dai genitori? E se arriva dall’estero?
Il documento sembra scritto da chi non conosce, o non vuole conoscere, le reali condizioni di vita nei monasteri.

3. Con lo sguardo rivolto al mondo, non a Dio. Ovvero come snaturare la vita contemplativa.
Fine dell’autonomia, burocratizzazione, abbandono della tradizione. La strada sbagliata di Cor orans e Vultum Dei quaerere
Proseguiamo l’analisi di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, il documento che rende operativi i principi contenuti in Vultum Dei quaerere, la nuova costituzione apostolica sulla vita contemplativa femminile.
Quelle che Cor orans definisce “disposizioni finali” assomigliano molto a minacce.
Prima di tutto è scritto nero su bianco che entrare in una federazione è un “obbligo”, il che di per sé mette fine all’autonomia dei monasteri stessi. Poi si specifica che “tale obbligo vale anche per i monasteri associati ad un Istituto maschile o riuniti in Congregazione monastica autonoma”. E infine ecco il diktat: “I singoli monasteri devono ottemperare a questo entro un anno dalla pubblicazione della presente Istruzione, a meno che non siano stati legittimamente dispensati. Compiuto il tempo, questo Dicastero (la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ndr) provvederà ad assegnare i monasteri a Federazioni o ad altre strutture di comunione già esistenti”.
Insomma, non si scappa. Ma colpisce anche il fatto che nell’intero documento troviamo ben undici deroghe ad altrettanti articoli del Codice di diritto canonico. Una vera rivoluzione. Domanda: tali deroghe, tutte specificamente approvate dal papa, non sono forse un po’ troppe per un’istruzione, ovvero per un documento che, in fin dei conti, dovrebbe solo avere una funzione applicativa della legge?
L’impressione, più che legittima, è di trovarsi di fronte a un diritto speciale per le monache, un modo di procedere che di fatto è la morte del diritto perché salta tutti i passaggi necessari per la tutela della giustizia e impedisce il ricorso contro i provvedimenti.
La parola “obbligo” compare ripetutamente, coronando così un documento il cui tono è in molte parti minaccioso e senza precedenti nei confronti di quella che un tempo era considerata la parte eletta della Chiesa, alla quale ci si rivolgeva con particolare delicatezza, e ora invece sembra, al più, una frangia tollerata.
Cor orans ha un contenuto ispirato a doppiezza. Da un lato si ribadisce l’autonomia dei monasteri, ma dall’altro l’autonomia è scardinata attraverso l’obbligo di affiliarsi alle federazioni.
Bisogna poi notare che i cambiamenti introdotti sono sostanziali rispetto alla vocazione monastica. Non si tratta solo di sfumature. Di fronte a Cor orans una monaca può avvertire che i nuovi contenuti non sono consoni ai voti già emessi. Si pensi alla nuova fisionomia dei monasteri, che vanno a perdere la propria autonomia, e anche all’obbligo di partecipare a corsi esterni.
L’esperienza degli ultimi decenni insegna che le federazioni hanno causato danni notevolissimi alla vita dei monasteri e alle singole monache. Eppure si insiste su questa strada e anzi la si fa diventare l’unica opzione possibile, all’insegna di un generico “rinnovamento” che di certo non è un valore per la vita di preghiera e di contemplazione.
Tra le righe ciò che viene detto, e anzi imposto, è che le contemplative devono cambiare il loro stile di vita, ma a supporto di una tale pretesa non vengono fornite spiegazioni che abbiano realmente a che fare con questioni spirituali e religiose. Tutto il documento si occupa invece di organizzazione, strutture, assemblee, corsi.
L’ispirazione di fondo è una sola: ri-orientarsi. Ma verso dove? Certamente non verso Dio, bensì verso il mondo e verso l’azione. Che si parli di clausura, formazione o ascesi, ciò che conta sembra essere introdurre cambiamenti.  Controllo centralizzato, fine dell’autonomia e burocratizzazione sono gli strumenti, il che è quanto meno singolare se si pensa all’insistenza di Francesco a favore dei processi di decentralizzazione nella Chiesa.
Nella conferenza stampa di presentazione di Cor orans (15 maggio 2018), monsignor José Rodríguez Carballo, giustificando i nuovi provvedimenti, ha sostenuto: “Di fatto, il Dicastero ha dovuto più volte constatare con rammarico l’esistenza di monasteri non più in grado di portare avanti una vita dignitosa, senza che ci fosse una legislazione che dicesse quando e come intervenire al riguardo: l’aver colmato questa lacuna legislativa è sicuramente uno dei punti più importanti e più attesi dell’istruzione”. Ora, ammesso che le norme introdotte da Cor orans siano le più efficaci per intervenire nei confronti dei monasteri che non conducono una vita “dignitosa” (ma che significa dignitosa?), non si vede perché, in concreto, tali norme debbano condizionare la vita di tutti i monasteri, anche di quelli ben vivi e desiderosi di mantenere la propria identità e le proprie tradizioni.
L’affiliazione alla federazione diviene un obbligo, salvo dispensa che può essere concessa dalla Santa Sede “per ragioni speciali, oggettive e motivate”. Ma dovrebbe essere il contrario: l’autonomia dovrebbe essere la condizione normale, salvo la necessità di affiliarsi alla federazione per motivi speciali.
Nella conferenza stampa monsignor Carballo ha sostenuto inoltre che “l’Istruzione, come già prima la Costituzione, riflette molto bene quanto le stesse monache hanno chiesto nelle risposte al questionario che alcuni anni fa era stato inviato a tutti i monasteri del mondo”, ma sulla base di testimonianze possiamo dire che questa circostanza risponde al vero solo in minima parte. Molti monasteri non sono nemmeno stati interpellati. Se davvero tutti i monasteri avessero ricevuto un questionario e avessero risposto, il dicastero avrebbe avuto bisogno di anni e anni per elaborare il tutto.
Il nuovo assetto ha insomma il sapore di una normalizzazione. Come spiega, per esempio, Marian T. Horvat (https://www.traditioninaction.org/HotTopics/P043_Contempl_1.htm), ciò che si vuole è che le monache cambino il proprio stile di vita, con l’aggiornamento come stella polare e senza la possibilità di fare ricorso al diritto per rivendicare la propria autonomia e libertà, perché proprio il diritto è stato usato per imporre la rivoluzione.
Il cardinale Braz de Aviz è stato chiaro quando ha detto (https://www.ncronline.org/news/world/cardinal-religious-those-who-abandon-vatican-ii-are-killing-themselves) che i religiosi che non seguono il Concilio Vaticano II stanno uccidendo loro stessi. Essere inseriti nel mondo, non chiudersi ai cambiamenti della vita moderna: queste le indicazioni date dal prefetto, perché i contesti sono cambiati e “Dio non è statico”.
Se questa è l’ispirazione di fondo, si capisce meglio lo spirito delle nuove norme. Anche nella vita contemplativa il collegamento con il mondo e con le “povertà” deve avere il sopravvento. “Pregate e intercedete per tanti fratelli e sorelle che sono carcerati, migranti, rifugiati e perseguitati”, chiede Cor orans (n. 6).  Siamo sicuri che le monache già lo fanno, perché pregano per tutti.
Aggiornarsi, non guardare al passato e alla tradizione, cambiare: la richiesta che arriva dai vertici vaticani è pressante e sembra ignorare del tutto il fatto che, nella generale crisi delle vocazioni, gli unici ordini che attirano davvero le nuove generazioni sono quelli che, ben radicati nella tradizione, conservano la loro identità a tutti i livelli, anche dal punto di vista liturgico. Perché i giovani, oggi più che mai, non sono attirati dalle analisi sociologiche applicate alla vita della Chiesa, non dai corsi di aggiornamento e dalla “formazione continua”, ma dall’incontro autentico con Cristo nel silenzio orante.
Chi sembra guardare al passato in realtà è proprio chi continua a indicare il Vaticano II come punto di riferimento obbligatorio, ignorando la richiesta di autenticità e di amore per la tradizione che sta emergendo sempre più chiaramente, in controtendenza rispetto a certi dogmi modernisti che hanno ampiamente fatto il loro tempo.
Del resto i risultati dei processi di “liberazione” di religiosi e religiose sono sotto gli occhi di tutti. Non chi si è radicato nella tradizione, ma chi l’ha abbandonata per abbracciare il mondo ha prosciugato il proprio patrimonio spirituale, a forza di aggiornamenti e aggiustamenti.
No, non saranno i corsi di formazione, le federazioni, la centralizzazione e l’uniformazione a rinvigorire la vita contemplativa. La strada è tutt’altra ed è indicata da quei religiosi e quelle religiose che nel silenzio e nell’isolamento coltivano la relazione di preghiera con Dio secondo tradizioni originali e radicate e offrono le loro vite per la conversione di tutte le anime.
Un grande mistico, don Divo Barsotti, che decise di vivere la propria vita di preghiera nell’isolamento, diceva che la Chiesa oggi cade in un grande equivoco quando pensa di dover liberare dalla povertà e non dal peccato.  L’assistenza sociale non sostituisce l’amore cristiano e nessun processo di “rinnovamento” potrà rafforzare la fede, la speranza e la carità. In un mondo pienamente secolarizzato la strada dei religiosi non è quella di secolarizzarsi a loro volta. “Non incontri l’uomo, se prima non hai incontrato Dio… La vera comunione col mondo si ha quando si è separati dal mondo, perché se noi non entriamo in rapporto col Signore, si perde di vista il Tutto” (Divo Barsotti, I cristiani vogliono essere cristiani).
Lasciamo che religiosi e religiose incontrino Dio senza essere disturbati.

(Fonte: Aldo Maria Valli, 8-9-10 settembre 2018)
https://www.aldomariavalli.it/




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