Le parole di papa Francesco sul volo di ritorno dal Kazakistan suonano come un abbandono del cardinale Zen al suo destino per salvare il dialogo con la Cina. Ma rappresentano anche una impostazione del rapporto con la Cina molto politica e poco religiosa.
Le
parole pronunciate da papa Francesco sulla Cina e sul cardinale Joseph Zen nel
volo di ritorno dal Kazakistan giovedì 15 settembre, da una parte non possono
sorprendere chi segue le vicende dei rapporti tra Santa Sede e Cina. Eppure
lasciano profondamente amareggiati, pensando al cardinale Zen che lunedì 19
settembre sarà processato a Hong Kong e trattato come un delinquente; e anche
sconcertati, per i giudizi “politici” sulla situazione in Cina.
Ma
andiamo con ordine. La domanda posta da Elise Allen, di Crux, era molto semplice:
siccome il Papa in Kazakistan aveva tanto parlato di libertà religiosa, che
dire della libertà religiosa in Cina, «soprattutto ora con il processo che sta
andando avanti contro il cardinale Zen. Lei considera il processo contro di lui
una violazione della libertà religiosa?». La risposta inizia con un discorso
fumoso sulla difficoltà di capire la Cina, dei tempi lunghi con cui pensano i
cinesi, e quindi dell’importanza del dialogo per capire e farsi capire. Al che
si potrebbe subito obiettare: intanto il problema non sono i cinesi come
popolo, ma il regime comunista cinese, il che è una differenza non da poco. E
poi, proprio per questa difficoltà a capirli, perché non fidarsi allora di un
vescovo come il cardinale Zen che, oltre ad essere cinese, i comunisti di
Pechino li conosce bene? Perché non ascoltarlo?
Perché
al Papa chiaramente non interessa, e il processo a Zen si capisce che è solo
un impiccio che non vuole metta in discussione il dialogo con Pechino. Ecco le
sue parole: «Qualificare la Cina come antidemocratica io non me la sento,
perché è un Paese così complesso… sì è vero che ci sono cose che a noi sembrano
non essere democratiche, quello è vero. Il cardinale Zen è un anziano che andrà
a giudizio in questi giorni, credo. E lui dice quello che sente, e si vede che
ci sono delle limitazioni lì. Più che qualificare, perché è difficile, e io non
me la sento di qualificare, sono impressioni, cerco di appoggiare la via del
dialogo».
«È
un anziano» che «dice quello che sente»: insomma, pare di capire che il cardinale
Zen è un vecchietto che non tiene la lingua a posto (curiosamente dalla
trascrizione ufficiale di Vatican News è sparita la
definizione «è un anziano», chissà perché). Certo, non ci sarà piena libertà
lì, ma il problema è Zen che non vuole il dialogo. In altre parole: il vescovo
emerito di Hong Kong è stato scaricato alla vigilia del processo, dopo che la
sua situazione non è stata neanche menzionata o fatta oggetto di preghiera,
come richiesto da alcuni, durante l’ultimo Concistoro. È una affermazione
grave, che avrà ripercussioni anche per i cattolici in Cina, e profondamente
ingiusta nei confronti del cardinale Zen.
Ma
a questo punto è bene anche ricordare che il dialogo con la Cina non l’ha
inventato papa Francesco, né a portarlo avanti ha cominciato il cardinale
segretario di Stato Pietro Parolin. Con Giovanni Paolo II e il cardinale Sodano
come segretario di Stato ci sono stati molti contatti e anzi, papa Francesco ha
“recuperato” quello che anche ai tempi di Giovanni Paolo II guidava le missioni
diplomatiche in Cina, monsignor Claudio Maria Celli.
E
anche con papa Benedetto il dialogo è continuato. Entrambi avrebbero
tanto desiderato andare in Cina. Ma con alcune differenze importanti: la prima
è che ascoltavano i vescovi cinesi e altri esperti; la seconda è che avevano
ben chiaro ciò che si poteva concedere e ciò su cui la Chiesa non poteva
assolutamente cedere; infine, non si poteva dubitare sul fatto che i cattolici
da prendere ad esempio erano quelli che subivano le persecuzioni pur di
rimanere fedeli alla Chiesa e al Papa, e non quelli che accettavano di servire
il Partito Comunista per mantenere una parvenza di culto cattolico. È il
totalitarismo del regime cinese che non ha mai permesso di arrivare a un
accordo, non la mancanza di volontà di dialogo da parte della Chiesa.
Ora
invece l’impressione è che la Santa Sede, pur di proseguire con l’accordo segreto sulla
nomina dei vescovi che sarà rinnovato a ottobre, abbia già concesso
l’impossibile e sarebbe disposta a offrire anche il resto se solo il governo
cinese lo volesse. Lo dimostra anche quello che (non) è accaduto in Kazakistan,
secondo quanto
riportato da Philip Pullella dell’agenzia Reuters: essendo il
presidente cinese Xi Jinping nella capitale kazaka contemporaneamente, la Santa
Sede aveva manifestato la disponibilità del Papa a un incontro, ma il governo
cinese ha declinato l’offerta.
C’è
però un’ultima questione che merita attenzione: il Papa non sa dire
se in Cina ci sia la democrazia o no, il che già di per sé è un’affermazione
assurda. Ma il problema vero è accettare o addirittura volere che la Chiesa si
muova e pensi sul piano solo orizzontale, della politica. Il problema
principale della Chiesa non può essere anzitutto se c’è o no la democrazia in
un Paese, l’interesse principale dovrebbe essere la libertà della Chiesa, che è
garanzia per la libertà di tutti. E il problema della Cina è proprio la
mancanza di libertà per la Chiesa, sottoposta sempre più al controllo del
Partito Comunista, grazie anche all’accordo segreto voluto dalla Santa Sede e
pronto per essere rinnovato di altri due anni. Se il rapporto con uno Stato –
in questo caso la Cina, ma vale per ogni altro Paese – si imposta in termini
politici, alla fine si sacrifica la verità alla ragion politica. E paiono sagge
e prudenti affermazioni che appaiono ridicole come quelle sulla democrazia in
Cina.
(Fonte:
Riccardo Cascioli, LNBQ, 18 settembre 2022)
Cina
e cardinale Zen, le "strane" parole del Papa - La Nuova Bussola
Quotidiana (lanuovabq.it)
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