giovedì 1 aprile 2010

La storia del prete Lawrence Murphy l'abbiamo già vista al cinema

La storia raccontata con estrema malevolenza dal New York Times del reverendo Lawrence Murphy, e degli atti di pedofilia commessi tra il 1950 e il 1974 alla St. John’s School, istituto cattolico del Wisconsin, a pensarci bene l’abbiamo già vista. Anche la faccia del sacerdote, pubblicata dal giornale incorniciata da tre “Most wanted” e dal nome, ha una certa familiarità. La ricordiamo in un film del 2008, candidato a cinque premi Oscar, “Il dubbio”, del regista americano John Patrick Shanley. Il film era un ritratto sin troppo schietto di come la Chiesa cattolica venga oggi rappresentata e considerata.
“Il dubbio” sposta la storia lontana nel tempo. Siamo nel 1964, nel Bronx, in una scuola cattolica (quindi anni e luogo sono gli stessi in cui il reverendo Murphy ha compiuto i suoi crimini), retta da una preside di ferro, sorella Aloysius Beauvier (Meryl Streep). La suora è la quintessenza della Chiesa pre-conciliare; una figura tragica, severa, ascetica, segnata da rigorismo quasi protestante, ostile alla modernità e ad ogni apertura verso lo spirito nuovo che sta soffiando ovunque. Il vento della novità si incarna nel volto di padre Brendan Flynn (Philip Seymour Hoffman), entusiasta del rinnovamento conciliare in atto. Quindi abbiamo due modelli di Chiesa. Da una parte la suora rigida, chiusa nel proprio mondo, contraria all’uso della penna biro perché, come dice, «gli studenti quando premono scrivono come scimmie», devota all’immagine di Pio XII (per gli americani una figura negativa, antisemita e intransigente conservatore); dall’altra un prete in sintonia con i segni dei tempi nuovi, riassunti nell’entusiasmante “The Secular City” del teologo Harvey Cox, uscito negli Stati Uniti nel 1965, manifesto della teologia radicale americana, divenuta moda così diffusa da finire addirittura sulle pagine di Playboy. Sorella Aloysius prende il tè senza zucchero; padre Brendan invece mette tre zollette nella tazzina. Sulla tavola di sorella Aloysius si mangia con moderazione, nel silenzio con le consorelle, e si beve latte. Nel desco dei preti c’è carne in abbondanza, si beve vino, si fuma e si ride di gusto, lasciandosi andare a commenti più da osteria che da canonica.
Quarantacinque anni ci dividono da questa storia. Il tempo necessario ad uno sbadiglio per la Storia; un’eternità per i contemporanei. Per farli diventare odierni e attuali, basta aggiungerci un “dubbio”. Quale? La pedofilia. Negli anni Sessanta era un problema lontano: esisteva ma non usciva allo scoperto. Oggi è diventata una piaga per la Chiesa cattolica americana (dove il fenomeno si è manifestato nella sua devastante forza), avendola trascinata nel disprezzo pubblico e affaticata per i risarcimenti colossali versati alle vittime. Ora lo è per la Chiesa universale. Il dubbio come ogni film “storico” ha un “doppio passato”: il “passato storico” riassumibile nella resistenza alle penne biro in nome delle stilografiche (l’epoca del film); e il “passato attuale”, destinato a diventare col tempo traccia di una determinata mentalità diffusa o di una specifica ideologia (del 2008), documento nel quale si riassume la questione degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti cattolici americani. Ci vuole poco allo spettatore per dimenticare la lentezza dell’epoca ormai irrimediabilmente lontana, e mettersi invece in sintonia con la “contemporaneità” del film. Il dubbio non è più allora una storia degli anni Sessanta, ma una storia di oggi. Attuale più di un programma televisivo di informazione. È la storia di padre Lawrence Murphy buttata in pasto ai lettori di tutto il mondo dal New York Times.
Nel film sorella Aloysius sospetta che padre Brendan abbia “pericolose attenzioni” per Donald Miller, primo ragazzo nero accolto nella istituzione scolastica, chierichetto intenzionato da grande a prendere i voti. Alla religiosa quel prete così moderno non è mai piaciuto. Il loro mondo è troppo diverso, pur se vivono nello stesso tetto e sono membri della stessa Chiesa. Sorella Aloysius in ogni attività è determinata. Un carro armato. Inizia così a braccare il sacerdote. Raccoglie informazioni, ragiona, scruta attentamente i comportamenti di padre Brendan, lo interroga, lo incalza, lo mette ripetutamente in difficoltà, sino alla resa finale. Il sacerdote si dimette. Andrà via. Ma non verrà trascinato in tribunale, né gli verrà chiesto conto sino in fondo del riprovevole crimine. Anzi, il vescovo lo promuove, assegnandogli una nuova parrocchia e addirittura la responsabilità di una scuola. Potrà continuare così a commettere gli stessi abusi da un’altra parte, purché lontano dalla dimora dove regna sorella Aloysius.
Ma c’è un dubbio. Padre Brendan è veramente colpevole? Certo che lo è. Almeno così sembra. Alla fine però tutto si capovolge: la prova che aveva inchiodato il sacerdote, una telefonata di sorella Aloysius alla suora di una parrocchia dove padre Brendan era stato, e dove aveva avuto gli stessi problemi, non è mai stata effettuata. Sorella Aloysius se l’è inventata. Quella bugia è servita però per mettere con le spalle al muro padre Brendan.
Ricapitoliamo. Padre Brendan è un pedofilo; sorella Aloysius un’eroina determinata a salvare la moralità della Chiesa. Poi tutto si rovescia. Padre Brendan non è un pedofilo, sorella Aloysius una spregevole bugiarda. Ma perché padre Brendan ha ceduto? Se non era responsabile perché accettare l’umiliante sconfitta? Nel film viene mostrato insistentemente il potere del clero maschile. Anche sorella Aloysius sa bene come vanno le cose: sono i preti a comandare. Lo stesso padre Brendan ricorda alla suora l’obbedienza ai superiori (maschi) e l’accusa di scorrettezza per essersi rivolta, nel prendere informazioni su di lui nella precedente parrocchia dove è stato, non al parroco, come da prassi, ma ad una suora. Nel film rimane il “dubbio”, anche se quello che vediamo e sentiamo dimostra il contrario, soprattutto se ascoltiamo attentamente le parole della madre del piccolo Donald – vera e propria chiave di svolta del film – interrogata dalla suora. La madre rivela che il ragazzo ha “pericolosi atteggiamenti”, ed è stato mandato alla scuola cattolica per salvarlo, innanzitutto dal padre, che potrebbe persino uccidere un figlio “diverso”. Insomma, nessuno si salva nel film. La Chiesa pre-conciliare è un disastro; quella post-conciliare non gli è da meno. E la pedofilia dei sacerdoti è un dato certo, ben conosciuto all’interno dalla Chiesa, ma ritenuto un fatto di scarso rilievo.
Il film piacque molto a Lucetta Scaraffia, tanto da scriverne una favorevole recensione sull’Osservatore Romano (6 febbraio 2009), definendolo una «riflessione attenta e profonda sul tema del sospetto». Le piacque probabilmente poiché convinta, come ha scritto sullo stesso giornale vaticano l’11 marzo scorso, che una maggiore partecipazione delle donne alla via della Chiesa possa rivelarsi un salutare antitoto alla pedofilia. Ciò che gli sfuggiva era la malevola rappresentazione della Chiesa in fatto di pedofilia, oggi diventata di dominio pubblico attraverso la tambureggiante, ossessiva offensiva mediatica, indirizzata a minare la credibilità di Benedetto XVI. Giovanni Paolo II il 15 settembre del 1987 si recò a Hollywood. Lì tenne un discorso molto lungo e articolato sull’importanza del cinema. Rileggendo quel testo si nota la fiducia del Pontefice, l’interesse per la materia, la speranza di seminare la buona novella. Non poteva certo sapere che proprio da Hollywood sarebbe arrivata, nel ventennio successivo, un’insidiosa e incessante opera di denigrazione della Chiesa cattolica.
Il quadro di fondo veniva delineato con chiarezza già nel 1992 dall’allora critico del New York Post Michael Medved. Il giornalista in un libro polemico, che fece molto rumore negli ambienti produttivi, rilevava che il film hollywoodiano stesse attaccando frontalmente i valori portanti della società americana, tra cui ovviamente la religione cristiana. Già dal titolo Medved era esplicito: “Hollywood vs. America”. A suo avviso l’universo della celluloide spandeva a piene mani il veleno della decristianizzazione, minando alle fondamenta la società americana, aggredendo la religione e la famiglia, ed esaltando i valori della solitudine, emarginazione e violenza. Per riprendere il titolo di un altro libro che ha avuto un forte impatto nel dibattito culturale statunitense, il nuovo anti-cattolicesimo stava galoppando irrefrenabile. L’autore del saggio, lo storico delle religioni Philip Jenkins, in “The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice” (2003), anch’egli scrutando nell’universo della celluloide, trovava l’illustrazione della retorica anti-cattolica. Medved denunciava la tendenza in film spettacolarmente violenti, come l’esaltazione da Oscar del serial killer di “Il silenzio degli innocenti” (1991) di Jonathan Demme. Jenkins invece affrontava film di chiarissima ispirazione anti-cattolica, da “L’ultima tentazione di Cristo” (1989) di Martin Scorsese a “Stigmate” di Rupert Wainwright e “Dogma” (1999) di Kevin Smith, senza dimenticare “Il Padrino III” (1990) di Francis Ford Coppola. Ma la vera aggressione frontale, sarebbe arrivata con il successo popolare del romanzo di Dan Brown “Il Codice da Vinci”, pubblicato nel 2003 e diventato nel 2006 film di altrettanto successo per la regia di Ron Howard.
A “Il Codice da Vinci” è seguita l’ennesima puntata del serial anticristiano messo in scena a Hollywood, sempre ad opera dell’accoppiata Dan Brown-Ron Howard: “Angeli e demoni” (2008). In questi film la Chiesa di Roma è rappresentata come un centro di potere staccato dalla fede, dedito al complotto, alla menzogna, all’utilizzo di ogni arma. A Roma, nei palazzi pontifici, risiede il vizio, l’immoralità, e si combatte la perenne lotta per non far emergere una semplice verità: la Chiesa di Cristo si regge da due millenni su un cumulo di bugie, contando sulla credulità dei fedeli, ed è dominata da un’oligarchia di potere criminale. Nel “Padrino III”, Michael Corleone viene a Roma per ricevere un alto riconoscimento pontificio. Alla fine del film si rivela più onesto dei componenti del consiglio di amministrazione di una istituzione caritatevole e della Banca Vaticana (lo IOR), che peraltro fanno uccidere il nuovo Papa (Giovanni Paolo I), intenzionato a cacciare i mercanti dal tempio, simulando un attacco di cuore. Mancava sola la pedofilia ecclesiastica, puntualmente arrivata con “Il dubbio”. Lo schermo da vent’anni ha anticipato l’immagine negativa della Chiesa di Roma. La cultura popolare della società occidentale, dominata dalla comunicazione veicolata dalle immagini di produzione nord-americana, ha ormai metabolizzato una visione del mondo-anticristiana. Adesso si sta solo sparando sulla finestra papale in San Pietro.

(Claudio Siniscalchi, L’Occidentale, 28 Marzo 2010)

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