A 60 anni dalla sua inaugurazione, si dibatte ancora se la valutazione del Vaticano II debba riguardare solo la sua applicazione o anche i suoi documenti. C’è un fattore, proprio del Concilio, che ha prestato il fianco ai travisamenti applicativi: il suo scopo “pastorale”, che ha influito sulla presentazione della dottrina.
La
questione principale che
rimane ancora aperta è se la sua valutazione debba riguardare solo l’applicazione
del Concilio o il Concilio stesso. A fare problema e a provocare discussione
sono state solo le (spesso) avventurose applicazioni del Concilio, che non
avevano nessuna relazione con i testi approvati dai Padri, oppure c’era
qualcosa che si prestava all’equivoco anche nei testi? Nel Concilio c’è stato
qualcosa che poi è sfuggito di mano, qualcosa che è poi sfuggito di mano perché
formulato nel Concilio in modo da permettere che sfuggisse di mano?
Sui
travisamenti applicativi del Concilio, le fughe in avanti appellandosi al suo
“spirito” e non alla sua “lettera”, si possono fare infiniti esempi. Questi
sessant’anni, compresi i nostri giorni, ne sono pieni. Ci sono però molte prove
anche a sostegno che qualche problema impostato in modo poco chiaro c’era nel
Concilio stesso. Altrimenti non si spiegherebbe perché molte applicazioni
distorte comunque hanno potuto far leva su questo o quell’altro passaggio dei
documenti conciliari. Per esempio, la sinodalità che oggi si vuole imporre con
la fase sinodale in atto si fonda sulla nozione di “segni dei tempi”, una delle
espressioni più ambigue del Vaticano II e che si presta ad ogni
strumentalizzazione: oggi nella Chiesa si dice che anche l’emergenza dei
diritti delle coppie omosessuali sarebbe un segno dei tempi, ossia un soffio
dello Spirito.
Il
Concilio come problema non può quindi essere relegato nelle sue manchevoli
applicazioni,
ma collegato anche a fattori suoi propri. Ora ci si chiede: qual era il
principale di questi fattori suoi propri? Quale elemento produce impedimenti
alla piena comprensione del Concilio, e continua a farlo anche dopo
sessant’anni? A mio avviso si tratta del suo carattere essenzialmente
“pastorale”. Il Vaticano II fu convocato per esigenze pastorali, eppure proprio
questa sua caratteristica ha confuso le cose, sicché anche oggi esso rimane da
decifrare.
Era,
ed è, molto difficile pensare che la finalità pastorale di
ri-presentare il messaggio cristiano all’uomo contemporaneo - finalità propria
del Concilio - non comportasse anche un ri-pensamento della dottrina. Un po’ di
ingenuità in questo campo è ravvisabile nel discorso di apertura di Giovanni XXIII, ma poi non
più. E infatti il Concilio fu pienamente dottrinale, approvando esso anche
delle Costituzioni “dogmatiche”. Nello stesso tempo, però, il suo scopo non era
primariamente dottrinale, dato che era primariamente pastorale, sicché questo
ultimo intento (pastorale) influì sul ri-pensamento e sull’esposizione
dell’altro elemento (dottrinale). Da qui sono nati tutti i problemi.
Intanto,
per motivi pastorali, alcuni elementi della dottrina o furono taciuti
o furono formulati in modo da non scontentare. Il comunismo non fu condannato per
questi motivi; il rapporto tra Scrittura e Tradizione fu pensato tenendo conto
delle esigenze dei rapporti ecumenici con i protestanti; anche la discussione
assembleare su quale spazio assegnare a Maria Santissima risentì di queste
preoccupazioni; l’accoglienza del personalismo si deve all’idea che la
mentalità contemporanea apprezza molto la soggettività.
Poi,
per motivi pastorali, si scelse un linguaggio non definitorio ma narrativo, che però necessariamente
risultava più sfumato e da interpretare. Il problema del linguaggio del
Concilio è un grosso problema. Nei testi ci sono molte espressioni, come per
esempio l’incipit della Gaudium es spes, che vengono continuamente
citate, ma hanno scarsissima precisione dottrinale e debole consistenza
teologica. La Gaudium et spes viene chiamata
(problematicamente) “Costituzione” pastorale, ma la fotografia del mondo
contemporaneo che essa propone nella sua prima parte con un linguaggio
sociologico ed esistenziale che valore teologico e magisteriale ha? Molte
espressioni devono essere collegate con altre per avere un quadro completo del
problema presentato, ma questo è un lavoro complesso e di difficile attuazione
per i non addetti ai lavori. Si pensi, a questo proposito, alla definizione di
bene comune della Gaudium et spes, oppure alla famosa frase secondo
cui l’uomo è l’“unica creatura che Dio ha voluto per se stesso”. Questa si può
interpretare sia in senso antropocentrico che in senso teocentrico.
Per
motivi pastorali, poi, sono stati presentati in modo nuovo dei problemi senza però
adeguatamente risolverli dal punto di vista della certezza magisteriale. Si
pensi alla dottrina della libertà religiosa della Dignitatis humanae.
Quell’insegnamento non chiude il cerchio e fa discutere ancora oggi. Se lo
avesse chiuso, non ci sarebbe stato bisogno di pubblicare la Dominus Iesus e,
all’opposto, Francesco non avrebbe firmato la Dichiarazione di Abu Dhabi.
Più
in generale: nei testi conciliari è difficile distinguere tra quanto è
dottrinale e quanto è pastorale e questo ha poi permesso che una
nuova visione di pastorale si imponesse in teologia, una pastorale che
co-produce dottrina insieme con la Rivelazione. E qui si aprono le porte a
tanti aspetti inaccettabili della teologia contemporanea. Quella del Concilio
era ancora una teologia della pastorale, ma poi si è elaborata una
teologia pastorale, nella quale oggi si inserisce la nuova versione
pastoralista della sinodalità.
Il Concilio
Vaticano II impegnerà
la Chiesa anche nei prossimi sessant’anni.
(Fonte:
Stefano Fontana, LNBQ, 11 ottobre 2022)
Concilio,
il fine “pastorale” è la fonte degli equivoci - La Nuova Bussola Quotidiana
(lanuovabq.it)
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