L’attuale
crisi del prete tocca l’identità e, di conseguenza, chiede di rivedere il
modello ministeriale e pastorale, ritornando all’essenza della chiamata e
all’essenziale del ministero. Siamo partiti da qui, solo per una breve
fotografia e per iniziare a toccare qualche nervo scoperto.
Ritornerò
sulla problematica, su alcuni dei suoi aspetti principali e sulla tipologia di
prete che, almeno oggi, sembra entrare in crisi, invocando piste nuove e
creative su come ripensare questa figura; tuttavia, proprio partendo dalla
convinzione che prima di ogni “ricetta” pragmatica occorrono la riflessione e
il pensiero – cosa che, peraltro, non convince molto neanche i preti! – è bene
soffermarci sulla questione già accennata dell’identità presbiterale. Non si
riuscirà ad affrontare la figura del prete se le possibili soluzioni,
anzitutto, non partono dalla domanda sull’identità: chi è davvero il
prete?
Quello
“scarto” incolmabile
La
domanda non vuole essere retorica né limitarsi ad offrire una qualche
meditazione di taglio spirituale. Essa nasce da una semplice convinzione: sulla
crisi in atto, vi sono motivi contingenti e contestuali, come i cambiamenti
socio-culturali degli ultimi decenni, la crescente disaffezione nei confronti
della fede cristiana, le nuove sfide rivolte all’annuncio della fede o il calo
delle vocazioni che sovraccarica alcuni e aumenta l’età media del clero;
tuttavia, essa coinvolge per così dire la “totalità dell’essere prete”, cioè
quella sua identità profonda e radicale, che trascende ogni aspetto storico
particolare.
Nessuno
si spaventi se affermo che… la domanda sulla crisi del prete è strettamente
“teologica”, cioè non potrà essere davvero affrontata se ci soffermeremo
epidermicamente sull’analisi sociologica o su facili soluzioni di tipo
pastorale.
C’è
una parola che, più di tutte, ci rappresenta: scarto.
La
avvertiamo dentro, quasi come un brivido, per la sua capacità di fotografare
ciò che sperimentiamo ogni attimo sulla nostra pelle e ci rimanda, appunto, al
contenuto teologico dell’identità presbiterale. Non si tratta di un semplice
sentirsi “inadeguati” – anche un medico in parte lo è rispetto alla gravità di
certe situazioni da prendere in cura, o un giudice rispetto a una decisione
difficile – e né, tantomeno, dobbiamo scivolare in un certo moralismo
depressivo che si fissa sulle fragilità e sul peccato. Saremo sempre dei preti
peccatori.
Qui
c’è molto di più: lo scarto è iscritto in modo costituzionale in ogni vocazione
cristiana e, in generale, nell’esperienza di fede: Dio e l’uomo, Colui che
chiama e il chiamato, il Maestro e il discepolo, il Vangelo e il cuore
dell’uomo, non saranno mai sullo stesso piano. La rivelazione di Dio in Gesù
Cristo abbatte i muri di separazione e colma tale distanza ma, tuttavia, ciò
non significherà mai un annullamento della “differenza”. Tra Dio e noi essa
continuerà ad esistere.
È Dio
che invia e sostiene Mosé, che purifica le labbra di Isaia, che rassicura il
giovane Geremia, che affida a un pescatore impulsivo la guida della Chiesa;
tuttavia, ciò non avviene a prezzo di un “salto” della loro umanità, che di
colpo cancellerebbe l’essere impuro, o giovane o impulsivo ma – come confesserà
splendidamente san Paolo – proprio dentro le debolezze e le spine della carne.
Perciò,
la questione dell’identità del prete ci rimanda alle origini della vocazione e
a quella “differenza” che segnerà sempre uno scarto rispetto a Colui che ci ha
chiamati e al compito affidatoci; si tratterà di restare sempre in cammino –
mai arrivati e appagati – aperti a come il Signore, pur conservandoci in questo
scarto talvolta difficile da portare nella carne, ci consolerà, ci rafforzerà e
ci farà vedere, seppur in lontananza, “il paese dove scorrono latte e miele”.
Non
siamo chiamati a fare “tutto”
Ogni
volta che il ministero stesso ci colloca altrove, ci chiama
e ci ridefinisce, ci invita a ricominciare sempre da capo, facendoci
cambiare destinazioni pastorali e modelli precedentemente acquisiti, la nostra
identità di preti cambia, si evolve, matura e si apre a paesaggi inediti. A
patto che non ci chiudiamo rigidamente in uno schema precostituito e ci
lasciamo – con grande fatica – interrogare dallo Spirito e dalla vita.
Dello
scarto nella vita del prete ha scritto con grande efficacia Antonio Torresin,
affermando che il ministero sacerdotale “è segnato da uno scarto, da un
insuperabile contrasto che segna l’esperienza di essere discepoli, la missione
e il mandato ricevuti. Meglio, che segna ogni chiamata, fino all’umano stesso.
Non siamo all’altezza del compito assegnato, esso ci trascende in modo
insuperabile, ci travolge e ci supera: è troppo per noi. Eppure è proprio ciò
che meglio ci corrisponde, è ciò senza il quale la nostra umanità si perde.
Questo eccesso che è il ministero è la nostra unica salvezza; non solo la via
alla santità, ma la grazia per non perderci. (A. Torresin, «Il
paradosso del ministero. Quando la missione ridefinisce il prete», Il
Regno/Attualità 2/2010, 22).
Questo
scarto è vissuto in modo diverso non solo da ciascun prete – cosa che rimane
ovvia – ma anche a seconda delle fasi della vita sacerdotale, degli anni di
messa, delle esperienze pastorali vissute nel tempo e, non da ultimo, dei
contesti ecclesiali in cui siamo posti.
Senza
voler negare alcune problematiche esistenti e inedite, che invocano un’ampia
riflessione ecclesiale, credo che riconciliarci con questo scarto, accoglierlo
e farselo amico nella vita sacerdotale di ogni giorno e, forse ancor prima,
formarsi e prepararsi ad esso e a come conviverci, potrebbe essere un primo
antidoto alla crisi e un punto di forza per la “tenuta” del prete.
Non è
forse vero che, piccoli o grandi momenti di crisi nella nostra vita, dipendono
talvolta dal non aver compreso che al prete non è richiesto “tutto”, che non è
chiamato “salvare il mondo” (già fatto, ci ha pensato Nostro Signore), che non
è e non dovrebbe essere il centro, la fonte e il culmine della comunità e
dell’azione pastorale? Non sarà che molte frustrazioni, sofferenze e
depressioni, dipendono anche dall’aver sopravvalutato noi stessi e fatto delle
richieste eccessive (o almeno troppo numerose) al nostro ministero?
(Fonte:
Francesco Cosentino, Settimana News, 14
luglio 2017)
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