venerdì 24 dicembre 2010

C'era una volta l'università italiana, quella che la Gelmini vuol far rinascere

«…C'era una volta l'università italiana: la più bella del mondo, la più antica, la più nobile. Essa poggiava su due pilastri: la separatezza e la cooptazione. Erano gli anni di Enrico Fermi, di Giulio Natta, dei giovani fisici di via Panisperna o dei giovani chimici di via Mezzocannone che tutto il mondo ci ha invidiato.
Signore presidente, quella che era l'orgoglio dell'Italia è oggi una bellezza decaduta. La separatezza è diventata astrazione, estraneità, incomprensione del mondo moderno, dei suoi meccanismi di sviluppo economico, culturale e sociale. La cooptazione è diventata privilegio. Le incrostazioni si sono stratificate, le baronie consolidate, e col passare del tempo si è giunti a un'università pensata in funzione della collocazione dei docenti e non della preparazione degli studenti. Con tutto quello che ne consegue in termini di sprechi o di autentici scandali.
Qualche dato:
- In Italia esistono 95 università, oltre 320 sedi distaccate, ma si laureano meno studenti che in Cile.
- Sono attivi 37 corsi di laurea con un solo studente e 327 facoltà con 15 iscritti. Nel 2001 i corsi di laurea erano 2.444, oggi sono arrivati a 5.500. Negli altri Paesi europei, la media è la metà.
- Le materie insegnate nelle università italiane sono circa 170mila, la media europea è di 90mila.
Come stupirsi dunque se nessun ateneo italiano figura tra le 150 università migliori del mondo?
Abbiamo detto, innanzi tutto ai giovani, che è necessario cambiare. Ed è necessario farlo soprattutto per il loro futuro, introducendo valutazione, merito, concorrenza.
Sappiamo che i giovani tracciano una diagnosi dei mali dell'università molto simile alla nostra. Ma non si fidano del fatto che la strada da noi intrapresa possa davvero migliorare le cose, e ritengono che l'avvio di un percorso nuovo necessiti di finanziamenti in una quantità tale che la situazione del Paese non consente.
Noi rispettiamo questa opinione, quando viene espressa nelle forme di un confronto civile. Ma affermiamo con chiarezza che molte delle tesi che sono state sostenute per contrastare la riforma Gelmini tradiscono una lettura forse disattenta o pregiudiziale della riforma stessa.
Faccio qualche esempio.
Gli studenti dicono che questa legge colpisce i giovani ricercatori e aumenterà il precariato. La verità è che da domani un ricercatore inizierà il suo percorso con un contratto a tempo determinato, e lo inizierà in un momento della vita in cui ancora può spendere energie e tempo per costruire il suo futuro professionale. Fino ad oggi, di norma, si iniziava portando una borsa, e si poteva continuare così anche per vent'anni.
Gli studenti dicono che questa riforma nega il diritto allo studio perché non ci sono i fondi per garantirlo. E invece non solo per la prima volta in Italia gli studenti saranno determinanti per l’attribuzione dei fondi agli atenei, attraverso meccanismi di valutazione che orientino le scelte economiche nella maniera più virtuosa possibile: risorse da utilizzare per le borse di studio, per i prestiti d’onore e non per mantenere cattedre inutili, corsi semideserti, sedi distaccate pletoriche. Va anche detto che nonostante la recrudescenza europea della crisi che richiede ora più che mai fermezza nella tenuta dei conti pubblici, il governo ha mantenuto la promessa: gran parte dei tagli sono stati recuperati, sia sul fronte del funzionamento degli atenei che sul versante degli stanziamenti per le borse di studio e i prestiti d'onore, ai quali con la legge che oggi approviamo verrà affiancato un nuovo "fondo per il merito".
Gli studenti dicono che aprendo i Consigli di amministrazione degli atenei a membri esterni di fatto si privatizzano le università. La verità, invece, è che non solo la presenza di membri esterni nel Cda farà uscire l’Accademia dal quel cono d’ombra che troppo spesso ha consentito l’autoreferenzialità. La verità, soprattutto, è che l'apertura alle energie di non diretta derivazione statale consentirà all'università italiana di attrarre investimenti privati, colmando quel gap che su questo fronte ci vede molto lontani dall'Europa, alla stregua di un Paese da socialismo reale.
Se questa è la situazione, noi siamo fermamente convinti che la riforma Gelmini tracci una strada maestra per invertire la rotta. Una strada che si snoda su tre tappe: la valutazione delle università; il merito e, quindi, il finanziamento proporzionale ai risultati conseguiti; la concorrenza fra i diversi atenei e anche all'interno delle medesima strutture. Una concorrenza che non è conflitto ma collaborazione, perché solo se le tante università italiane riusciranno a competere tra loro diversificando gli ambiti di ricerca e raggiungendo l'eccellenza invece di duplicare gli interessi condannandosi alla mediocrità si potrà sperare che l'università italiana torni ad essere ciò che era un tempo.
Questa legge rappresenta una svolta. Dovrà essere approfondita e anche perfezionata dopo la fase di rodaggio, ma non deve assurgere a simbolo negativo come si sta tentando invece di fare con il contributo irresponsabile di novelli cattivi maestri.
Sappiamo bene che esiste oggi un diffuso disagio giovanile, che affonda le sue radici in ragioni ideali ed economiche. Siamo a pochi giorni dalla fine del primo decennio del nuovo secolo: un decennio che si è aperto con la crisi dell'11 settembre, che ha messo a nudo la fragilità delle nostre radici e della nostra identità; e si è chiuso con la crisi finanziaria del 2008, che ha evidenziato lo scollamento tra l'economia reale e l'economia virtuale.
Il combinato disposto delle due crisi ha conclamato le responsabilità delle precedenti generazioni nei confronti dei giovani di oggi. Dobbiamo dire con chiarezza a questi ragazzi che se oggi si trovano in una situazione di insicurezza è perché le generazioni passate hanno sacrificato il futuro dei loro figli e dei loro nipoti in nome di falsi miti e ideologie fallimentari. E hanno anche ipotecato il loro avvenire alimentando un debito pubblico con cui oggi noi dobbiamo fare i conti. E, operando scelte sconsiderate in ambito occupazionale, hanno reso la macchina dello Stato un apparato pachidermico, al tempo stesso inefficiente e costoso.
Questa realtà è stata a lungo dissimulata sotto una patina di paternalismo, perché ai giovani conveniva dare sempre ragione, e questo ha rappresentato un comodo alibi per non assumersi mai le proprie responsabilità.
È la zavorra di queste scelte sbagliate ad impedirci oggi di investire sulla ricerca e sull'innovazione al pari di altri Paesi; a imporci oggi di dover chiudere innanzi tutto le falle dalle quali si disperdevano fiumi di denaro prima di poterci permettere di riaprire i rubinetti per orientare virtuosamente l'impiego del denaro…».

(Fonte: Gaetano Quagliarello, L’Occidentale, 24 dicembre 2010)

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