Con il Motu proprio Spiritus Domini papa Francesco ha modificato il primo paragrafo del canone 230 del Codice di diritto canonico, aprendo l’accesso alle donne ai ministeri di lettorato e accolitato, finora istituzionalmente riservati agli uomini. In realtà, a titolo di deroga, le donne sono arrivate massicciamente all’altare molti decenni fa.
Alcune
femministe cattoliche hanno deplorato il fatto come un sotterfugio per non
dover accettare le loro richieste di diaconato femminile, come Lucetta
Scaraffia, ex direttrice del supplemento mensile femminile dell’Osservatore
Romano, secondo la quale “nessuna donna può essere felice con questo motu
proprio, è una vera delusione”. Oppure Paola Cavallari, membro del
Coordinamento teologhe italiane, per la quale il motu proprio sembra
“una iniziativa ispirata al detto del Principe di Salina nel romanzo Il
Gattopardo: cambiare qualcosa perché tutto rimanga uguale”.
Altre
femministe cattoliche, al contrario, hanno visto nel documento “un piccolo
cambiamento, con grandi conseguenze ecclesiali”, come Silvia Martínez Cano,
professoressa alla Pontificia Università di Comillas, in un articolo sul
portale spagnolo Religión Digital: “Questo cambiamento è
importante, soprattutto per quello che non è detto nel motu proprio,
ma vi è implicito, perché riguarda il terzo comma del canone [n. 230]: che le
donne possano aiutare il ministro nelle sue funzioni, come ad es. esercitare il
ministero della parola, presiedere alcune liturgie, amministrare il battesimo e
la comunione senza che qualche fedele cambi fila per evitare di riceverla da
una donna”. Lo stesso entusiasmo troviamo da parte di Isabelle Roy, membro
delle Comunità di vita cristiana, legate ai gesuiti: “La decisione del papa
apre una breccia, pone una pietra miliare per altre possibilità. Negli
ospedali, ai funerali, insomma, dove non c’è sacerdote, già i laici commentano
il Vangelo. Perché non riconoscerlo in modo istituzionale?”.
Dal
canto suo, il teologo Andrea Grillo, professore di teologia sacramentale presso
l’Ateneo Pontificio Sant’Anselmo a Roma, ritiene “storica” la decisione papale.
Andando oltre la mera questione del diaconato femminile, messa a fuoco dalla
stampa, Grillo sottolinea che l’ultimo Concilio ha permesso di “ripensare
‘l’Ordine sacro’”, in modo che “la corresponsabilità dei ‘non chierici’ nella
vita della Chiesa appare ora chiaramente delineata” e “assunta con decisione”.
“Se la categoria di ‘chierico’ rimane legata, per ora integralmente, al sesso
maschile – non escludendo un ulteriore approfondimento sul diaconato – d’ora in
poi i corresponsabili non chierici sono concepiti senza differenza di genere” e
la Chiesa si mostra come “comunità sacerdotale”.
Il fatto
che Francesco abbia scelto la festa del Battesimo del Signore per firmare Spiritus
Domini e il motu proprio non può essere visto come
una semplice coincidenza. Da un lato, si legge nel documento, “si è giunti in
questi ultimi anni ad uno sviluppo dottrinale che ha messo in luce come
determinati ministeri istituiti dalla Chiesa hanno per fondamento la comune condizione
di battezzato e il sacerdozio regale ricevuto nel Sacramento del Battesimo;
essi sono essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il
Sacramento dell’Ordine”. Dall’altro lato il documento afferma: “Questi carismi,
chiamati ministeri in quanto sono pubblicamente riconosciuti e istituiti
dalla Chiesa, sono messi a disposizione della comunità e della sua missione in
forma stabile”.
“Nell’orizzonte
di rinnovamento tracciato dal Concilio Vaticano II, si sente sempre più
l’urgenza oggi di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella
Chiesa, e in particolar modo la missione del laicato”, spiega il sommo
pontefice nella lettera di accompagnamento a Spiritus Domini,
indirizzata al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Un’interpretazione
benigna di questo “sviluppo dottrinale” porterebbe a ripetere il commento del
cardinale Giovanni Colombo sulla Gaudium et spes: “Questo testo ha
tutte le parole giuste; sono gli accenti che sono sbagliati”. Infatti, si
omette che la struttura della Chiesa, in quanto società visibile, si basa
principalmente sul sacramento dell’Ordine, che trasmette la missione e il
potere di santificare, insegnare e governare dato da Gesù agli apostoli.
Un’interpretazione
più realistica di tale “sviluppo” porta alla conclusione che è stato compiuto
un passo significativo verso la totale eclissi del sacerdozio cattolico e del
carattere gerarchico della Chiesa, avvicinandolo ancora di più alla falsa
ecclesiologia protestante. Questo vero trasbordo dottrinale che rischia di
sbocciare nell’eresia ecclesiologica è iniziato diversi decenni fa e si basava
su una manipolazione semantica del concetto di “ministero”.
Prima
del Vaticano II, la Chiesa riservava questa parola esclusivamente al cosiddetto
“sacro ministero”, cioè a quella “funzione di istituzione divina mediante la
quale si coopera con il sacerdozio di Cristo nella mediazione tra il mondo e
Dio”, come spiega padre J. A. Fuentes nella rispettiva voce del Diccionario
General de Derecho Canónico. Ad esempio, nel Codice di diritto canonico del
1917, le parole “ministro” e “ministero” erano usate esclusivamente in
relazione ai sacramenti o alle sacre funzioni della liturgia.
È vero
che, nella sua origine latina, la parola “ministro” significa “servitore”, come
in Mt 20,28: “Filius hominis non venit ministrari sed ministrare et dare
anima suam redemptionem pro multis” (“il Figlio dell’uomo, non è venuto per
essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”). Ma
la Chiesa ha voluto riservarla al suo servizio fondamentale, la divina
liturgia, e a coloro che, ricevuto il sacramento dell’Ordine, salgono
all’altare e offrono il sacrificio eucaristico a Dio, oltre a “ministrare”
ordinariamente gli altri sacramenti ai fedeli.
Infatti,
Nostro Signore Gesù Cristo ha redento l’umanità attraverso un triplice
ministero – sacerdotale, dottrinale e pastorale – e, al fine di prolungare la
sua opera redentrice nel tempo, ha dotato la società soprannaturale e visibile
da Lui fondata – la Chiesa – di una gerarchia, alla quale ha trasmesso, nella
persona degli apostoli e dei loro successori, il suo triplice ministero e i
rispettivi poteri.
Quindi,
nella Chiesa, c’è una chiara distinzione tra i suoi membri, come spiegato dal
canone 207 dell’attuale Codice di diritto canonico: “§ l. Per istituzione
divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri, che nel diritto sono
chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici” (e nel
paragrafo seguente si spiega che i religiosi possono appartenere all’uno o
all’altro di questi due gruppi di fedeli).
Il noto
professore milanese Vincenzo del Giudice riassume così la differenza tra clero
e laici: “In essa [la Chiesa] ci sono i superiori gerarchici e i soggetti; c’è
un elemento attivo e uno passivo [riguardo all’amministrazione e alla ricezione
dei sacramenti], persone che governano (ecclesia dominans) e persone che
obbediscono (ecclesia obediens), persone che insegnano (ecclesia
docens) e altre che imparano (ecclesia discens). Insomma, c’è una
classe ‘eletta’ (clerus) che ha il compito di insegnare e governare
spiritualmente i fideles, e di amministrare i sacramenti, e d’altra
parte, la classe dei fideles, considerata indistintamente (cioè
entrambi i laici come quelli che appartengono al clero, cioè tutti coloro che
formano il ‘Popolo di Dio’), i quali vengono istruiti, governati e santificati
grazie all’attività sopra spiegata (c.107 e 948 e Lumen gentium, n.
2829)”.
Fu
contro questa struttura gerarchica dell’istituzione divina che si levò la
pseudo-riforma protestante, in nome del triplice slogan “sola fides, sola
Scriptura, sola gratia” e dell’affermazione che Cristo è l’unico sommo
sacerdote del Nuovo Testamento, per cui i frutti della Redenzione vengono
applicati direttamente al credente senza l’intermediazione della Chiesa e dei
suoi ministri.
La
confutazione dell’eresia protestante fu l’oggetto principale del Concilio di
Trento, che dichiarò solennemente: “Se qualcuno dirà che nel nuovo Testamento
non vi è un sacerdozio visibile ed esteriore, o che non vi è alcun potere di
consacrare e di offrire il vero corpo e sangue del Signore, di rimettere o di
ritenere i peccati, ma il solo ufficio e il nudo ministero di predicare il
vangelo, o che quelli che non predicano non sono sacerdoti, sia anatema”.
“Se
qualcuno dirà che oltre al sacerdozio non vi sono nella Chiesa cattolica altri
ordini, maggiori e minori, attraverso i quali, come per gradi si tenda al
sacerdozio, sia anatema.”
Qualche
secolo dopo, con il Concilio Vaticano II, secondo padre Tomás Rincón-Pérez, ci
sarebbe stata una “svolta ecclesiologica”: “Il passaggio da un’ecclesiologia a
predominanza gerarchica e stratificata, a un’ecclesiologia di comunione”, che
“non dà posto a una classe di cristiani distinti, di rango superiore”.
Questa capitis
diminutio della dignità del clero è stata accompagnata da
un’accentuazione del carattere “sacramentale” della Chiesa, come “icona” della
Santissima Trinità, a scapito della sua natura di società visibile e perfetta.
Lo squilibrio è stato ulteriormente accentuato dall’idea che la Chiesa è
soprattutto un’opera dello Spirito Santo, a scapito del fatto che fu fondata da
Gesù Cristo, che la dotò di una gerarchia con poteri. Questa nuova
ecclesiologia pneumatica insiste su due fatti: 1. che l’insieme dei doni dello
Spirito Santo si distribuisce nell’insieme del Corpo di Cristo e 2. che tali
carismi, in quanto non derivanti da un dono primordiale, sono complementari e
interdipendenti. “Questa prospettiva della diversità dei carismi”, commentano
il canonista belga Alphonse Borras e il teologo canadese Gilles Routhier, “ci
permette di uscire dalla accoppiata gerarchia-laici per privilegiare
l’accoppiata carismi-comunità”.
Fu nel
contesto di un’escalation di questa ecclesiologia non stratificata e di comunione
che il decreto conciliare Ad gentes, sull’attività missionaria
della Chiesa, usò per la prima volta la parola “ministero” in un documento
magisteriale per riferirsi indistintamente alle funzioni del clero e delle
attività di collaborazione dei laici nell’apostolato.
Nel
1972, con la promulgazione del motu proprio Ministeria
quaedam, sopprimendo gli ordini minori e sostituendoli con due nuovi
ministeri liturgici riservati agli uomini – lettorato e accolitato – Paolo VI
confermò questo abbandono dell’esclusività del termine “ministero” alle
funzioni dei chierici. “Nell’antica disciplina, commenta padre Rincón-Pérez,
questi ministeri erano riservati all’Ordo clericorum, tenendo presente
che il concetto di chierico era più ampio di quello di ministro sacro [infatti,
lo stato clericale iniziava con la tonsura, prima di qualsiasi ordinazione].
Restringendo il concetto di chierico – equivalente ora a ministro sacro
[quindi, dal diaconato] – e affidando questi ministeri [lettore e accolito] ai
laici, è ovvio che si produce una “declericalizzazione” di tali ministeri; ma
allo stesso tempo un’aggiunta del laico all’organizzazione ecclesiastica”.
Paolo VI
tornò sul tema nella costituzione apostolica Evangelii nuntiandi,
testo prediletto di Francesco, dedicando un’intera sezione ai “diversi
ministeri” dei laici”, in cui afferma che “la Chiesa riconosce il ruolo di
ministeri non ordinati ma adatti ad assicurare speciali servizi della Chiesa
stessa”.
Successivamente,
il nuovo Codice di diritto canonico ha dato una base giuridica a questo statu
quo postconciliare, sancendo il concetto di “ministeri istituiti”
(chiamati anche “ministeri laicali”) nel suo canone 230, che Papa Bergoglio ha
appena riformato per includere le donne.
Il
Sinodo dei vescovi del 1987, dedicato all’apostolato dei laici, culminò con
l’esortazione post-sinodale Christifideles laici. In essa papa
Giovanni Paolo II riconobbe che nell’assemblea “non sono mancati (…) giudizi
critici circa l’uso troppo indiscriminato del termine ‘ministero’, la
confusione e talvolta il livellamento tra il sacerdozio comune e il sacerdozio
ministeriale (…) e la tendenza alla ‘clericalizzazione’ dei fedeli laici e il
rischio di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a
quella fondata sul sacramento dell’Ordine”.
Dieci
anni dopo, di fronte al fiorire disordinato e abusivo di tutti i tipi di
“ministeri laicali”, la Santa Sede pubblicò una Istruzione su
alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei
sacerdoti, firmata dai cardinali responsabili di otto dicasteri romani.
Questa Istruzione ribadì l’insegnamento tradizionale che
“l’esercizio da parte del ministro ordinato del munus docendi,
sanctificandi et regendi costituisce la sostanza del ministero
pastorale” e che “non è il compito a costituire il ministero, bensì
l’ordinazione sacramentale”.
Questi
avvertimenti furono di scarsa utilità; solo due anni dopo la Conferenza
episcopale del Brasile pubblicò il documento Missione e ministeri dei
laici cristiani, approvato nella sua annuale assemblea generale. Dopo aver
diluito il sacro ministero in una lista crescente di ministeri “riconosciuti”,
“affidati”, “istituiti” e, infine, “ordinati”, aggiungeva che “il ministero
ordinato, in un’ecclesiologia di totalità e in una Chiesa tutta ministeriale,
non ha il monopolio della ministerialità” e che “il suo carisma specifico è
quello della presidenza della comunità e, quindi, dell’animazione, del
coordinamento e – con l’indispensabile partecipazione attiva e adulta
dell’intera comunità – del discernimento finale dei carismi”.
È
difficile immaginare una formula più riduttiva dell’autorità di un pastore
presso il gregge. Essa corrisponde al modello delle comunità di base della
Teologia della liberazione, in cui, secondo Leonardo Boff, il potere è una
“funzione della comunità e non di una persona”, e perciò rifiuta il monopolio
del potere “che implica l’espropriazione a beneficio di un’élite”, affermando,
al contrario, che “l’intera comunità è ministeriale, non solo alcuni suoi
membri”. In queste comunità di base, il sacerdote gode solo del “ministero
dell’unità”, cioè di “un carisma specifico per la funzione di essere principio
di unità tra tutti i carismi”.
Non
molto diverso è il linguaggio di papa Francesco nella sua lettera di
accompagnamento al motu proprio Spiritus Domini, indirizzata al
cardinal Ladaria. Secondo Bergoglio, in una migliore configurazione dei
ministeri laicali e nella riscoperta del “senso della comunione” che
caratterizza la Chiesa, “la feconda sinergia che nasce dalla reciproca ordinazione
di sacerdozio ordinato e sacerdozio battesimale può trovare una migliore
traduzione”. Una “reciprocità” che è chiamata a confluire nel servizio del
mondo e che “allarga gli orizzonti della missione ecclesiale, impedendole di
rinchiudersi in sterili logiche rivolte soprattutto a rivendicare spazi di
potere e aiutandole a sperimentarsi come comunità spirituale che ‘cammina
insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte
terrena’ (GS, n. 40)”.
Questa
nuova ecclesiologia comunitaria e antigerarchica è ciò che spiega, da un lato,
l’insistenza di papa Francesco sulla “sinodalità” e, dall’altro, i suoi
continui attacchi a ciò che chiama “clericalismo” del clero formato secondo la
dottrina tradizionale, che altro non è che consapevolezza della propria dignità
e superiorità ontologica nei confronti dei laici, per la conformità a Cristo
sacerdote e per l’inserimento nella gerarchia della Chiesa.
L’apertura
alle donne dei ministeri istituiti di lettore e accolito, codificati da Spiritus
Domini, non è solo una risposta “alle sfide di ogni epoca, in
obbedienza alla Rivelazione”, come intende Francesco nella sua lettera al
cardinale Ladaria, ma implica un vero e proprio “superamento della dottrina
precedente”, cioè una rottura con essa. Anche se lo negherà.
(Fonte: José Antonio Ureta, Duc in altum, 21 gennaio 2021)
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