Il tema dell’ecumenismo è infatti facilmente strumentalizzabile da chi, più che la fede professata e vissuta dai cristiani, è interessato ai processi socio-politici connessi alle “relazioni esterne” tra la Chiesa Cattolica e le altre comunità cristiane. Mentre quella - la fede professata e vissuta dai cristiani - richiede che il discorso sia sempre rapportata alla verità della rivelazione divina, queste – le “relazioni esterne” tra la Chiesa Cattolica e le altre comunità cristiane (in questo caso, il variegato mondo dell’Ortodossia) – possono essere presentate sotto il profilo dei buoni rapporti istituzionali tra le diverse autorità religiose della nostra Europa e del Vicino Oriente. E questo profilo, indubbiamente importante per i sociologi e gli analisti delle vicende geopolitiche dell’attualità, è di scarso interesse per un credente.
Per di più, pochi, tra i lettori di giornali e tra i teleascoltatori hanno avuto modo di essere illuminati su che cosa sia davvero l’ecumenismo e a quali risultati si spera possa condurre. Gli stessi giornalisti confondono l’ecumenismo con il dialogo interreligioso, e la differenza non è da poco se ci si rivolge ai credenti. Infatti, mentre il dialogo interreligioso si può agganciare alla Scrittura soltanto nella sua forma “apostolica” (di evangelizzazione, di apostolato ad fidem), l’ecumenismo ha un rapporto testuale strettissimo con la rivelazione divina e pertanto con la fede professata e vissuta dai credenti di tutte le comunità cristiane. Essi sanno o dovrebbero sapere che Cristo stesso ha voluto che tutti coloro che credono in Lui siano “una sola cosa”, come Egli è una sola cosa con il Padre e con lo Spirito Santo. Per l’unità di tutti i credenti Cristo ha pregato il Padre e continua a operare con efficacia divina, per mezzo del suo Spirito, il quale ispira e dona la forza necessaria ai ministri della sua Chiesa. Tutto ciò è tato solennemente ricordato dal decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, del Vaticano II, e ogni fedele ne può leggere una sintesi chiara e aggiornata nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
In base a questa dottrina, già da secoli è sorto il cosiddetto “movimento ecumenico”, ad opera di cristiani cattolici e di cristiani acattolici, ossia appartenenti (per professione di fede) a quelle comunità cristiane che nei secoli passati si sono separate da Roma: gli ortodossi, i protestanti, gli anglicani. I motivi della separazione sono diversi, ma il principale è il rifiuto di accettare il “ministero petrino”, ossia il primato di giurisdizione del vescovo di Roma sugli altri vescovi. La rottura dell’unità dei cristiani si è verificata appunto nella forma dello “scisma”, ossia come disconoscimento della funzione che Cristo stesso ha affidato a Pietro, capo del collegio apostolico, allo scopo di garantire l’indefettibilità della Chiesa mediante il carisma dell’infallibilità nella custodia e nell’interpretazione della verità rivelata e il potere di santificare e di governare tutti i battezzati.
Qual è la meta del movimento ecumenico? Contribuire, con gli studi teologici, la preghiera e il dialogo fraterno, a far sì che i cattolici e i fedeli delle altre comunità cristiane superino le divisioni, lo scisma. Ciò significa vivere e operare con l’intenzione di assecondare la volontà di Cristo, espressamente rivelata agli Apostoli e scritta nei Vangeli, il quale chiede ai cristiani di restare uniti o di superare le divisioni, storicamente prodotte, più che da equivoci dottrinali, dalle interferenze dei poteri politici nella vita delle comunità religiose. Il caso dello scisma anglicano, provocato nel Cinquecento dal rifiuto di Enrico VIII di riconoscere la giurisdizione del Papa sulle questioni canoniche che lo riguardavano, è paradigmatico.
San Tommaso Moro, primo ministro del re d’Inghilterra, preferì subire la decapitazione comminata da Enrico VIII piuttosto che riconoscere la legge da lui promulgata, secondo la quale la suprema giurisdizione sui cristiani in Inghilterra non era più del vescovo di Roma ma del re stesso, da allora capo della Chiesa cosiddetta “anglicana”. I documenti del processo che portò alla condanna di sir Thomas More mostrano come le ragioni dell’umanista martire non fossero di natura politica ma di natura squisitamente teologica. La resistenza alla divisione non ha altro motivo spirituale che la fedeltà a Cristo e alla Chiesa come Lui la vuole. Così, l’impegno per ripristinare l’unità non può che far leva sulla fede e suoi veri fondamenti, mettendo da parte interessi temporali che alla pratica effettiva di tale fede possano opporsi.
Ora, l’incontro di papa Francesco con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, non interessa tutto l’orizzonte dell’ecumenismo, ma solo quello più importante per la vita della Chiesa e che riguarda lo “scisma d’Oriente”, con la separazione delle “chiese autocefale” che hanno assunto la denominazione di “Ortodossia”, ritenendo che la vera fede cristiana si sia persa in Occidente con i concili ecumenici dell’epoca moderna, dopo quello di Firenze. E l’incontro di papa Francesco con il patriarca di Costantinopoli non riguarda nemmeno tutte il mondo dell’Ortodossia, perché il patriarca di Costantinopoli non rappresenta tutti gli ortodossi e tanto meno quelli che fanno capo al patriarca di Mosca.
Si tratta comunque di un gesto di rispetto e di
amicizia tra
istituzioni che è stato giustamente esaltato come un “passo avanti” perché ha
un grande valore simbolico – e si sa che nei rapporti tra istituzioni i
messaggi pubblici passano anche attraverso gesti simbolici. Del resto, si
tratta di un gesto che fa seguito a tanti altri che in precedenza sono stati
prodotti dal beato Paolo VI, da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Nel
frattempo, il lavoro dei teologi, i quali debbono superare le incomprensioni
che l’Ortodossia nutre nei riguardi del primato del vescovo di Roma, continua
lentamente, senza per ora aver raggiunto risultati sostanziali.
Chi tra i commentatori cattolici è animato da buone
intenzioni ma non
ha le idee chiare sugli scopi dell’ecumenismo, pensa che sarebbe ora di
abbandonare il lavoro dei teologi e risolvere i problemi “pragmaticamente”,
cioè con l’esibizione di “buoni sentimenti” e con suggestive scene di amicizia
fraterna davanti alle telecamere. Pia illusione: mettere da parte il dogma – il
cui rifiuto è stato all’origine dello scisma – non porterebbe mai a ricomporre
l’unità dei cristiani con una sola professione di fede. Perché la fede
cristiana è un corpo unico di dottrina rivelata, e i suoi elementi essenziali
(che si chiamano “articuli fidei”, per dire appunto le articolazioni, ossia le
membra di un unico corpo) non possono essere separati uno dall’altro o uno
dall’insieme. La dottrina sullo Spirito Santo, che la Chiesa di Roma introdusse nel Simbolo Niceno-costantinopolitano mille anni or sono, riguardava il dogma trinitario, e su questo dogma iniziò a formarsi il dissenso teologico – motivato certamente da incomprensioni e fraintendimenti - che portò allo scisma d’Oriente. Il riavvicinamento tra la Chiesa d’Oriente (di lingua greca) quella di Occidente (di lingua latina) fu poi possibile, anche se provvisoriamente, solo sulla base di chiarimenti dottrinali sulla differenza tra dogma e interpretazioni teologiche, come ho avuto occasione di spiegare in un convegno teologico sul “Filioque” svoltosi recentemente preso l’Ateneo Pontifico Regina Apostolorum. I gesti esteriori di amicizia e l’esibizione di buoni sentimenti non risolvono alcun problema se servono soltanto a mettere da parte le questioni dogmatiche.
Ciò vale anche per la questione del primato, anch’essa di natura dogmatica. Non si può progredire sulla strada della ricomposizione dell’unità con gli ortodossi se non si rende accettabile – non con il cedimento sul dogma ma con l’intesa sulla sua possibile interpretazione teologica e sui possibili adattamenti alle necessità della multiforme prassi ecclesiale – il dogma del ministero del vescovo di Roma, che comprende le prerogative volute da Cristo proprio per l’unità della Chiesa, come è stato definito dal magistero ecclesiastico, dal Concilio Vaticano I (vedi la costituzione dogmatica Pastor Aeternus) fino al Concilio Vaticano II incluso (vedi la costituzione dogmatica Lumen gentium).
Ecco allora come “vedere”, da cattolici, l’evento recente di Istanbul. Ci dobbiamo compiacere del fatto che il patriarca Bartolomeo abbia ricevuto con gesti di cordialità e di rispetto il capo della Chiesa Cattolica. Ma, a parte i gesti, le sue parole non segnano alcun progresso reale nell’intesa sul dogma. Egli infatti ha detto che la visita del vescovo di Roma fa ben sperare «che l’avvicinamento delle nostre due grandi antiche Chiese continuerà a edificarsi sulle solide fondamenta della nostra comune tradizione, la quale da sempre rispettava e riconosceva nel corpo della Chiesa un primato di amore, di onore e di servizio, nel quadro della sinodalità, affinché con una sola bocca ed un sol cuore si confessi il Dio Trino e si effonda il suo amore nel mondo».
Come si vede, il primato, secondo Bartolomeo, non va attribuito dai cristiani al vescovo di Roma ma al corpo della Chiesa, ossia all’insieme di tutti i vescovi (“sinodalità”). Poi Bartolomeo, riferendosi al campo ortodosso, ha aggiunto che “la divina provvidenza attraverso l’ordine costituito dai santi concili ecumenici, ha assegnato la responsabilità del coordinamento e della espressione della omofonia delle santissime Chiese ortodosse locali” proprio al patriarca ecumenico di Costantinopoli, cioè a lui stesso. Già questo “coordinamento” non assomiglia per nulla a una funzione primaziale, e poi non riguarda tutta la Chiesa ma solo gli ortodossi.
Da parte sua, nemmeno papa Francesco ha potuto affrontare la questione cruciale ma si è accontentato di ricordare che «la Chiesa cattolica riconosce che le Chiese ortodosse hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli». Poi ha auspicato la futura realizzazione di accordi istituzionali che portino al ristabilimento della piena comunione, la quale – ha detto per rassicurare gli ortodossi - «non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno. […]. Per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze». Ben sapendo che la fede comune non si dà senza la comune accettazione dei medesimi dogmi.
A torto quindi molti commentatori, come quelli di Vatican Insider, hanno scritto che “per l’attuale successore di Pietro il ripristino della piena comunione tra cristiani cattolici e ortodossi sarebbe possibile già ora, senza porre ai fratelli ortodossi pre-condizioni di carattere teologico o giurisdizionale”. Dico “a torto” perché la giurisdizione del vescovo di Roma deriva direttamente, nei suoi elementi essenziali, dal dogma; questi commentatori, ripetendo gli slogan di Enzo Bianchi, fingono di ignorare che l’accantonamento del dogma sarebbe per i cattolici un peccato contro la fede, e agli occhi degli ortodossi, così attaccati alla tradizione dogmatica dei primi Concili ecumenici, apparirebbe come un miserabile espediente politico dei “latini” per dissimulare le loro vere intenzioni.
(Fonte:
Antonio Livi, La nuova bussola quotidiana, 2 dicembre 2014)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-ortodossi-bei-gesti-nessun-vero-passo-avanti-11101.htm
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