domenica 7 aprile 2013

Suore ribelli: un problema in più per Papa Francesco

Da libere donne di Dio a schiave dell’ideologia. Kunigunde Furst non è il nome di uno yogurth, di un frullato o di una birra, ma è il nome di una suora francescana, appartenente ad una diocesi austriaca. Non una suora qualunque: la Furst è, infatti, superiora generale delle francescane, di un istituto di Diritto Pontificio (perciò maggiormente responsabile) ma anche dottore in teologia. Questa religiosa sta impegnando di recente – e non poco – la Congregazione per la Dottrina della Fede per le sue recenti uscite non solo poco ortodosse, ma proprio eretiche. Tanto che, seppur francescana, potremmo associarla forse più al francescanesimo eretico di Pietro Valdo (da cui derivano i Valdesi) che non al povero santo patrono di Assisi.
Qui non intendiamo anticipare quelle giuste sentenze ecclesiali che verranno, ma ci par ragionevole approfondire l’argomento riguardo al tema “suore di oggi” e chiederci il perché di certa inquietudine, cosa vogliono alcune di queste sorelle e dove pretendono di arrivare.
Come riporta il “Foglio” di qualche mese fa, in un articolo di Rodari, Sr. Furst si è espressa in questi termini: “Prendiamo la questione del diaconato per le donne: perché non deve essere possibile che delle donne vengano incaricate e ordinate per questo incarico nella chiesa? Perché le si esclude? È la paura da parte delle gerarchie che le donne si avvicinino troppo al presbiterato, o addirittura alla funzione di vescovo”. E alla domanda se le donne debbano essere ammesse al presbiterato, la suora risponde: “Posso immaginare che sia possibile, anche se non per ogni donna. Le cose cambiano. Le religiose sono sempre state viste come domestiche del clero. Ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero, e lo diciamo anche”.
O qui c’è malafede oppure Sr. Furst ha cambiato Chiesa. Ciò che lei “può immaginare” glielo lasciamo con gioia, ma non è ciò che la Chiesa insegna. Ora, non è questo certo lo spazio adatto per una “lectio” sul tema: tuttavia, è sufficiente chiarire alcuni punti per comprendere l’eresia della suora.
In sintesi, una premessa: al sacramento dell’Ordine (episcopato, presbiterato e diaconato) la Chiesa latina accosta il carisma del celibato obbligatorio, senza eccezione. Solo per il diaconato “permanente” la Chiesa accetta e tollera i candidati sposati, ma a condizione che venga mantenuta la stabilità nello stato di vita al momento dell’ordinazione (il diacono celibe deve rimanere tale, lo sposato se rimane vedovo, non può accedere a nuove nozze). Il diacono non deve mai tendere ad imitare il presbitero perché egli riceve un mandato che lo legittima ad un “ministero specifico” a servizio di chi ha bisogno nelle comunità.
Il diaconato, dunque, ha le sue radici, fin dal primo secolo, nell’organizzazione ecclesiale del presbiterio a servizio del Vescovo e del presbitero stesso, ma soprattutto è suo il servizio specifico della carità. A Roma, nel sec. III, periodo delle grandi persecuzioni dei cristiani, appare la figura straordinaria di san Lorenzo, arcidiacono del papa san Sisto II e suo fiduciario nell’amministrazione dei beni della comunità. Di lui così ne parla il nostro amato Papa Benedetto XVI: “La sua sollecitudine per i poveri, il generoso servizio che rese alla Chiesa di Roma nel settore dell’assistenza e della carità, la fedeltà al Papa, da lui spinta al punto di volerlo seguire nella prova suprema del martirio e l’eroica testimonianza del sangue, resa solo pochi giorni dopo, sono fatti universalmente noti” (omelia nella Basilica di san Lorenzo, il 30.11.08).
La sacramentalità del diaconato va quindi compresa nella prospettiva unitaria del sacramento dell’Ordine. Una forma di “diaconato” al femminile c’era, è vero, ma già nel secolo X non veniva più praticato in tutta la Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, ed in verità non era mai stato appoggiato dalla Chiesa fin dal secondo secolo.
Ma torniamo alla disobbedienza di queste suore. Il problema non è solo Sr. Furst, ma anche tutta una associazione di suore statunitensi aderenti alla Leadership conference of women religious (Lcwr), la cui battaglia contro i vescovi e Roma è aperta, conclamata. Queste, di recente, hanno ricevuto una condanna da parte della Congregazione per la dottrina della Fede a riguardo delle loro idee stravaganti sull’etica, sulla morale e sui ministeri.
Iniziata già con Paolo VI, l’inquietudine di certe religiose e laiche si era meritata l’attenzione di Giovanni Paolo II. Su un articolo di Avvenire del 1993 leggiamo: “Il Papa riceveva ieri in visita “ad limina” i vescovi americani delle province ecclesiastiche di Baltimora, Washington, Miami e Atlanta. Ancora una volta Giovanni Paolo II ha ripetuto il suo fermo “no” ad ogni ipotesi di aprire alle donne le porte del sacerdozio, come continuano a reclamare molte femministe degli Stati Uniti.
Nello stesso tempo, e per la prima volta in modo così esplicito, ha accusato certe religiose di alimentare un femminismo esasperato e dannoso, in un momento in cui in altri Paesi occidentali le donne cattoliche e le stesse suore impegnate vanno ricercando la via di “rivendicazioni” più realistiche.
In un discorso, il pontefice ha affrontato due temi particolarmente delicati: il ruolo della donna nella Chiesa e la corretta concezione del rapporto fra sacerdozio ordinato e sacerdozio comune, quello cioè dei fedeli battezzati.
La Chiesa – ha affermato – considera i diritti della donna un passo essenziale verso una più giusta e matura società ed essa non può non far proprio questo giusto obiettivo. Ma ha voluto puntualizzare che nella Chiesa vi sono dei limiti. E per indicarli, ha preferito lamentarsi del clima di insoddisfazione che alcuni circoli cercano di rafforzare contro la posizione della Chiesa sul problema femminile ed in particolare sul sacerdozio delle donne, ormai accettato nel mondo anglicano e da altre Chiese cristiane negli Stati Uniti.
Giovanni Paolo II ha invitato a ben distinguere fra i diritti civili e umani di una persona e i diritti, i doveri, il ministero e le funzioni che gli individui hanno o godono all’ interno della Chiesa. Una ecclesiologia manchevole, ha affermato, può facilmente condurre a presentare false questioni o a sollevare false speranze.
Ciò che e’ certo è che la questione non può essere facilmente risolta attraverso un compromesso con un femminismo che si polarizza lungo linee aspre e ideologiche. Non e’ solo il fatto che alcune persone reclamano un diritto per le donne di essere ammesse al sacerdozio nella sua forma estrema: è la stessa fede cristiana che rischia di essere compromessa. Sfortunatamente – ha sottolineato Papa Wojtyla, concludendo – questo tipo di femminismo e’ incoraggiato da alcune persone nella Chiesa, comprese alcune religiose i cui atteggiamenti, convinzioni e comportamenti non corrispondono a ciò che il Vangelo e la Chiesa insegnano. Spetta ai vescovi affrontare la sfida che persone con queste convinzioni rappresentano ed invitarle ad un sincero e onesto dialogo sulle aspettative delle donne nella Chiesa“.
Questa mania anni ‘70 della discussione su tutto, continua ancora a produrre divisione ecclesiale.
Mi si conceda però di fare un appunto che ci porta alla radice di certe contestazioni, nelle quali non c’entra solo il femminismo. A causa di una falsa ermeneutica sull’ecumenismo, che è meglio chiamare “ecu-mania” e che ha imperversato fino a poco tempo fa, siamo stati spettatori impotenti di circostanze al limite del buon senso.
Non c’è dubbio quindi che il fascino di emulare “ecumenicamente” certe situazioni “ministeriali”, già in essere nel mondo protestante, abbia dato forza e linfa alle rivendicazioni di queste suore già ammalate di femminismo. Nonostante il magistero, anche recente, della Chiesa abbia condannato senza mezze misure ogni lettura femminista della dottrina cattolica, escludendo in via definitiva ogni velleità da parte femminile di accedere al sacramento dell’Ordine.
E se queste sorelle, invece di lamentarsi, prendessero esempio da Maria?
Possiamo notare una certa inadeguatezza e sguaiatezza intellettuale da parte di certe religiose che vorrebbero fare la voce grossa, come se fossero “affrancate” da ogni legge. Confesso che è difficile comprendere certe pretese e certa disinvoltura intellettuale da parte di queste religiose moderniste-femministe! C’è stato in molte di loro un grave cambiamento che sta pregiudicando il carisma dei fondatori o fondatrici degli ordini religiosi a cui appartengono.
Mi ritengo fortunato per la testimonianza di santità di ieri e di oggi, che ho potuto cogliere in molti membri di ordini e congregazioni religiose; ma proprio per questo, non è possibile minimizzare il danno che sta provocando una Sr. Furst, o quello dell’Associazione delle religiose ribelli in America, come pure quello di quanti nella Chiesa le sostengono!
Dice Benedetto XVI, il Papa emerito: “La Chiesa è stata sempre riformata dalla santità, non dalla ribellione”. La suora in quanto tale, proprio perché ha assunto come modello principale ed assoluto la Beata Vergine Maria, non ha alcun diritto di ribellarsi alla Chiesa. Del resto, cosa è la vocazione religiosa? È una chiamata di Dio, è vero, ma è anche molto di più: è un rapporto materno particolare ed unico con il Signore.
Vediamo un po’ di storia. Le suore (termine latino che significa “sorelle”) di “vita attiva” si svilupparono nel XVI sec. quando l’attività evangelizzatrice della Chiesa cominciò ad espandersi, oltre che in Europa e nel Vecchio continente, anche nelle terre d’oltre Oceano; lo scopo era quello di occuparsi delle attività caritative, affiancandosi ai sacerdoti missionari, spesso diventati poi fondatori di congregazioni e santi. Ben presto si moltiplicarono e, in una forma allora nuova per la Chiesa, si prodigarono, oltre che alle opere caritative, anche nell’attività più impegnativa dell’insegnamento. Fino ad allora erano i laici aggregati alle Confraternite o agli Ordini Terziari ad occuparsi di tali attività.
Pochi forse sanno però che, prima delle suore di vita attiva, furono fondate, e presenti nella Chiesa, le monache di clausura. Lo stesso san Benedetto intorno al 500, e altri santi fondatori, nel dare vita agli ordini maschili, si prodigarono perché fosse presente anche il ramo femminile, a cui affidare una interrotta lode a Dio. Papa Paolo VI a chi gli chiese “perché farsi monaca di clausura?”, rispose: “È necessario che ci siano al mondo persone che trattino il Signore da Signore”.
La monaca di clausura in particolare è colei che ha avuto la chiamata di vivere alla lettera il messaggio evangelico. Essa ha Maria quale modello di vita silenziosa e nascosta, tuttavia mai oziosa e mai distaccata dalla missione terrena del Figlio. La monaca di clausura è presente nella vita di ogni uomo perché il suo umile “Si” si è fuso nel “Si” di Maria: se Maria è in attesa del Figlio di Dio per la salvezza dell’umanità, la monaca di clausura è in “attesa” della ri-nascita spirituale di ogni uomo, vivendo attraverso e mediante il sacrificio di Gesù sulla Croce. Ecco perché il silenzio, la dura disciplina, l’Eucarestia, sono il fulcro della vita claustrale, così come lo sono per tutta la Chiesa, così come dovrebbe esserlo anche per noi, seppur nei modi propri a ciascuna scelta di vita. Le suore di clausura, perciò, sono sì “separate” ma mai “divise” dal resto del mondo; nel silenzio delle loro mura, sono il battito del cuore orante perpetuo della Chiesa; sono la sua linfa, attaccata ai tralci i quali, a loro volta e come ci dice il Cristo, sono attaccati all’intera Vite, cioè Lui stesso, “pietra angolare” della Chiesa, su cui poggiano le sue fondamenta. Famosa, in proposito, e profondamente vera, risuona la frase programmatica di santa Teresina del Bambin Gesù: “Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò l’amore”. Altro che l’attuale contestazione, ribellione, disobbedienza, esibizionismi, e ore passate in internet e su Facebook!
Tornando a Sr. Furst: c’è un’altra frase, già riportata, che merita comunque una spiegazione. Dice la suora: “Le religiose sono sempre state viste come domestiche del clero. Ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero, e lo diciamo anche”.
Non conosco la fondatrice o il fondatore della Congregazione a cui appartiene questa suora, ma so per certo che questo termine “domestiche” non può corrispondere a verità. Quindi lo ripeto: o c’è mala fede o c’è ignoranza.
Gesù venne “per servire”, lo ha ampiamente dimostrato: e su questo carisma della Chiesa, Papa Francesco ha ampiamente dimostrato di poggiare il suo ministero pastorale.
Ora se il presbitero “serve” il Signore attraverso il ruolo pastorale che gli è proprio, la “monaca di clausura” attraverso atti che sono propri della sua professione monastica, quali il “quaerere Deum” con la preghiera, l’obbedienza, la povertà e castità, “donando” cioè l’intera sua vita, la “suora” di vita attiva lo fa attraverso una maternità che è propria del servire i figli rigenerati dalla Chiesa mediante il Battesimo, lo fa concretamente attraverso l’insegnamento, la catechesi, il servizio a favore dei malati, dei poveri, nelle Case Famiglia -che si occupano di bambini abbandonati, ragazze madri, ecc - e in tutti gli altri compiti specifici previsti dalle Congregazioni in cui sono state chiamate secondo la volontà di Dio.
Nella consacrazione di ognuna di loro (come anche per le donne spose e madri, così come per le “consacrate” laiche non sposate) c’è alla base l’essere “serve” proprio sul modello della Beata Vergine Maria che disse: “L’anima mia magnifica il Signore (…) perché ha guardato l’umiltà della sua ancella, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata…”.
Penso: come fa Sr. Furst, cantando il Magnificat ogni sera ai Vespri, a pronunciare quella parola “ancella” e poi affermare una balordaggine simile: “…ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero”?
C’è invece da sottolineare, in tutta onestà, quanta libertà ci sia nel consacrarsi e nel servire il Signore. Le suore, le monache, per il loro carisma, sono votate infatti ad una autentica libertà che non è altro che un assaggio, ma anche una prova in questo mondo, di quella pienezza promessa da Nostro Signore a chi, lasciando tutto, ma proprio tutto, si sarebbe fatto servo dei servi di Cristo.
Vi ricordate chi usava molto questa frase? Santa Caterina da Siena. La patrona d’Italia scriveva: “Io Catharina, serva dei servi (i Presbiteri, i Vescovi, il Papa) di Cristo, nel Suo preziosissimo Sangue, voglio!…”. Come fa una monaca, una suora oggi, a rigettare tale grande chiamata, rifiutare quel “fiat” con il quale la Beatissima Vergine Maria fu la prima serva, correndo dalla cugina Elisabetta per portarle il suo aiuto, per servirla?
Non diciamo che un tale decadimento è colpa del Concilio… Qui il Concilio non c’entra nulla.
Le avvisaglie erano state colte da tempo. Già Paolo VI, infatti, nell’omelia del 30 giugno 1968, per la chiusura dell’Anno della Fede e prima di pronunciare il solenne Atto di Fede della Chiesa (che sarebbe bene riproporre anche nel corrente Anno della Fede!), disse: “Noi siamo coscienti dell’inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. […] Pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli.”
Scriveva Giovanni Paolo II: “Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. È per questo che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere. (…) il mio Predecessore Paolo VI ha esplicitato il significato di questo «segno dei tempi», attribuendo il titolo di Dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena, ed istituendo, altresì, su richiesta dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971, un’apposita Commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei riguardanti la «promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle donne». In uno dei suoi discorsi Paolo VI disse tra l’altro: “Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti (…); appare all’evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità” (discorso citato nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II, n.1).
Nella Lettera ai Vescovi dell’allora cardinale Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, sulla collaborazione fra l’uomo e la donna, così esordisce: ” Esperta in umanità, la Chiesa è sempre interessata a ciò che riguarda l’uomo e la donna. In questi ultimi tempi si è riflettuto molto sulla dignità della donna, sui suoi diritti e doveri nei diversi settori della comunità civile ed ecclesiale. Avendo contribuito all’approfondimento di questa fondamentale tematica, in particolare con l’insegnamento di Giovanni Paolo II, la Chiesa è oggi interpellata da alcune correnti di pensiero, le cui tesi spesso non coincidono con le finalità genuine della promozione della donna“.
Quali sono queste “correnti di pensiero” che non coincidono con l’autentica promozione della donna? Eccole, nei passaggi salienti del suddetto documento:
a) “Una prima tendenza sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della donna, allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione. La donna, per essere se stessa, si costituisce quale antagonista dell’uomo. Agli abusi di potere, essa risponde con una strategia di ricerca del potere. Questo processo porta ad una rivalità tra i sessi, in cui l’identità ed il ruolo dell’uno sono assunti a svantaggio dell’altro, con la conseguenza di introdurre nell’antropologia una confusione deleteria che ha il suo risvolto più immediato e nefasto nella struttura della famiglia.
b) Una seconda tendenza emerge sulla scia della prima. Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa”.
“L’utero è mio e lo gestisco io” di infelice memoria, nel cuore della protesta femminista degli anni ’60, non ha fatto altro che offuscare il ruolo della donna facendola precipitare in una pietosa solitudine sfociata in una ribellione contro l’uomo. La prima vittima di questa assurda ed incomprensibile rivendicazione è stata proprio la donna stessa, il suo ruolo, la famiglia, la vita umana, i figli concepiti che vengono uccisi (per legge) per rivendicare una libertà che è diventata una autentica schiavitù del nostro tempo. Vittima di se stessa anche la società, che ha permesso la deriva dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità sull’identità dell’essere maschio e dell’essere femmina. Se è vero che la donna ha dovuto combattere contro una certa misoginia dura a morire, è anche vero che nessuna suora o monaca (ma neppure una donna laica) può accusare la Chiesa di essere misogina, rispondendo ad una sua inquietudine, sollevando la bandiera del femminismo più sfrenato dalla presunzione di azzerare o equiparare, al fine annullandole, l’identità delle persone e dei ruoli.


(Ma.La. da una ricerca a firma Dorotea Lancellotti, Papalepapale, 1/2013)
 

1 commento:

Mafaldina ha detto...

ma Furst non è ilnome di una birra??? Uhm...no? Allora la sorella me sa che se ne "trincata" un bidoncino....senza sapere che fosse birra!!