martedì 9 ottobre 2007

L’immoralità del clero, un dato di fatto. Che fare?


Forse i cosiddetti "laici" - quelli che un tempo si chiamavano meno prosaicamente "senza Dio" o "mangiapreti" - sono così alieni al mondo cattolico da aver subodorato solo oggi il ghiotto boccone dell'immoralità dei chierici. Forse i cattolici praticanti, per quell'innato senso di protezione che in epoche meno corrotte assicurava comprensione verso i Ministri sacri, non vogliono o non osano vedere la realtà. Ma il reverendo Clero - dal coadiutore della più remota pieve al porporato della Curia Romana - non ignora assolutamente né la gravità, né l'estensione del fenomeno, che fa strame della morale al pari di quanto l'esasperato progressismo degli ultimi quarant'anni ha fatto scempio dell'ortodossia cattolica. Quello che è francamente incomprensibile e disarmante è il progressivo abbassamento della guardia, proporzionale all'incancrenirsi della piaga.

In altre epoche - bollate come viete e "post-tridentine" da sedicenti teologi e intellettuali di oggi - la fermezza della Chiesa tanto verso l'immoralità quanto verso la deviazione dottrinale consentiva di evitare al massimo il fenomeno, tenendo lontani dal santuario i chierici indegni.
Una ferrea selezione nei Seminari - ripetiamo: tanto in questioni "de fide" quanto "de moribus" - portava agli Ordini Sacri candidati di solida formazione e di buona spiritualità. Il Vescovo, prima di conferire gli Ordini, chiedeva all'Arciprete se gli ordinandi fossero degni di riceverli, ed egli rispondeva: «Quantum humana fragilitas nosse sinit, et scio et testificor illos dignos esse» («Per quanto l'umana fragilità permette di sapere, so e testimonio che sono degni»).

Dal postconcilio i Seminari hanno rinunciato alla disciplina, così come nei Conventi si è abdicato allo spirito di mortificazione e di sacrificio, per trasformare il Clero secolare e regolare in una sorta di categoria sindacale amorfa, proiettata verso un solidarismo orizzontale e filantropico, ed avversa ad ogni vestigio di vita ecclesiastica, primo tra tutti l'abito talare. Poca preghiera, scarsissima vita interiore, nessuna penitenza: cose medievali - dicevano - finalmente spazzate via dallo spirito dei tempi e dalla nuova primavera conciliare. E, come contraltare, il cellulare con fotocamera, il televisore sempre acceso, il computer, internet, gli abiti firmati, gli occhiali da sole, le uscite a qualsiasi ora, le vacanze in luoghi lontani dal controllo del Vescovo. E il venerdì, in aperta opposizione al magro preconciliare, carne e salumi.

Nell'assenza della disciplina (dal latino "discere", che significa "imparare") e del rigore - indispensabile presidio del raccoglimento interiore e dello spirito di mortificazione richiesto a chi vuole rinnegare se stesso per seguire Cristo - è inevitabile che si radichino e crescano rigogliosi i vizi e i difetti che dilagano nella società profana. Senza dire che tutto questo voler considerare il sacerdote come "uno di noi", senza alcun rispetto reverenziale per il suo ruolo, ha allentato sensibilmente quella barriera psicologica che se non altro aiutava il chierico nella vita quotidiana a contatto con i fedeli.

Rattrista e scandalizza che oggi i pochi seminaristi che vorrebbero vivere con serietà gli studi e la formazione al Sacerdozio nella fedeltà al Magistero, magari addirittura vestendo la talare o pregando in latino, siano additati come squilibrati, vengano derisi dai loro confratelli e dai Superiori e siano infine costretti ad abbandonare la vocazione. Contro costoro l'ira dei Presuli è implacabile; ma per quanti nei corridoi del Seminario o del Monastero si apostrofano con nomignoli femminili l'indulgenza è viceversa garantita, nonostante le direttive della Suprema Autorità. Non ci si stupisca allora se le vocazioni sono in calo impressionante: se profanità dev'essere, che sia almeno vissuta senza i fastidiosi impegni dello stato clericale. La televisione e internet ci sono anche a casa propria, così come non serve entrare in Seminario per vestirsi di Dolce & Gabbana e Prada. Indicativamente, gli Istituti e le Comunità religiose di stretta osservanza traboccano di giovani desiderosi di vivere con slancio e con totalità la loro consacrazione a Dio. E si capisce: in quest'epoca senza nerbo, i ragazzi di trovano una motivazione ed uno sprone alla sequela di Cristo nelle grandi prove, nelle sfide impegnative, nel raccoglimento.

Lo stato morale del nostro Clero è specchio di un diverso modo di concepire il sacerdozio. Se il prete è "alter Christus" e come tale vive e si mostra al mondo, con quella veste nera che simbolizza l'assoluta estraneità al secolo; se egli è colui che offre con devozione e rispetto il divin Sacrificio e che Dio ha voluto come dispensatore della Sua grazia attraverso i Sacramenti; se l'unzione ch'egli ha ricevuto gli ricorda che non è più lui a vivere, ma Cristo stesso che vive in lui; se il mondo vede il sacerdote come una persona sacra, anche le occasioni di peccato sono in qualche modo limitate. E non dimentichiamo che le tentazioni ci sono sempre e per tutti, ma che le occasioni prossime siamo quasi sempre noi che ce le andiamo a cercare. Ed anche la sua predicazione sarà più incisiva, perché da lui ci si aspetta di ricevere quegli insegnamenti che il Signore ha affidato alla Chiesa perché li trasmettesse fedelmente. E da quella predicazione scaturiscono anche comportamenti e stili di vita conseguenti: più amore per Cristo, più preghiera, più grazia, più moralità, più presenza di Dio nella società.

Se viceversa il sacerdote è considerato come un semplice rappresentante della comunità, nella quale ogni fedele - secondo la vulgata postconciliare - è sacerdote, re e profeta in virtù del Battesimo; se nella Messa egli si limita a presiedere stancamente un'assemblea annoiata; se si comporta e si veste come un laico - ammesso che i laici sappiano vestirsi con la trasandatezza di alcuni preti - ed il suo ruolo sacro di pastore e guida viene meno; se amministra i Sacramenti senza alcun rispetto e confessa i fedeli facendoli sedere accanto come per una simpatica chiacchierata, anziché far loro comprendere che nel Sacramento della Confessione il sacerdote è giudice che assolve ed imparte la penitenza in nome di Dio, e che al cospetto di Dio ci si inginocchia; se qualsiasi colpa gli si confessi egli la sminuisce ed attenua nel fedele il senso della responsabilità morale delle proprie azioni; se non lo si vede mai in chiesa a pregare davanti al tabernacolo ma si è certi di trovarlo a far fotocopie della «Lumen gentium» nell'ufficio parrocchiale, allora è inevitabile che lo si tratti come un laico qualsiasi, senza rispetto, ed anzi con quella pericolosa confidenza e famigliarità che tanto facilmente conduce alle colpe "de sexto". E la sua predicazione - anzi, le sue "omelie", come va di moda oggi - si limiterà a riportare quei miserrimi discorsi di circostanza, senz'anima e senza convinzione, che ha leggiucchiato su qualche testo progressista: non più verità eterne, non più semplici e chiari principi di morale e di fede da seguire nella vita quotidiana, ma banalità. Ed essendosi esautorato da sé, quel sacerdote non potrà pretendere dai suoi fedeli - dai quali tanto tiene a farsi dare del tu - che lo ascoltino e mettano in pratica quel che dice. Anzi: essendo egli per primo un esempio di mediocrità, non ispirerà certo slanci eroici nel suo gregge, che compatirà le sue miserie per legittimare le proprie. E da quella predicazione scaturiscono anche comportamenti e stili di vita conseguenti: meno amore per Cristo, che pare non interessare nemmeno quel sacerdote; meno preghiera, meno grazia, meno moralità, minor presenza di Dio nella società.

Qual è il rimedio? Il ritorno a Cristo, e a Cristo crocifisso. Disciplina, rispetto dell'autorità e rigore nella formazione del Clero e dei Religiosi, sapendo anteporre la qualità delle vocazioni al loro numero. Preghiera, e preghiera vera: non piagnistei, ma recita assidua del Breviario, ritorno all'adorazione silenziosa del Santissimo Sacramento, meditazione mattutina prima di ogni altra incombenza. Ritorno al latino, che è lingua sacra e che fa assaporare in modo ineffabile i tesori della più alta spiritualità, senza gli equivoci e i travisamenti che la lingua volgare induce. Ritorno alla disciplina anche nella liturgia e nel canto: si ripristini il gregoriano e si aboliscano d'autorità quegli odiosi miagolii che vanno di moda oggi. Si renda obbligatoria la veste talare per i chierici, e l'abito religioso per i frati, i monaci e le suore. Si ripristini, almeno per i chierici, il sacro digiuno nei venerdì di Quaresima e l'astinenza dalle carni nei venerdì dell'anno. Si favorisca la vita interiore e il raccoglimento vietando la frequentazione di locali e di spettacoli pubblici; si proibisca l'uso del computer, di internet e della webcam nell'abitazione dei chierici, limitando l'uso di questi strumenti alle sale di studio, con moderazione e sotto il vigile controllo dei Superiori; si spenga definitivamente quel maledetto tabernacolo di Satana che è il televisore.

Ancor più disciplina - ferrea e implacabile, in questo caso - si dovrebbe adottare verso i sacerdoti che esercitano il proprio Ministero: chi non è degno dell'unzione che ha ricevuto dev'essere cacciato senza esitazione, perché un ministro che vive nello stato di peccato mortale abituale e nel sacrilegio permanente è una maledizione non solo per sé, ma anche per il popolo che gli è affidato, per la Chiesa ed anche per chi cattolico non è e - a causa di quel prete - potrebbe non diventare mai. E diciamo cacciato, non trasferito: qui legit intelligat. Sono troppi i casi di scandali messi a tacere non punendo il colpevole, ma trasferendolo ad altro e talvolta anche più prestigioso incarico. L'assurdo adagio Promoveatur ut amoveatur dovrebbe essere bandito definitivamente dalla Chiesa, perché se si è inadatti a ricoprire un ruolo di responsabilità, ancor meno lo si potrà essere se la responsabilità aumenta. Tanto più che da un livello più alto il danno che si arreca è certamente maggiore. Desta stupore che l'antichissimo rito pontificale della Degradazione dagli Ordini - cerimonia pubblica in cui si degradava il chierico colpevole di gravi colpe - sia stato soppresso proprio quando il ricorso ad esso si sarebbe rivelato più opportuno.

I Vescovi tornino finalmente alla Sacra Visita Pastorale secondo le norme antiche: controllino che nella propria Diocesi tutti gli ecclesiastici seguano le prescrizioni canoniche, che le chiese siano tenute convenientemente, che i riti siano celebrati degnamente, che la predicazione e il catechismo siano efficaci. E si chieda collaborazione ai fedeli perché denuncino senza esitazione qualsiasi situazione anomala, con la fiducia che i Pastori sapranno temperare equamente la Giustizia e la Misericordia. D'altra parte, «Nonne et ethnici hoc faciunt?» (Mt. V, 48), non lo fanno anche i pagani? Chi non licenzierebbe un medico che diffonde il contagio tra i suoi pazienti o un insegnante che insegna cose sbagliate ai suoi allievi? Non lo si dovrà fare con chi attenta al bene supremo, che è la salvezza eterna?

E non si invochi la comprensione dei Pastori su chi trascina nel fango la Sposa di Cristo: in un mondo secolarizzato e anticattolico, offrire ai nemici di Dio, su un vassoio d'argento, gli scandali più abominevoli è doppiamente colpevole. E in questo la Chiesa non può - e non deve - esser tollerante, perché si presterebbe al gioco di chi la vuole colpire a morte. Per la tolleranza, specialmente per certi squallidi personaggi, ci sono delle case apposite. (elaborato da “Su un piatto d’argento”, Pietro Siffi, Cadl,sabato 06 ottobre 2007)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

da quando in qua è un male fotocopiare la Lumen Gentium???

Anonimo ha detto...

"Fotocopiare" superficialmente si... attuarne e viverne l'autentico profondo messaggio, no!