giovedì 2 dicembre 2010

L’inverno conciliare. Se il gelo del mondo fosse causato dalle "tenebre" del Vaticano II? Cosa leggere per capirne di più.

Da alcuni anni uno spettro si aggira nel mondo cattolico. Uno spettro che inquieta molti, benché assuma la forma di una semplice e inevitabile domanda: e se la scristianizzazione incalzante dell’occidente fosse anche il frutto di una crisi della chiesa? E se la crisi della chiesa avesse a che fare con il Concilio Vaticano II, con alcuni suoi documenti un po’ ambigui, oppure, quantomeno, con la sua estesa interpretazione?
La domanda, a ben guardare, dovrebbe essere spontanea: non è più possibile infatti non accorgersi del gelo, del buio, della disumanizzazione che ci circonda. Nello stesso tempo non è più lecito non rendersi conto di quanto il sale sia divenuto insipido. Di quanto sia divenuto arduo, anche per chi si sforza di rimanere cattolico, trovare un vescovo del livello di monsignor Caffarra, o di monsignor Negri, o di monsignor Crepaldi; oppure, un sacerdote vivace e appassionato come padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria; oppure, un semplice parroco di paese che ami la liturgia, il decoro della casa di Dio e il confessionale.
Giustamente monsignor Nicola Bux ha appena dato alle stampe un bel testo intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede” (Piemme). Perché il problema non è solo che la fede, fuori, nel mondo, non c’è più, e neppure il fatto che i credenti vengano derisi dagli atei di professione e dai nichilisti di ogni tipo: il problema vero è che questi stessi nemici della fede, come coloro che invece la conservano ancora gelosamente, non trovano nessuno con cui veramente confrontarsi, a cui lanciare in volto i loro dubbi, le loro fatiche, o persino la loro luciferina ribellione. Non è colpa solo dei media il fatto che a rappresentare un pensiero cattolico sul più importante quotidiano italiano sia chiamato il cardinal Martini. Il problema è la scarsità, nella chiesa di oggi, di uomini di Dio, di uomini di fede intelligenti, appassionati; dirò più, dopo tante esperienze personali: di uomini, punto e basta. Ma questa realtà, questo tradimento piuttosto generalizzato, che confonde e avvilisce anche chi vorrebbe stare, con la sua miseria, accanto al Maestro, anche nell’ora del Getsemani, non può non avere una radice, una causa.
All’epoca della Controriforma, gli uomini di chiesa più santi capirono che vi erano da fare due cose: condannare fermamente le eresie di Lutero; riformare la chiesa stessa, ammettendo errori, vizi, tradimenti, viltà di molti… Oggi penso debba accadere la stessa cosa: non si può continuare con il mantra del Concilio Vaticano II “primavera della chiesa”, “profezia” o altre amenità. Se c’è l’inverno, bisogna finalmente accorgersene, e mettersi il cappotto. Ecco perché ritengo una benedizione di Dio, un segno dei tempi, l’opera di stimate personalità della chiesa che si interrogano sul Vaticano II e sulla sua attuazione: penso a “Iota unum” di Romano Amerio, ristampato recentemente; agli scritti di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga; a “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, di un insigne teologo come monsignor Brunero Gherardini (con prefazione del neo cardinale Albert Malcolm Ranjith, uomo di fiducia di Benedetto XVI).
Un quadro completo.
Penso, soprattutto, allo straordinario lavoro del professor Roberto de Mattei, “Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta”, edito in questi giorni da Lindau. Si tratta di un volume di oltre 600 pagine densissime, puntuali, in cui finalmente si analizza un grande evento della chiesa, insieme a ciò che lo ha determinato, alle attese, alle delusioni e alla ricezione che ha avuto. Un quadro completo, non ideologico, che senza dubbio mancava e che contribuisce a parer mio a riportare il discorso Vaticano II nel giusto alveo, confutando il mito di un Concilio “superdogma”, sempre e immancabilmente “profetico”. Il Vaticano II, ricorda de Mattei, si auto qualificò come “pastorale” e “fu privo di un carattere dottrinale definitorio”: proprio questa sua caratteristica lo rende soggetto, almeno per alcuni documenti, ché non tutti hanno lo stesso valore, a differenti interpretazioni, che non sarebbero invece possibili per definizioni dogmatiche, di per sé infallibili e irreformabili. Non essendoci qui lo spazio per illustrare un testo così ricco, basti un assaggio: l’autore parte dal pre Concilio, da una crisi che i più avveduti vedevano già in azione. Nota però come la gran maggioranza dei vescovi, invitata a esprimere i propri “vota” in vista del Concilio, avesse chiesto riforme moderate e la chiara comprensione e condanna degli errori del proprio tempo: comunismo e marxismo in primis (e poi esistenzialismo ateo e relativismo morale). Ma i “vota” dei vescovi, anticipa de Mattei, sarebbero stati ostacolati dalle “rivendicazioni di una minoranza”, che in nome dell’“aggiornamento” dimenticò, talora, che l’aspetto pastorale non può finire per soffocare quello dottrinale; che la carità nell’annuncio non significa il silenzio sui mali del presente (vedi il silenzio sul comunismo); che sminuire la Verità, “scandalo e follia”, a causa della sua sapidità, del suo gusto talora amaro e inquietante, non la rende più digeribile e appetibile, ma al contrario, finisce per nasconderne la lucentezza, la bellezza e la forza intrinseca.

(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 2 dicembre 2010)

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