Il tema
del Concilio Vaticano II assomiglia a un fiume carsico. Anche se per lungo
tempo non emerge alla superficie, sappiamo che è lì e segna in profondità la
nostra appartenenza alla Chiesa. Poi, quando di nuovo torna a manifestarsi,
com’è successo di recente con il dibattito innescato da monsignor Carlo Maria
Viganò, puntualmente il tema appassiona e divide. Perché è un tema che non è
aggirabile.
Per
molti della mia generazione (sono nato nel 1958) il Concilio per decenni non è
stato un problema: è stato semplicemente un fatto. Nato e cresciuto nella
Chiesa del post-Concilio, per lungo tempo ho visto nel Concilio qualcosa di ineluttabile:
era necessario che a un certo punto la Chiesa facesse certe scelte.
In
seguito, quando ho incominciato a studiare la Chiesa del pre-Concilio e a
rendermi conto del confronto e delle ferite che segnarono l’assise conciliare,
ho oscillato tra due tendenze: da un lato una sorta di rimpianto per non aver
potuto vivere un periodo che deve essere stato difficile ma anche
entusiasmante, dall’altro il desiderio di capire meglio il punto di vista di
coloro che, in controtendenza rispetto allo spirito del tempo, misero in
guardia dall’esito del Concilio e dall’uso che ne sarebbe stato fatto in
futuro.
Ora che
mi avvicino alla vecchiaia e avverto il bisogno di andare all’essenziale della
fede, mi sembra di poter dire, in tutta umiltà e da semplice battezzato, che il
Concilio mosse da un errore fatale: il desiderio di piacere al mondo.
Mi rendo
conto che la mia affermazione può sembrare sbrigativa e chiedo scusa agli
studiosi della materia, ma più studio gli anni del Concilio e più mi convinco
che da parte di ampi settori della Chiesa, a partire dal papa Giovanni XXIII,
ci fu una sorta di complesso d’inferiorità rispetto al mondo, un mondo che in
quell’epoca era in fermento e appariva tanto vitale. Di qui il desiderio di non
risultare attardati ma di mostrare un volto simpatico della Chiesa, in senso
letterale: simpatico come colui che patisce insieme, che partecipa alle gioie e
ai dolori, evitando di porsi in una posizione di superiorità e in un
atteggiamento di giudizio.
Ricordo
che, quando conversavo del Concilio con il cardinale Carlo Maria Martini,
l’arcivescovo di Milano usava volentieri un’espressione: la Chiesa del Concilio
come una Chiesa dell’intercessione. Intercedere, diceva il cardinale, significa
camminare in mezzo, e così volle fare Giovanni XXIII: camminare in mezzo al
mondo, senza mettersi al di sopra né davanti, ma neanche dietro.
Martini
raccontava che per lui il Concilio fu come aprire le finestre e far entrare
aria fresca in una Chiesa nella quale c’era odore di chiuso e di muffa. Diceva
proprio così, e a me sembrava di vederli quegli uomini di fede che, raggiunti
da tanti stimoli intellettuali, si infervoravano attorno a questioni teologiche
e morali per consentire alla parola del Vangelo di mostrarsi di nuovo in tutta
la sua bellezza e in tutta la sua novità, togliendole di dosso orpelli e
incrostazioni.
Resta il
problema di fondo, che è quello al quale ho accennato prima: il desiderio di
piacere al mondo.
Ora, non
voglio certamente psicanalizzare il Concilio, ma è davvero difficile sottrarsi
all’impressione che, in fondo, quell’esigenza fosse ben presente. L’ottimismo
di papa Roncalli è quello di chi, stanco di una Chiesa che sembra perdere
terreno rispetto al mondo ed essere guardata come una sorta di zia arcigna e
antipatica, vuole mostrarsi come madre amorevole e dolce, affidabile e
accogliente. Desiderio comprensibile. Se non che, nel momento in cui, in modo
più o meno cosciente, la Chiesa desidera piacere al mondo, fatalmente
incomincia a tradire sé stessa e la sua missione. Perché Gesù non volle mai
piacere al mondo, né fece sconti di alcun tipo pur di apparire simpatico e
dialogante.
Con il
Concilio certamente le finestre furono aperte e l’aria entrò. Ma insieme a una
piacevole sensazione di frescura entrarono anche le idee del mondo, che sono
segnate dal peccato, e la Chiesa ne restò contaminata.
Che cosa
significa segnate dal peccato? Significa, in una parola, segnate dalla volontà
di mettere l’uomo al posto di Dio, perché di questo, in fondo, si tratta, oggi
come ieri e in ogni tempo.
Certo,
non tutto incominciò con il Concilio, perché certi fiumi carsici scorrevano da
tempo, ma il Concilio fu il momento in cui il desiderio di piacere al mondo, e
dunque di mettere l’uomo al posto di Dio, emerse con chiarezza.
Ma il
vero dramma del Concilio fu un altro. La Chiesa incominciò l’operazione di
restyling e di rinnovamento in ritardo rispetto al mondo. Succede sempre così:
quando la Chiesa cerca di fare come il mondo, la sua azione è in ritardo.
Perché il mondo, sulla via del peccato, ovvero del tentativo di mettere l’uomo
al posto di Dio, va veloce e ne inventa sempre una nuova, e la Chiesa, per
quanto si impegni, non può fare altro che inseguire.
Così, il
Concilio si mise a rincorrere il mondo proprio mentre il mondo già si stava
accorgendo, sia pure in modo confuso, che il desiderio di autonomia dell’uomo
rispetto a Dio non poteva portare ad altro se non a immani disastri sotto ogni
profilo: da quello sociale e politico a quello culturale e morale.
All’interno
della Chiesa furono in pochi quelli che si resero conto che l’operazione
simpatia era segnata da evidenti contraddizioni teologiche ma anche da un
errore strategico. La narrativa prevalente andava in tutt’altra direzione, e
contro una narrativa imposta con grande intensità (da alcuni in buona fede e
per autentico entusiasmo, da altri in malafede e per calcolo) c’è ben poco da
fare, come vediamo anche ai nostri giorni.
In
conclusione, direi così: ben vengano i dibattiti, anche accesi, sul Concilio.
Chiunque voglia argomentare, in una direzione o nell’altra, aiuta la Chiesa a
guardarsi dentro e a porsi salutari domande. È venuto il tempo di farlo, in
tutta onestà. L’importante è non procedere con il metodo della scomunica
reciproca e dell’invettiva.
È
curioso come il Concilio, che volle essere non dogmatico, sia diventato esso
stesso un dogma. Se invece riusciremo a guardarlo come avvenimento dai molti
volti, con le speranze che regalò ma anche con tutti i suoi limiti intrinseci e
gli errori di prospettiva che lo segnarono, renderemo un buon servizio alla
Chiesa e alla qualità della nostra fede.
(Fonte: Aldo
Maria Valli, Duc in altum, 12 luglio 2020)
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