lunedì 11 febbraio 2013

I due "no" del papa. Ai profeti di sventura e ai falsi ottimisti

Come altri anni nella festa della Madonna della Fiducia, anche questa volta Benedetto XVI si è recato nel seminario romano maggiore a tenere agli aspiranti sacerdoti una "lectio divina".
Papa Joseph Ratzinger ha parlato a braccio, con davanti solo un foglio di appunti, oltre al testo biblico da lui scelto.
E quando parla a braccio, egli svela i suoi pensieri nel modo più trasparente e schietto, come ben fa vedere la trascrizione letterale delle sue parole, di solito diffusa uno o due giorni dopo, rivista e autorizzata dall'autore.
Questa volta Benedetto XVI ha scelto di commentare la prima lettera di Pietro – da lui definita "quasi una prima enciclica, con la quale il primo apostolo, vicario di Cristo, parla alla Chiesa di tutti i tempi" – e precisamente i versetti 3-5 del capitolo 1: "Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi".
Ma prima di tutto il papa si è intrattenuto sul mittente della lettera, sul suo luogo d'invio e sui suoi destinatari.
- Il mittente, cioè l'apostolo Pietro, ma non come individuo – ha spiegato – bensì come uno che parla "ex persona Ecclesiae" e con l'aiuto di amici non solo suoi ma anche di Paolo: "Così i mondi di san Pietro e di san Paolo vanno insieme: non è una teologia esclusivamente petrina contro una teologia paolina, ma è una teologia della Chiesa, della fede della Chiesa, nella quale c’è diversità – certamente – di temperamento, di pensiero, di stile nel parlare tra Paolo e Pietro. È bene che ci siano queste diversità, anche oggi, di diversi carismi, di diversi temperamenti, ma tuttavia non sono contrastanti e si uniscono nella comune fede".
- Il luogo d'invio, cioè Roma, chiamata nella lettera col nome di Babilonia, la capitale dell'impero nella quale l'apostolo si era recato nella parte finale della sua vita e nella quale fu crocifisso: "Penso che, andando a Roma, san Pietro […] si era ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: 'Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani' (cfr. Gv 21, 18). È una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo 'estendere le mani', per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma, certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. La croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico".
- I destinatari, cioè "gli eletti che sono stranieri dispersi": "Eletti: questo era il titolo di gloria di Israele: noi siamo gli eletti, Dio ha eletto questo piccolo popolo non perché noi siamo grandi - dice il Deuteronomio - ma perché lui ci ama (cfr. 7, 7-8). Siamo eletti: questo, adesso san Pietro lo trasferisce a tutti i battezzati, e il contenuto proprio dei primi capitoli della sua prima lettera è che i battezzati entrano nei privilegi di Israele, sono il nuovo Israele. […] Forse oggi siamo tentati di dire: non vogliamo essere gioiosi di essere eletti, sarebbe trionfalismo. Trionfalismo sarebbe se noi pensassimo che Dio mi ha eletto perché io sono così grande. Questo sarebbe realmente trionfalismo sbagliato. Ma essere lieti perché Dio mi ha voluto non è trionfalismo ma è gratitudine, e penso che dobbiamo reimparare questa gioia: […] essere gioiosi perché mi ha eletto per essere cattolico, per essere in questa Chiesa sua, dove 'subsistit Ecclesia unica'. […]
"Ma 'eletti' è accompagnato da 'parapidemois', dispersi, stranieri. Da cristiani siamo dispersi e siamo stranieri: vediamo che oggi nel mondo i cristiani sono il gruppo più perseguitato perché non conforme, perché è uno stimolo, perché contro le tendenze dell’egoismo, del materialismo, di tutte queste cose. […] Nei posti di lavoro i cristiani sono una minoranza, si trovano in una situazione di estraneità; meraviglia che uno oggi possa ancora credere e vivere così. Questo appartiene anche alla nostra vita: è la forma di essere con Cristo crocifisso; questo essere stranieri, non vivendo secondo il modo in cui vivono tutti, ma vivendo – o cercando almeno di vivere – secondo la sua Parola, in una grande diversità rispetto a quanto dicono tutti. E proprio questo per i cristiani è caratteristico. Tutti dicono: 'Ma tutti fanno così, perché non io?' No, io no, perché voglio vivere secondo Dio. Sant’Agostino una volta ha detto: 'I cristiani sono quelli che non hanno le radici in giù come gli alberi, ma hanno le radici in su e vivono questa gravitazione, non la gravitazione naturale verso il basso'. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad accettare questa missione di vivere come dispersi, come minoranza, in un certo senso; di vivere come stranieri e tuttavia di essere responsabili per gli altri e, proprio così, dando forza al bene nel nostro mondo".
Dopo questa ampia premessa, arrivato "finalmente" al brano prescelto, Benedetto XVI si è soffermato su tre parole chiave: rigenerati, eredità, custoditi dalla fede.
E sulla seconda ha detto: "Eredità è una parola molto importante nell’Antico Testamento, dove è detto ad Abramo che il suo seme sarà erede della terra, e questa è stata sempre la promessa per i suoi: Voi avrete la terra, sarete eredi della terra. Nel Nuovo Testamento, questa parola diventa parola per noi: noi siamo eredi, non di un determinato paese, ma della terra di Dio, del futuro di Dio. Eredità è una cosa del futuro, e così questa parola dice soprattutto che da cristiani abbiamo il futuro: il futuro è nostro, il futuro è di Dio. E così, essendo cristiani, sappiamo che nostro è il futuro e l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo. Quindi, abbiamo motivo di non lasciarci impressionare - come ha detto papa Giovanni - dai profeti di sventura che dicono: la Chiesa è un albero venuto dal grano di senape, cresciuto in due millenni, adesso ha il tempo dietro di sé, adesso è il tempo in cui muore. No. La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro.
"Naturalmente, c’è un falso ottimismo e un falso pessimismo. Un falso pessimismo che dice: il tempo del cristianesimo è finito. No: comincia di nuovo! Il falso ottimismo era quello dopo il Concilio, quando i conventi chiudevano, i seminari chiudevano, e dicevano: ma niente, va tutto bene… No! Non va tutto bene. Ci sono anche cadute gravi, pericolose, e dobbiamo riconoscere con sano realismo che così non va, non va dove si fanno cose sbagliate. Ma anche essere sicuri, allo stesso tempo, che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo, nasce di nuovo. Il futuro è realmente di Dio: questa è la grande certezza della nostra vita, il grande, vero ottimismo che sappiamo. La Chiesa è l’albero di Dio che vive in eterno e porta in sé l’eternità e la vera eredità: la vita eterna".


(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa.it, 10 febbraio 2013)

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