Ci chiediamo se il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI possa costituire, e in che senso, una risposta al processo di secolarizzazione della società contemporanea. Per rispondere abbiamo bisogno innanzitutto di una definizione della secolarizzazione e, tra le tante, una delle migliori è stata formulata in un discorso del 23 febbraio 2002, da Giovanni Paolo II, secondo cui "purtroppo alla metà dello scorso millennio ha avuto inizio, e dal Settecento in poi si è particolarmente sviluppato, un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il Cristianesimo da tutte le espressioni della vita umana. Il punto d'arrivo di tale processo è stato spesso il laicismo e il secolarismo agnostico e ateo, cioè l'esclusione assoluta e totale di Dio e della legge morale naturale da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata così la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno". Da queste parole di Giovanni Paolo II emerge in primo luogo che la secolarizzazione è un processo storico che ha inizio con l'umanesimo rinascimentale: si è sviluppato con l'illuminismo, e ha il suo sbocco nel laicismo e nel secolarismo agnostico e ateo, caratteristico del marxismo e della società postmoderna. Il punto di arrivo finale è l'esclusione di Dio e del cristianesimo dalla sfera pubblica e la riduzione della religione a fenomeno puramente individuale.
C'è chi crede che per evitare il secolarismo anticristiano, la Chiesa dovrebbe far propria e "battezzare" la secolarizzazione. Questa concezione accetta l'inevitabilità della secolarizzazione attribuendole, di fatto, un carattere positivo in quanto svolgimento necessario della storia. Se, però, rifiutiamo questa visione immanente e storicista e assumiamo invece un criterio che ci permetta di valutare gli eventi alla luce di principi trascendenti, non possiamo considerare in sé "positivo" o "buono" nessun fatto storico. Come gli atti umani, i fatti storici, che sono prodotti dalle scelte razionali e libere dell'uomo, non sono mai neutri e indifferenti: lo storico, e a maggior ragione il filosofo e il teologo della storia, ha il dovere di giudicarli, ovvero di attribuire loro valore positivo o negativo.
L'accettazione della secolarizzazione come fatto storico inevitabile, porta a una filosofia e poi a una teologia della secolarizzazione. La filosofia della secolarizzazione, implicita nell'umanesimo pagano, si forma nei circoli illuministi; viene portata alla sua coerenza logica da Gramsci e penetra nella seconda metà del ventesimo secolo nella teologia protestante (e poi cattolica) con Dietrich Bonhoeffer. Quella che Bonhoeffer definisce la "maturità del mondo" si raggiunge con l'espulsione del sacro da ogni ambito sociale e con l'estirpazione delle radici cristiane dalla società. Bonhoeffer interpreta la secolarizzazione come l'espressione di un "mondo diventato adulto", il quale, grazie all'evento liberatorio cristiano, può vivere "come se Dio non esistesse", etsi Deus non daretur.
L'illusione è quella di realizzare un ordine "mondano", al di fuori del cristianesimo, eliminando il legame verticale e trascendente che costituisce l'essenza stessa della religione perché ri-lega l'uomo a Dio.
Aristotele ha definito giustamente l'uomo un essere sociale. Ma Aristotele, che non aveva l'idea di creazione, ha ridotto la socialità degli uomini al loro rapporto con i propri simili. La prima relazione dell'uomo, ciò che fa di lui un essere non immanente e autosufficiente, ma estroflesso e dipendente, è la sua relazione con Dio. Essa si esprime innanzitutto nella preghiera, che fa dell'uomo, non solo un animale sociale ma, per essenza, un homo religiosus. Ma poiché Dio si è fatto uomo egli stesso e per salvare l'umanità colpita dal peccato originale, ha fondato, attorno al sacrificio di Cristo, la Chiesa, la preghiera per eccellenza dell'uomo, l'unica che lo redime, è quella che egli fa con la Chiesa, all'interno della Chiesa. La liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa, l'atto di culto non privato, del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati, riuniti attorno al santo sacrificio dell'altare. La liturgia che vi si celebra non è solo la trasmissione della parola di Dio all'uomo, e la sua santificazione attraverso i sacramenti; essa è anche e innanzitutto un insieme di forme sensibili che elevano l'uomo verso Dio e lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto.
Non è nulla di più antitetico alla secolarizzazione della liturgia espressa dal sacrificio della messa. In esso trovano compimento i misteri della passione, risurrezione e ascensione di Gesù Cristo, perfezione della sacralità, perché nella sua persona Dio si dà massimamente a una natura umana, unita inscindibilmente a Lui. Il punto più sacro della messa è la formula consacratoria, composta, come ricorda il concilio di Trento, in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli e in parte da ciò che è stato piamente stabilito dai santi Pontefici.
"La celebrazione liturgica - ha ricordato Giovanni Paolo II nella Lettera alla Congregazione per il Culto Divino del 21 settembre 2001 - è un atto della virtù di religione che, coerentemente con la sua natura, deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l'uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a Colui che è tre volte santo e trascendente. Di conseguenza l'atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali davanti al rovo ardente?".
Questo stupore e questa riverenza si esprime soprattutto nel linguaggio del silenzio. Il silenzio, a cui ha dedicato belle pagine il cardinale Ratzinger (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2007, pp. 203-212) si oppone al frastuono ed esprime la distanza infinita tra il Dio ineffabile, che non può essere conosciuto nella sua essenza, e l'umile creatura che, senza di lui, ricadrebbe nel nulla. Ma questo Dio, adorato nella sua maestà divina, non è lontano, è anzi infinitamente vicino, perché si è donato in Cristo, è presente sull'altare in corpo, sangue, anima e divinità. Solo nella assoluta trascendenza divina si esprime la radicale ed estrema vicinanza di Dio all'uomo.
Il rito romano antico non permette equivoci di alcuna sorta: in esso vi è un senso ineguagliabile della trascendenza divina. Esso non è l'unico rito possibile, ma esprime con perfetta chiarezza quell'unica ecclesiologia che può dirsi cattolica e che ogni liturgia deve esprimere.
La dimensione rituale è una dimensione costitutiva della nascita e dello sviluppo della società europea e cristiana dei primi secoli. La parola traditio, nel suo senso originale, si riferisce alla trasmissione dei symbola fidei, ovvero di quelle formule verbali, confermate dall'autorità ecclesiastica, destinate alla pubblica professione della fede. La traditio si esprime nella consegna di verità destinate a formare il depositum fidei, ma è anche ricerca dei modi in cui queste verità vengono trasmesse, ricerca dei simboli e dei riti che queste verità efficacemente esprimono. Ogni verità infatti si traduce in una liturgia, secondo la nota formula di Prospero di Aquitania, lex orandi, lex credendi (oppure legem credendi lex statuat supplicandi; De vocatione omnium gentium, 1, 12).
La descrizione della Eucaristia della domenica lasciataci da san Giustino (Giustino, Apologia, 61-62; 65-67) ci attesta, già prima dell'anno 165, la prassi rituale della Chiesa romana, "nella quale - come scriveva sant'Ireneo - si custodiva fedelmente la tradizione venuta dagli apostoli" (Adversus haereses, II, 3). In questo senso l'Europa nasce anche attorno a una tradizione liturgica. Christopher Dawson osserva, non a torto, che, dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'ordine sacro della liturgia rimase intatto nel caos e la liturgia costituì il principale legame di unità interiore della società.
La liturgia fu, nel medesimo tempo, la sede della tradizione e la sede della fede, perché in essa tradizione e fede si incontravano e si conciliavano. A Papa Damaso, eletto vescovo di Roma nel 366, si deve la prima esposizione del concetto di Petrinitas, come principio di ordine gerarchico ecclesiastico. Ma l'affermazione del primato romano, sotto Damaso e i suoi successori, corre si può dire parallela alla affermazione dell'ordo liturgico romano, la cui definitiva configurazione avviene tra il IV e il VI secolo, culminando nella creazione del Liber Sacramentorum di Gregorio Magno. La liturgia damaseno-gregoriana - come ricorda monsignor Klaus Gamber - si andò imponendo progressivamente in occidente, ed è quella che oggi Benedetto XVI ripropone alla Chiesa.
Questa liturgia gregoriana, espressa dal rito romano antico ci ricorda, attraverso il suo silenzio, le sue genuflessioni, la sua riverenza, l'infinita distanza che separa il cielo dalla terra; ci ricorda che il nostro orizzonte non è quello terreno, ma quello celeste; ci ricorda che nulla è possibile senza sacrificio e che il dono della vita naturale e soprannaturale è un mistero.
Non si tratta di mettere in competizione il rito antico con la nuova messa, promulgata e autorizzata dagli ultimi Pontefici. Si tratta di comprendere come la restituzione della libertà al rito antico opponga una nuova barriera al secolarismo avanzante.
Questo rito aprì e chiuse tutti i ventuno concili ecumenici della Chiesa, da Nicea al Vaticano II. Fu celebrato sotto le volte grandiose di San Pietro e nelle più umili e remote cappelle agli estremi confini della terra, ovunque arrivò lo zelo dei missionari. Fu al centro del culto di tutti gli ordini religiosi fondati nella storia; lo splendore di Cluny e la rinascita liturgica di dom Guéranger, l'avvolsero di maestà e di splendore. I martiri della fede del ventesimo secolo, vi attinsero la forza per resistere ai loro carnefici. Il rito romano costituisce oggi, nelle intenzioni di Benedetto XVI, un'efficace risposta alla sfida della secolarizzazione. (Roberto de Mattei, ©L'Osservatore Romano, 17 settembre 2008)
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