Ieri,
18 settembre, si è verificata una strana coincidenza: si è chiuso il Congresso
Eucaristico nazionale a Genova, mentre si apriva l’incontro interreligioso per
la pace ad Assisi (“Sete di pace” è il tema) nel trentesimo anniversario dell’incontro
voluto da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986. Coincidenza certamente non
voluta, e neanche notata dai rispettivi organizzatori, eppure molto
significativa. Perché se ad Assisi si prega per la pace, a Genova si adorava
Cristo che «è la vera pace». L’uno, l’appuntamento di Genova, è il fondamento
del secondo, l’incontro con i rappresentanti delle altre religioni ad Assisi.
Ce
lo aveva ben chiaro san Giovanni Paolo II quando ebbe l’intuizione di convocare ad Assisi i
rappresentanti di tutte le religioni. Lo spiegò efficacemente due mesi dopo,
nel discorso di auguri alla Curia Romana (22 dicembre 1986), in
cui respinse qualsiasi «confusione e sincretismo», ponendo invece l’incontro di
Assisi nella prospettiva dell’«ordine della creazione»: «l’unità dell’origine
divina di tutta la famiglia umana, di ogni uomo e donna, che si riflette nell’unità
della immagine divina che ciascuno porta in sé (cf. Gen 1, 26), e
orienta di per se stessa a un fine comune (cf. Nostra Aetate, 1)».
Da
questo punto di vista le divisioni religiose sono il frutto della «caduta», del peccato. Sta alla Chiesa,
depositaria della verità rivelata, «sacramento di salvezza» e «segno e
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»,
testimoniare ciò a cui tutte le religioni, e tutti gli uomini, aspirano: «Il
disegno divino, unico e definitivo, ha il suo centro in Gesù Cristo, Dio e uomo
“nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha
riconciliato a sé tutte le cose”». La preghiera, spiegava ancora Giovanni Paolo
II - ognuno «secondo la propria identità e nella ricerca della verità» - è il
comune riconoscimento che la pace viene da Dio, è un passo nella consapevolezza
di quell’ordine della creazione che vale per tutti. E questa era l’immagine
sintetica che san Giovanni Paolo II offriva dell’incontro di Assisi: «La Chiesa
cattolica che tiene per mano i fratelli cristiani e questi tutti insieme che
congiungono la mano con i fratelli delle altre religioni».
È
per questo che nel breve discorso finale ad Assisi, san Giovanni Paolo II annunciò
con molta chiarezza: «In relazione all’ultima preghiera, quella cristiana,
nella serie che abbiamo ascoltato, professo di nuovo la mia convinzione,
condivisa da tutti i cristiani, che in Gesù Cristo, quale Salvatore di tutti, è
da ricercare la vera pace. (…) È infatti la mia convinzione di fede che mi ha
fatto rivolgere a voi, rappresentanti di Chiese cristiane e comunità ecclesiali
e religioni mondiali, in spirito di profondo amore e rispetto. Con gli altri
cristiani noi condividiamo molte convinzioni, particolarmente per quanto
riguarda la pace. Con le religioni mondiali condividiamo un comune rispetto e
obbedienza alla coscienza, la quale insegna a noi tutti a cercare la verità, ad
amare e servire tutti gli individui e tutti i popoli, e perciò a fare pace tra
i singoli e tra le nazioni».
Spiace
dirlo, ma negli interventi che l’hanno preceduto e nelle relazioni d’apertura di ieri ad Assisi, di questo approccio
delle origini proprio non si trova traccia. Andrea Riccardi, fondatore della
Comunità di Sant’Egidio e vero motore degli incontri interreligiosi che dal
1987 proseguono come eredità del primo incontro, evoca continuamente lo “spirito
di Assisi” e si accredita come l’erede di Giovanni Paolo II (per quel che
riguarda il dialogo interreligioso), ma l’approccio appare ben diverso da
quello descritto nel 1986: dialogo è la parola d’ordine ma il disegno divino è
ridotto a una generica pace, in vista della quale si capisce che non giovi l’affermazione
della propria identità.
Per
questo non è possibile cogliere il nesso con il Congresso Eucaristico, che san Giovanni Paolo II –
proprio per la sua dichiarazione di fede che fece in quell’occasione – avrebbe
visto come il fondamento dell’incontro di Assisi. Ovviamente non sappiamo cosa
dirà domani, martedì, papa Francesco quando toccherà a lui incontrare i leader
religiosi nella città umbra e non dubitiamo che almeno lui riprenda l’intuizione
originale di trenta anni fa. Però c’è un dato oggettivo che, lo si voglia o
meno, lancia un messaggio: papa Francesco sarà infatti ad Assisi ma non è
andato a Genova. E siccome le luci dei media si accendono ovviamente dove c’è
il Papa, è così che tutti i riflettori sono su Assisi, mentre il Congresso
Eucaristico è passato completamente inosservato. Così si è persa una grande
occasione per mostrare l’origine e il fine del dialogo per la pace.
Ma
c’è un altro gesto compiuto dal Papa che è significativo: ovvero la mancanza di un
invito ad Assisi per il Dalai Lama, che invece trenta anni fa era al fianco di
Giovanni Paolo II. Sebbene la notizia, rivelata dall’entourage del Dalai Lama,
non sia stata spiegata o commentata dalla Sala Stampa vaticana, appare evidente
che tale decisione sia stata presa per evitare di irritare Pechino nel momento
in cui la Santa Sede sta facendo di tutto per riallacciare le relazioni
diplomatiche con la Cina popolare. È insomma il ritorno della realpolitik
– cui Giovanni Paolo II era decisamente contrario - che sembrava sepolta dopo
il fallimento cui era andata incontro con i paesi dell’allora Unione Sovietica.
Del resto, per lo stesso motivo, il Dalai Lama non era stato ricevuto dal Papa
neanche due anni fa, quando era a Roma per il summit dei Premi Nobel. Ma c’è
una oggettiva differenza di significato tra una visita privata, cui si può
rinunciare senza grossi problemi, e un’iniziativa pubblica, religiosa, che
viene modulata sulle esigenze politiche del momento. Non è che noi si muoia
dalla voglia di vedere il Dalai Lama ad Assisi, ma non vederlo per compiacere l’Imperatore
lascia un certo disagio.
(Fonte:
Riccardo Cascioli, La nuova bussola quotidiana, 19 settembre 2016)
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