Tra Enzo Bianchi da una parte e il suo successore a Bose e il Papa dall'altra, si è aperto un contenzioso senza esclusione di colpi. Ma a lasciare sconcertati è che nulla si sappia dei fatti all'origine del provvedimento vaticano. Come è già accaduto in tante altre occasioni durante questo pontificato.
La dura battaglia che oppone il fondatore della Comunità di Bose Enzo Bianchi al suo successore Luciano Manicardi è l’ennesima dimostrazione della distanza che esiste in questo pontificato tra la retorica della trasparenza e della giustizia e la realtà fatta di opacità e arbitrio. Così Enzo Bianchi è l’ennesimo caso di personaggio che passa dalle stelle alle stalle, dalla manica di papa Francesco al pubblico ludibrio, in un batter d’occhio e senza che venga mai spiegato il perché.
La
vicenda è nota: dopo le dimissioni da priore della comunità di Bose (diocesi di Biella) e la elezione
del successore Luciano Manicardi nel gennaio 2017, sono ben presto circolate
voci sulle difficoltà di rapporti tra vecchio e nuovo corso nella singolare
comunità monastica, che rappresenta un esperimento ecumenico ed è composta sia
da uomini che da donne. Il conflitto è venuto allo scoperto con la visita
apostolica inviata dalla Santa Sede nel dicembre 2019 e poi con il decreto del
13 maggio 2020 con cui il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin – con
approvazione del Papa -, intimava a Enzo Bianchi di allontanarsi
definitivamente da Bose.
Successivamente identificata in una casa in Toscana di proprietà della comunità
di Bose la destinazione di Bianchi, la situazione è però rimasta in stallo e
Enzo Bianchi non si è mai mosso dall’eremo nel terreno della comunità di Bose
dove già risiedeva.
La
situazione è poi esplosa nei giorni scorsi quando prima il Papa è
intervenuto direttamente nella vicenda confermando, alla vigilia della
partenza per l’Iraq, il decreto del maggio 2020. E poi con il comunicato di
Enzo Bianchi del 5 marzo in cui racconta la sua verità accusando il suo
successore di non aver rispettato gli accordi raggiunti con la segreteria di
Stato vaticana riguardo alle condizioni del suo trasferimento; e in pratica di
volerlo buttare in mezzo alla strada impedendogli anche la vita monastica
lontano da Bose.
I
toni, da una parte e dall’altra sono molto duri, e costituiscono certamente
un ottimo spunto di riflessione sul significato della fraternità (altro
concetto tanto predicato a parole quanto disatteso nei fatti), ma non è
principalmente questo il motivo per cui ci interessiamo alla “guerra di Bose”.
È anche noto che siamo stati sempre molto critici verso questa esperienza
monastica e in particolare nei confronti di Enzo Bianchi che tanti danni, con
la sua predicazione eterodossa e il suo potere mediatico, ha provocato nella
Chiesa italiana e non solo. Non è quindi la simpatia nei suoi confronti o nei
confronti dell’esperienza di Bose che ci muove ad interesse.
Quello
che invece ci colpisce è la rapidità con cui è passato da favorito del Papa a reprobo.
Ricordiamo le tante occasioni in cui è stato ricevuto da papa Francesco, i cui
gesti pubblici sottolineavano la grande stima per Enzo Bianchi. Nominato
consultore del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani già nel 2014,
fino almeno al giugno 2017 è stato indicato come possibile nuovo cardinale ad
ogni avvicinarsi di Concistoro; poi, ancora nel 2018 è stato nominato dal Papa
uditore dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi sui giovani. Quindi
l’improvvisa caduta in disgrazia e l’invio della visita apostolica con tutto
quel che ne segue.
Che
tutto sia riconducibile al dissidio circa l’esercizio dell’autorità nella comunità di Bose – come
dicono i comunicati ufficiali – è francamente poco credibile. La durezza delle
sanzioni contro colui che è il fondatore della comunità si possono spiegare
soltanto con accuse molto gravi. La mancanza di trasparenza legittima ovviamente
qualsiasi tipo di speculazione sulle vere ragioni, cosa che non è giusta nei
confronti né della comunità cristiana, che ne è scandalizzata, né di Enzo
Bianchi, che non ha la possibilità di difendersi. Se cose gravi sono state
commesse è giusto che si apra un processo canonico, come tante volte è stato
detto a parole.
Ha
giustamente notato il vaticanista Sandro
Magister, che
a inquietare è il ricorso al “decreto singolare” approvato dal Papa “in forma
specifica”, ovvero uno strumento canonico per comminare una pena in modo
definitivo e inappellabile. Strumento che con questo pontificato sta diventando
una consuetudine, aprendo a una forma di esercizio arbitrario del potere.
Del
resto le carriere fulminanti e le altrettanto rapide cadute in disgrazia, tipiche delle rivoluzioni e dei
regimi, sono una caratteristica consolidata anche di questo pontificato. I casi
dei cardinali Theodore McCarrick e Angelo Becciu sono i più clamorosi: puniti
pubblicamente senza che si sia mai arrivati a una verità stabilita davanti a
una regolare corte o commissione. In questo modo però rimangono nell’oscurità
il sistema e le reti di complicità che hanno portato i singoli ad essere
protagonisti di abusi sessuali o di episodi di corruzione.
Un
uso così personalistico e arbitrario della giustizia fa nascere il sospetto che si
voglia sacrificare una persona – garantendosi così anche gli applausi del
popolo a cui è consegnato il colpevole – per salvare il sistema e continuare ad
andare avanti come solito. Se si vuole essere davvero credibili nella lotta
agli abusi e alla corruzione, ci vuole ben altra trasparenza. Cominciare con
Bose non sarebbe male.
(Fonte:
Riccardo Cascioli, LNBQ, 10 marzo 2021)
https://lanuovabq.it/it/il-caso-bose-rivela-lambiguita-di-roma
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