Il
recente intervento di monsignor Carlo Maria
Viganò dedicato ai legami tra il Concilio Vaticano II e le “deviazioni
dottrinali, morali, liturgiche e disciplinari sorte e progressivamente
sviluppatesi fino a oggi” punta su una questione che, per quanto sia fonte di
sofferenza per molti di noi che siamo cresciuti nella Chiesa postconciliare,
non è eludibile.
Monsignor
Viganò, prendendo spunto da un contributo del vescovo Athanasius
Schneider, parla apertamente di un “monstrum generato nei circoli
dei modernisti” e che ora si mostra per ciò che è, “nella sua indole eversiva e
ribelle”.
Inutile
girarci attorno: se oggi abbiamo una Chiesa che in molte occasioni prende vie
ereticali di matrice gnostica e si ispira a quel vago umanitarismo che tanto
piace al mondo e che, non a caso, le procura l’applauso di chi è sempre stato
nemico della Chiesa stessa, è perché il Concilio Vaticano II, a differenza di
tutti quelli che lo precedettero, pretese, in fin dei conti, di fondare una
Chiesa nuova. È vero che ciò non venne mai proclamato e che anzi si parlò della
necessità del rinnovamento senza intaccare il depositum fidei, ma i
circoli modernisti di fatto utilizzarono il Concilio per introdurre una
discontinuità. E lo strumento retorico a cui si fece ricorso fu l’espressione,
del tutto inedita, “spirito del Concilio”, concetto che permise di fatto di
introdurre sconvolgimenti, ben al di là di quanto era scritto nei testi.
C’è un
passaggio, nell’intervento di monsignor Viganò, che mi ha colpito in modo
particolare, perché è molto personale e penso che più di un lettore vi si possa
riconoscere: “Giunge un momento nella nostra vita in cui, per disposizione
della Provvidenza, ci è posta dinanzi una scelta determinante per il futuro
della Chiesa e per la nostra salvezza eterna. Parlo della scelta tra il comprendere
l’errore in cui siamo caduti praticamente tutti, e quasi sempre senza cattive
intenzioni, e il voler continuare a volgere altrove lo sguardo o
giustificarci”.
Ecco,
credo che questa affermazione metta in rilievo il dramma di chi, cresciuto
nella Chiesa del dopo Concilio, a distanza di decenni non può non aprire gli
occhi e rendersi conto dell’inganno.
In campo
ecumenico come in quello liturgico, scrive Viganò, a lungo “abbiamo pensato che
certi eccessi fossero solo un’esagerazione di chi si era lasciato prendere
dall’entusiasmo della novità”, ma ci siamo sbagliati. Riferendosi all’orrenda
pachmama, monsignor Viganò lo dice chiaramente: “Se il simulacro di una
divinità infernale è potuto entrare in San Pietro, ciò fa parte di un crescendo
che lo spartito prevedeva sin dall’inizio”. Allo stesso modo, se “numerosissimi
cattolici praticanti, e forse anche gran parte degli stessi chierici, sono oggi
convinti che la fede cattolica non sia più necessaria per la salvezza eterna” e
se molti sono ormai intimamente convinti che “il Dio Uno e Trino rivelatosi ai
nostri padri sia lo stesso dio di Maometto”, è perché il seme dell’errore e
dell’eresia è stato piantato più di mezzo secolo fa e poi coltivato nel corso
dei decenni.
“I
progressisti e i modernisti – scrive Viganò – hanno saputo astutamente
nascondere nei testi conciliari quelle espressioni di equivocità che all’epoca
parevano innocue ai più ma che oggi si manifestano nella loro valenza
eversiva”.
Io non
sono uno storico della Chiesa né tanto meno del Concilio Vaticano II, ma sento
di poter aderire a quanto spiega monsignor Viganò quando sostiene che c’è stato
un inganno e che molti sono caduti nella trappola. Quando l’arcivescovo parla
di una “corsa verso l’abisso” e si dice stupito del fatto che “ancora ci si
ostini a non voler indagare le cause prime della crisi presente, limitandosi a
deplorare gli eccessi di oggi quasi non fossero la logica e inevitabile
conseguenza di un piano orchestrato decenni orsono”, credo che ci metta di
fronte a un compito non aggirabile.
Viganò è
molto netto quando mette in collegamento diretto la pachamama con Dignitatis
humanae, la liturgia protestantizzata con le tesi di monsignor Annibale
Bugnini, il documento di Abu Dhabi con Nostra aetate, e so bene che
tante persone, anche tra coloro che fanno parte dello schieramento opposto a
quello modernista, di fronte alle affermazioni dell’arcivescovo fanno un balzo
sulla sedia, sostenendo che i mali e gli abusi non sono nati con il Concilio ma
a causa di un tradimento del Concilio. Non è questa la sede per entrare nella
disputa. Per parte mia, sento di poter aderire all’analisi di monsignor Viganò
quando scrive che “il Concilio è stato utilizzato per legittimare, nel silenzio
dell’autorità, le deviazioni dottrinali più aberranti, le innovazioni
liturgiche più ardite e gli abusi più spregiudicati. Questo Concilio è stato
talmente esaltato da essere indicato come l’unico riferimento legittimo per i
cattolici, chierici e vescovi, oscurando e connotando con un senso di spregio
la dottrina che la Chiesa aveva sempre autorevolmente insegnato, e proibendo la
perenne liturgia che per millenni aveva alimentato la fede di un’ininterrotta
generazione di fedeli, martiri e santi”. E sento di poter aderire anche là dove
Viganò scrive: “Lo confesso con serenità e senza polemica: sono stato uno dei
tanti che, pur con molte perplessità e timori, che oggi si rivelano
assolutamente legittimi, hanno dato fiducia all’autorità della gerarchia con
un’obbedienza incondizionata. In realtà penso che molti, ed io tra questi, non
abbiamo inizialmente considerato la possibilità di un conflitto tra
l’obbedienza a un ordine della gerarchia e la fedeltà alla Chiesa stessa. A
rendere tangibile la separazione innaturale, anzi, direi perversa, tra
gerarchia e Chiesa, tra obbedienza e fedeltà è stato certamente quest’ultimo
pontificato”.
Insomma,
“nonostante tutti i tentativi di ermeneutica della continuità miseramente
naufragati al primo confronto con la realtà della crisi presente, è innegabile
che dal Vaticano II in poi si sia costituita una chiesa parallela, sovrapposta
e contrapposta alla vera Chiesa di Cristo. Essa ha progressivamente oscurato la
divina istituzione fondata da Nostro Signore per sostituirla con un’entità
spuria, corrispondente all’auspicata religione universale di cui fu prima
teorizzatrice la massoneria. Espressioni come nuovo umanesimo, fratellanza
universale, dignità dell’uomo sono parole d’ordine dell’umanitarismo
filantropico negatore del vero Dio, del solidarismo orizzontale di vaga
ispirazione spiritualista e dell’irenismo ecumenico che la Chiesa condanna
senza appello”.
Arrivare
a queste conclusioni provoca, lo ripeto, sofferenza, eppure, come scrive
Viganò, occorre guardare in faccia la realtà. “Questa operazione di onestà
intellettuale richiede una grande umiltà, anzitutto nel riconoscere di essere
stati tratti in errore per decenni, in buona fede, da persone che, costituite
in autorità, non hanno saputo vigilare e custodire il gregge di Cristo: chi per
quieto vivere, chi per i troppi impegni, chi per convenienza, chi infine per
malafede o addirittura per dolo. Questi ultimi, che hanno tradito la Chiesa,
devono essere identificati, ripresi, invitati a emendarsi e, se non si
ravvedono, cacciati dal sacro recinto. Così agisce un vero pastore che ha a
cuore la salute delle pecore e che dà la vita per loro; di mercenari ne abbiamo
avuti e ne abbiamo tuttora fin troppi, per i quali il consenso dei nemici di
Cristo è più importante della fedeltà alla sua Sposa”.
La
trappola è scattata, in tanti ci siamo cascati, ma ciò non giustifica il
perseverare nell’errore. “E se fino a Benedetto XVI – osserva Viganò – potevamo
ancora immaginare che il colpo di stato del Vaticano II (che il cardinale
Suenens definì il 1789 della Chiesa) avesse conosciuto un rallentamento, in
questi ultimi anni anche i più ingenui tra noi hanno compreso che il silenzio,
per timore di suscitare uno scisma, il tentativo di aggiustare i documenti
papali in senso cattolico per rimediare alla loro voluta equivocità, gli
appelli e i dubia a Francesco rimasti eloquentemente senza
risposta, sono una conferma della situazione di gravissima apostasia cui sono
esposti i vertici della gerarchia, mentre il popolo cristiano e il clero si
sentono irrimediabilmente allontanati e considerati quasi con fastidio
dall’episcopato”.
Spesso
guardare in faccia le origini della malattia provoca sofferenza e pena; può
nascere anche un insidioso senso di fallimento. Non di meno, occorre farlo se
si vuole trovare la via della guarigione.
(Fonte:
Aldo Maria Valli, Duc in altum, 14 giugno 2020)
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