Negli
ultimi tempi, la pastorale della Chiesa cattolica - a tutti i livelli: dal
sommo Pontefice agli operatori della pastorale “di strada” - appare
guidata dal convincimento che la Chiesa debba proporsi al “mondo” vincendo le
sue diffidenze con l’esplicita accettazione di tutte le sue critiche teoriche e
di tutte le sue alternative pratiche. Tale convincimento induce i Pastori a
promettere al mondo l’imminente avvento di una Chiesa tutta nuova, priva ormai
di quegli elementi negativi che la rendevano incomprensibile e inaccettabile.
La Chiesa infatti avrebbe smesso di rifarsi a un modello tradizionale di
pensiero (il dogma) e di azione (la pastorale) e sarebbe stata capace di
«re-inventarsi», come si suole dire. Il mondo avrebbe finalmente visto nella
Chiesa qualcosa di assolutamente “nuovo”, qualcosa di diverso rispetto a tutta
la sua tradizione dottrinale e istituzionale; e questo perché avrebbe avuto il
coraggio di una profonda autocritica (ritenendo evidentemente legittime e
giuste la critiche che da secoli gli rivolge il “mondo”), in base alla quale
avrebbe avviato una radicale riforma di se stessa.
Il
primo effetto di questa volontà di riforma è l’adozione di un nuovo linguaggio:
per dimostrare al mondo che la vecchia Chiesa, da esso giustamente respinta,
non c’è più e che al suo posto ce n’è una nuova, in ogni momento dell’azione
pastorale occorre dismettere definitivamente il linguaggio dei dogmi e delle
leggi canoniche, e cominciare a parlare con il medesimo linguaggio con cui i maîtres
à penser dell’Occidente tecnologico e secolarizzato esprimono la loro
opzione per un “pensiero debole” e i leaders della politica mondiale
esprimono l’accordo globalizzato sulla “political correctness”.
La
retorica umanistica al posto della “sacra
doctrina”.
Questo
linguaggio, volutamente ambiguo, predilige come mezzo espressivo le metafore, e
come orizzonte di senso le utopie. Le metafore – che, come dice l’etimologia
stessa, portano il pensiero da una realtà all’altra - hanno una qualche utilità
comunicativa quando ai ricettori del messaggio risulta chiaro da quale realtà
si parte e a quale realtà si vuole giungere. Ma il linguaggio dei pensatori più
influenti dell’Occidente (pensiamo a Martin Heidegger), affine a quello dei
politici di ogni schieramento, nasconde intenzionalmente sia i presupposti che
le finalità del proprio discorso. E anche l’utopia – che, come dice l’etimologia
stessa, vagheggia una società immaginaria “che non può esistere in alcuna
parte” – è lo strumento retorico di cui si servono oggi tutti i leaders
della politica mondiale quando debbono guadagnarsi il consenso delle masse per
i loro progetti di riforma, rievocando di volta in volta la “pace perpetua” di
Kant, oppure la “società senza classi” di Marx, la “fine della storia” di
Francis Fukuyama, il “nuovo ordine mondiale” di Gerald Ford, la “salvezza
ecologica del pianeta” secondo l’accordo mondiale sul clima siglato a Parigi
nel dicembre del 2015.
La
nostra rivista di apologetica teologica, intendendo contribuire alla coscienza
delle finalità proprie della Chiesa cattolica, ritiene di dover avvertire tutti
i cosiddetti “operatori della pastorale” che l’ambiguità del metaforico e il
miraggio delle utopie sono quanto di più contrario alle esigenze
dell’evangelizzazione, dato che la verità del Vangelo esige di essere
comunicata con un linguaggio tale che gli “ascoltatori della Parola”
comprendano di essere chiamati alla conversione e alla fede
(«Convertitevi e credete al Vangelo!») attraverso la rivelazione dei «misteri
del Regno di Dio»: un Regno che essi debbono pregare perché venga, e verrà
certamente con la Parusia, sapendo allo stesso tempo che è già «in mezzo a
loro». Insomma, per chi comprende l’essenza vera del Vangelo (quella
teologica), dovrebbe essere evidente che la metafora e l’utopia sono strumenti
linguistici inadatti alla catechesi e all’evangelizzazione. E invece ecco che
la pastorale di oggi ha scelto di affidarsi a metafore e utopie, che riempiono
quotidianamente i discorsi di coloro che riprendono e ripetono le modalità
espressive (perfino gli slogan) di Papa Francesco. Lo scopo è di “promuovere”
le riforme della Chiesa da lui avviate o progettate o semplicemente annunciate,
presentandole all’opinione pubblica come suggerite tutte e sempre dallo
“Spirito”. Si insiste a parlare di “Spirito”, termine volutamente ambiguo
perché vicino semanticamente al principio primo dell’idealismo hegeliano
(ispiratore del pensiero religioso di influenti teologi come Hans Küng e Karl
Rahner) e non sempre riconducibile a ciò che la fede cattolica insegna sullo
Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità «che procede dal Padre e
dal Figlio e ha parlato per mezzo dei Profeti» (Simbolo
Niceno-costantinopolitano). Lo Spirito Santo, quello della fede cattolica,
ha sempre assistito la Chiesa di Cristo, fornendo agli Apostoli, a
partire dal giorno della Pentecoste, il coraggio della testimonianza e lo zelo dell’evangelizzazione,
assieme al carisma dell’infallibilità nel custodire e interpretare la divina
rivelazione. Dal punto di vista propriamente teologico, insomma, non ha molto
senso parlare di “una nuova Pentecoste” in riferimento al pontificato di Bergoglio
e attribuire a una diretta illuminazione dello Spirito Santo ogni sua
iniziativa riformatrice, specie se viene presentata come “rivoluzionaria”,
ossia come intesa a operare un rottura con la Tradizione, arrivando ad
accantonare o addirittura ad abolire gli insegnamenti e le decisioni pastorali
dei Papi precedenti. Emblematico, a questo proposito, il caso delle encicliche Humanae
vitae di Paolo VI e Familiaris consortio di Giovanni Paolo II,
ignorate o contestate durante i lavori del Sinodo dei vescovi sulla famiglia
conclusosi nell’ottobre del 2015, quando non pochi padri, individualmente o nei
diversi gruppi linguistici, chiedevano di introdurre nella prassi sacramentaria
dei cambiamenti che avrebbero comportato, non una riforma, ma una vera e propria
rivoluzione nella pastorale della Chiesa. Coloro che all’interno e all’esterno
del Sinodo hanno sostenuto la richiesta di abolire la precedente disciplina dei
sacramenti (cardinali come Walter Kasper e Reinhard Marx, vescovi come Bruno
Forte, teologi veri come Giovanni Cavalcoli e teologi presunti come Enzo
Bianchi) argomentavano sulla base di debolissime ragioni
socio-culturali, senza curarsi delle forti ragioni dogmatiche che
sorreggono la prassi tradizionale. Costoro ebbero comunque subito il consenso
dell’opinione pubblica più sprovveduta, sicché, forti di questo appoggio
mediatico, non esitarono a presentarsi come interpreti autorevoli e autorizzati
del Papa stesso.
È
proprio questa eco favorevole dell’opinione pubblica a favorire oggi
l’utilizzo, da parte di molti pastori, di argomenti ideologici che negli
ambienti civili si sono meritati l’epiteto di “populismo”. Negli ultimi tempi
abbiamo avuto fin troppi esempi di questo nuovo linguaggio pastorale fatto di
ambigue metafore e di fuorvianti prospettive utopistiche, dove di teologia non
c’è quasi più nulla e di retorica ce n’è fin troppa. E la deriva retorica si
estende ormai a tutti i mezzi di comunicazione sociale ufficialmente cattolici.
Lo notavo leggendo queste considerazioni sulla rivista culturale
dell’Università Cattolica di Milano:
«Sono
passati appena due anni, ma sono stati di un’intensità tale che il solco del
pontificato di Papa Francesco sembra già ben tracciato. Non mancheranno
ulteriori sorprese dello Spirito, quelle sorprese che il Papa accoglie e
discerne nei suoi lunghi tempi di preghiera e delle quali s fa portatore per il
bene della Chiesa e del suo servizio agli uomini. Considero che siamo all’alba
di una rivoluzione evangelica, e non c’è nulla di retorico in questa
affermazione [sic]. […] Quale sorpresa dello Spirito passare in così
breve tempo da un certo clima di assedio, sofferto dalla Chiesa in una sorta di
malinconico declino, all’esplosione di gioia e di speranza che suscita il
pontificato di Francesco, vento da lontano, portatore delle sofferenze e delle
speranze dei popoli latino-americani - che raccolgono quasi il 50% dei
cattolici di tutto il mondo – e dell’esperienza di maturità della loro Chiesa
manifestata ad Aparecida. Questa attrazione non è il risultato del carisma mediatico
del Papa; c’è qualcosa di molto più profondo che Lui fa emergere dai bisogni e
dai desideri della gente. Si sgretolano mura di pregiudizi e resistenze, si
pongono domande e attese anche tra coloro che credevano di aver chiuso i conti
con la fede e con la Chiesa; per molti, poi, è tempo di destarsi da una fede
addormentata, per altri è un rifiorire, per tutti è la ritrovata fierezza della
dignità e bellezza di essere cristiani. La libertà, la forza e la
determinazione di Papa Francesco si fondano, da una parte, nella coscienza
serena e lieta di lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio e, dall’altra,
dall’amore che gli manifesta il popolo di Dio, ispirato dal suo istinto
evangelico, dal sensus fidei, ma che gli esprimono anche, oltre i
confini ecclesiastici, i popoli della terra, che in soli due anni lo hanno reso
un leader mondiale nel drammatico scenario in cui viviamo» (Guzmàn M.
Charriquiry Lecour, «Francesco e l’alba di una rivoluzione evangelica», in Vita
e Pensiero, 2015, n. 3, p. 11).
In
discorsi di questo tipo, dicevo, di teologia non c’è quasi più nulla e di
retorica ce n’è fin troppa. Autore di questo brano è l’uruguaiano Charriquiry,
segretario della Pontificia commissione per l’America Latina; egli vive in
Vaticano da tanti anni e dovrebbe avere qualche cognizione teologica: eppure,
come si è visto, non esita a manipolare alcune nozioni che per il credente
hanno un significato soprannaturale ben preciso (“Spirito di Dio”, “popolo di
Dio”, “sensus fidei”), riducendole a espressioni socio-culturali che
hanno un qualche interesse solo in un contesto ideologico di tipo
populistico.
Una
pastorale che venga praticata con questo linguaggio potrà forse ottenere che i
fedeli cattolici nutrano una simpatia ancora maggiore per la persona del
Papa attuale, ma dubito che possa aumentare in essi la devozione che è
dovuta - non per motivi meramente umani ma per ragioni soprannaturali -
sia a Jorge Mario Bergoglio che a chiunque svolga di volta in volta il
ministero di Romano Pontefice, successore del principe degli Apostoli e massima
autorità di magistero e di governo nella Chiesa di Cristo. Per far sì che
cresca nei fedeli la devozione al Papa qua talis e di conseguenza
la docilità alle sue direttive pastorali, non servono i rilevamenti di
sociologia religiosa, in base ai quali si afferma che Bergoglio riscuoterebbe
sempre maggiore consenso presso i non cattolici, i non cristiani e i non
credenti: servirebbe piuttosto richiamare la verità di fede (una verità
tradizionale, e pertanto anche attuale) in forza della quale sappiamo per certo
che il Papa, chiunque egli sia, è il Vicario di Cristo in terra che da Cristo
stesso ha ricevuto il mandato e la grazia di pascere le pecore del suo
gregge per portare tutti, uno per uno, alla salvezza eterna.
La
missione della Chiesa è sempre e solo quella voluta da Cristo, al quale san
Giovanni Paolo II i riferiva volentieri con il titolo di Redemptor hominis.
E Cristo, a chi non rifiuta la sua verità e la sua grazia, ha promesso
l’ingresso nel suo Regno, che non è opera dell’uomo e non risponde a logiche
temporalistiche, come Egli stesso ha afferma perentoriamente davanti al
procuratore romano, rappresentante allora del potere politico:
«Pilato
allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Tu
sei il re dei Giudei? Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri
te l'hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse
Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me;
che cosa hai fatto? Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo
mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori
avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il
mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque ti
sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono
nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza
alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”» (Vangelo
secondo Giovanni, 33-37).
Il
Regno di Dio non può essere confuso con una qualsiasi utopia mondana, anzi la
esclude proprio. Per questo diciamo che non è buona pastorale quella che si
rivolge ai cristiani di oggi con prospettive di impegno del tutto contrarie a
quelle che i cristiani di ogni tempo hanno ricavato dagli insegnamenti e dai
precetti degli Apostoli:
«Ricordatevi
dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando
attentamente l'esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù
Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine
diverse e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia,
non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne usarono. Noi
abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono
al servizio del Tabernacolo. Infatti i corpi degli animali, il cui sangue vien
portato nel santuario dal sommo sacerdote per i peccati, vengono bruciati fuori
dell'accampamento. Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio
sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi
dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non
abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura. Per mezzo di lui
dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di
labbra che confessano il suo nome» (Lettera agli Ebrei, 7-15). «Questo
vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che
hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non
piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano,
come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero
appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (Prima Lettera ai Corinti,
29-31).
Nessuna
interessata acrobazia ermeneutica dovrebbe essere usata per convincere i
credenti a “mettere tra parentesi” queste verità della fede cristiana,
inducendoli a identificare la promessa divina del Regno di Dio con una qualche
utopia umana. E nemmeno lo dovrebbero le tante interpretazione ideologica della
costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II (nn. 40 ss.),
come quelle della “teologia politica” di Johann Baptist Metz o della “teologia
della liberazione” di Gustavo Gutiérrez. Quindi davvero non ha senso, da un
punto di vista correttamente pastorale, andar dicendo che la Chiesa, grazie
alla riforme di papa Bergoglio, si è posta al servizio del mondo per
contribuire a edificare sulla terra e nel tempo presente una società umana
perfetta, senza ingiustizie e divisioni, come quella utopisticamente
vagheggiata per un indeterminato futuro terrestre da coloro che, pur
considerandosi discepoli di Henri de Lubac, non hanno mai letto Le Drame de
l’humanisme athée, opera pubblicata dal teologo gesuita già nel 1944 e che
poi ha avuto tante nuove edizioni.
Non
mancano nemmeno Pastori coraggiosi e zelanti che tentano di arginare la deriva
secolaristica con interventi autorevoli che mirano a ribadire gli insegnamenti
tradizionali della Chiesa e a mostrare l’improponibilità di ogni forma di
ermeneutica della “rottura”, sia quando si continua a interpretate il Magistero
del Vaticano II come un nuovo inizio assoluto, in opposizione alla Tradizione
precedente, sia quando si pretende di ridimensionare o addirittura abolire il
magistero ordinario dei papi del post-Concilio, considerati traditori dello
“spirito conciliare” e restauratori dell’ancien régime dogmatico e
giuridicistico. Si tratta del già menzionato cardinale Sarah, ma anche del
cardinale Burke, e soprattutto del prefetto della congregazione per la dottrina
della fede, il cardinale Gerhard Müller, del quale mi preme segnalare, per la
sua grande opportunità, un’importante lettera i dirizzata ai vescovi del Cile e
un’intervista concessa alla rivista teologica cilena Humanitas.
Noi
della redazione di Fides Catholica, come teologi sempre fedeli a Cristo
e al suo Vicario in terra, ci sentiamo obbligati, per senso di responsabilità
apostolica, a contribuire ad arrestare la deriva secolaristica che sta
inquinando la pastorale cattolica. Per questo continuiamo a interpretare
rettamente – con quel sicuro criterio ermeneutico che la Chiesa stessa ha
fornito a tutti i fedeli - il magistero ordinario e universale del Papa,
unendoci logicamente ai Pastori che ne respingono le interpretazioni
manipolatorie e strumentali. Tale opera di chiarimento dottrinale ed epistemico
(dico “epistemico” perché la questione dell’ermeneutica della Tradizione, della
Scrittura e del Magistero è centrale) è stato svolto da tutti gli autori dei
contributi pubblicati su Fides Catholica fin dalla nascita della
rivista. Io stesso ho dedicato a questo tema il saggio intitolato Dogma e
pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia,
realizzato in collaborazione con Stefano Carusi ed Enrico Maria Radaelli. In
questo stesso fascicolo Serafino Lanzetta illustra gli intendimenti e gli esiti
della sua ricerca scientifica sul carattere “pastorale” del Vaticano II. Siamo
consapevoli di essere una voce (rigorosamente teologica) che a malapena riesce
a fari sentire nel frastuono delle voci (esclusivamente ideologiche) che
dominano la scena pubblica, sia all’interno che all’esterno della comunità dei
credenti. Ma continuiamo a fornire il nostro contributo di apologetica della
vera fede nei limiti delle concrete possibilità che la Provvidenza ci concede,
sapendo che è proprio Essa, la divina Provvidenza, e fare “il resto”, cioè
tutto. Ci conforta in questa convinzione un brano della Scrittura Santa che
sembra potersi riferire proprio alla nostra situazione presente:
«Io
sono il Signore tuo Dio che ti tengo per la destra e ti dico: "Non temere,
io ti vengo in aiuto". Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di
Israele; io vengo in tuo aiuto - oracolo del Signore - tuo redentore è il Santo
di Israele. Ecco, ti rendo come una trebbia acuminata, nuova, munita di molte
punte; tu trebbierai i monti e li stritolerai, ridurrai i colli in pula. Li
vaglierai e il vento li porterà via, il turbine li disperderà. Tu, invece,
gioirai nel Signore, ti vanterai del Santo di Israele. I miseri e i poveri
cercano acqua ma non ce n'è, la loro lingua è riarsa per la sete; io, il
Signore, li ascolterò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò. Farò scaturire
fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un
lago d'acqua, la terra arida in sorgenti. Pianterò cedri nel deserto, acacie,
mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti; perché
vedano e sappiano, considerino e comprendano a un tempo che questo ha fatto la
mano del Signore, lo ha creato il Santo di Israele» (Libro di Isaia,
41,13-20).
(Fonte: Antonio Livi, Fides et Ratio, 15 dicembre
2015)
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