I conflitti messi in moto oggi
da "Amoris laetitia" hanno un precedente nelle controversie
cristologiche del tardo impero romano. Le risolse il concilio ecumenico di
Calcedonia. Dal Cile, uno studioso propone di rifare lo stesso cammino
Con l'atto stesso di non
rispondere all'appello dei quattro cardinali di fare chiarezza sui punti più
controversi di "Amoris laetitia", papa Francesco almeno una cosa l'ha
fatta capire. Ed è la sua incrollabile certezza della bontà del processo da lui
messo in moto con l'esortazione postsinodale, proprio grazie alla calcolata
ambiguità del testo, che ha aperto la strada a una molteplicità di
interpretazioni e di applicazioni, alcune delle quali decisamente nuove
rispetto al plurisecolare insegnamento della Chiesa.
Non è la prima volta, nella
storia cristiana, che si verifica un caso del genere. Che cioè dei
pronunciamenti del magistero, volutamente non chiari, lascino convivere più
interpretazioni contrastanti, anche su punti centrali del dogma.
È capitato così nella prima
fase delle controversie trinitarie e cristologiche del quarto secolo.
Nel saggio che segue, un
esperto di quelle antiche controversie mostra quanto la loro dinamica somigli
al conflitto oggi in corso nella Chiesa cattolica sui sacramenti del matrimonio
e dell'eucaristia.
Allora, l'eresia che dilagava
era quella di Ario, che minava la divinità di Gesù. Mentre oggi ad essere in
pericolo è l'indissolubilità del matrimonio cristiano.
L'autore del saggio, Claudio
Pierantoni, ha studiato a Roma filologia classica e storia del
cristianesimo all'Università "La Sapienza" e all'Augustinianum, con
suo maestro l'insigne patrologo Manlio Simonetti, specializzandosi nelle
controversie cristologiche del quarto secolo e in sant'Agostino.
Sposato e con due figlie, dal
1999 Pierantoni vive a Santiago del Cile. Ha insegnato storia della Chiesa e
patrologia alla Pontificia Universidad Católica e attualmente insegna filosofia
medievale alla Universidad de Chile. (Sandro Magister)
La
crisi ariana e la controversia attuale su "Amoris laetitia": un
parallelo
Le riflessioni
che seguono traggono origine da una coincidenza abbastanza curiosa. Ai primi di
aprile di quest’anno infatti, nella facoltà di teologia della Pontificia
Universidad Católica di Santiago del Cile ha preso le mosse un gruppo di studio
sulla controversia ariana.
Nella
prima riunione del gruppo riflettevamo sulla straordinaria rapidità con cui la
controversia suscitata dal presbitero alessandrino Ario nel 318 o 319,
apparentemente sedata con la condanna di questi da parte del vescovo della
metropoli Alessandro, si diffuse invece in Palestina e di lì a pochi anni
infiammò tutto l’Oriente romano, spingendo l’imperatore Costantino a convocare
addirittura un concilio ecumenico per risolverla. Apparentemente si trattava
solo di un paio di frasi imprudenti sulla relazione del Figlio con il Padre,
che però misero allo scoperto profonde differenze dottrinali esistenti
nell’episcopato, e scatenarono una polemica evidentemente latente da molto
tempo.
Ebbene,
proprio in quegli stessi giorni di aprile del 2016 veniva pubblicata
l’esortazione apostolica "Amoris laetitia", e di lì a poco […]
vennero le reazioni del Card. Burke e quelle del Card. Müller, e incominciò la
polemica. Non ci volle molto tempo per capire che l’incendio che si stava
rapidamente propagando, proprio come ai tempi di Ario, era di vaste
proporzioni, nonostante le modeste apparenze di basarsi solo su un paio di
imprudenti note a piè di pagina, che il papa affermava di non ricordare
neppure.
Mi
venne quindi naturale cominciare a fare un paragone fra le due crisi. […] I due
momenti, infatti, possono essere visti in analogia, perché in entrambi i casi
un intervento importante del magistero è percepito da molti cattolici come in
conflitto con la dottrina precedente. E inoltre, in entrambi i casi, si
percepisce un assordante silenzio della gerarchia della Chiesa cattolica,
naturalmente con delle eccezioni.
Quanto
al contenuto, le due crisi sono certamente diverse: nel primo caso l’argomento
del contendere è prettamente teologico, riguardando il fondamento della
dottrina cristiana su Dio uno e trino, mentre nel secondo è teologico-morale,
riguardando in modo centrale il tema del matrimonio.
Tuttavia,
l’elemento principale che avvicina le due crisi è, mi pare, il fatto che
entrambe interessano un pilastro del messaggio cristiano, distrutto il quale il
messaggio stesso perde la sua fisionomia fondamentale. […]
I.
Parallelo tra le due crisi, nei documenti dottrinali
Dal
punto di vista dei documenti dottrinali, l’elemento parallelo che maggiormente
richiama l’attenzione è il carattere di ambiguità presente nelle formule
filoariane degli anni 357-360.
In
effetti, […] la minoranza filoariana, pur essendo al potere, non si azzarda a
proporre una posizione che troppo chiaramente si opponga alla visione tradizionale.
Non dice espressamente che il Figlio è inferiore al Padre, ma usa
un’espressione generica, "simile" al Padre, che poteva prestarsi a
diversi gradi di subordinazionismo. In breve, pur essendo al potere, essa cerca
di nascondersi.
In
modo analogo, l’attuale esortazione apostolica "Amoris laetitia", nel
famoso capitolo VIII, non nega apertamente l’indissolubilità del matrimonio,
anzi l’afferma esplicitamente. Nega però in pratica le conseguenze necessarie
che discendono dall’indissolubilità matrimoniale. Ma lo fa attraverso un
discorso sinuoso e involuto, con formulazioni che coprono una gamma di
posizioni diverse, alcune più estreme, altre più moderate.
Per
esempio, dice che “in alcuni casi” potrebbe darsi alle persone in unioni
“cosiddette irregolari” l’“aiuto dei sacramenti”. Quali siano questi casi non
viene detto, per cui del testo possono darsi almeno quattro interpretazioni, di
cui le più restrittive sono ovviamente incompatibili con le più ampie. Per
chiarezza interpretativa, è quindi utile classificarle in base al diverso grado
di ampiezza, partendo dalla più restrittiva fino alla più estesa:
1.
In base al principio di continuità ermeneutica, l’espressione “in alcuni casi”
dovrebbe interpretarsi come riferentesi ai casi specificati nei documenti del
magistero vigente, come "Familiaris consortio", che dice che si può
dare l’assoluzione e la comunione eucaristica in quei casi in cui i conviventi
facciano promessa di convivere come fratello e sorella.
Questa
interpretazione ha dalla sua un principio ermeneutico fondamentale, che
potrebbe sembrare irrefutabile, ma è contraddetta dalla nota 329, che afferma
esplicitamente che proprio questo comportamento (cioè la convivenza come
fratello e sorella) potrebbe essere potenzialmente dannoso e quindi da evitare.
2.
“In alcuni casi” può interpretarsi in senso più ampio come riferito alla
certezza soggettiva della nullità del precedente matrimonio, supponendo che per
motivi particolari non sia possibile provarla in un tribunale.
In
tali casi potrebbe certo darsi che, nel segreto della coscienza, non vi sia
colpa nella nuova unione: questo potrebbe essere visto, sul piano della
dottrina morale, in accordo con "Familiaris consortio". Ma rimane una
differenza fondamentale sul piano ecclesiologico: l’eucaristia è un atto
sacramentale, pubblico, in cui non può prendersi in considerazione una realtà
in sé stessa invisibile e incontrollabile pubblicamente.
3.
"In alcuni casi” può essere interpretato, più
ampiamente ancora, come riferito a una minore o anche nulla responsabilità
soggettiva, dovuta a ignoranza della norma, oppure a incapacità di
comprenderla; o anche a “forza maggiore”, in cui qualche speciale circostanza
può essere così forte da “costringere” a una convivenza "more uxorio",
che quindi non costituirebbe colpa grave; anzi, addirittura, secondo il
documento, l’abbandono della convivenza potrebbe far incorrere in colpa più
grave.
Qui
abbiamo già seri problemi anche di teologia morale. Ignoranza e incapacità di
comprendere possono in effetti limitare la responsabilità personale: ma appare
incongruo, per non dire contraddittorio, invocarle in questo discorso, in cui
si parla di un itinerario e di un discernimento "accompagnato":
processi che appunto dovrebbero essere finalizzati al superamento di tale
ignoranza e incapacità di comprendere.
In
quanto alla forza maggiore, non è affatto ovvio, anzi è contrario a tutta la
tradizione e a importanti pronunciamenti dogmatici che essa possa giustificare
la mancanza nell’adempimento della legge divina. È vero che non si può
escludere a priori che possano esservi particolari circostanze in cui la
situazione può cambiare la specie morale di un atto esternamente uguale, anche
cosciente e volontario: per esempio, l’atto di sottrarre un bene a qualcuno può
non configurarsi come furto, ma come un atto di pronto soccorso a una persona,
o un atto diretto ad evitare un male peggiore. Ma anche ammesso, e non
concesso, che questo possa applicarsi all’adulterio, ciò che qui osta
decisamente a una giustificazione di questo genere è il carattere di permanenza
del comportamento oggettivamente negativo: quello che è giustificabile in un
momento puntuale, di emergenza, non può esserlo in una situazione stabile,
coscientemente scelta.
In
ogni modo, rimane fermo anche qui il principio ecclesiologico per il quale in
nessun caso può essere reso magicamente visibile al livello pubblico quello che
per sua natura appartiene al segreto della coscienza.
4.
“In alcuni casi”, nell’interpretazione più estesa di tutte, può essere ampliato
a includere tutti quei casi – che sono poi quelli reali, concreti e frequenti,
che tutti abbiamo in mente – in cui si dà un matrimonio poco felice, che
fallisce per una serie di malintesi e incompatibilità e a cui segue una
convivenza felice, stabile nel tempo, con reciproca fedeltà, ecc. (cfr. AL
298).
In
questi casi, parrebbe che il risultato pratico, in particolare la durata e la
felicità della nuova unione contro la brevità e infelicità della precedente,
possa interpretarsi come una specie di conferma della bontà e quindi
legittimità della nuova unione. In questo contesto (AL 298) si tace qualsiasi
considerazione sulla validità del matrimonio precedente, nonché sull’incapacità
di comprendere e sulla forza maggiore. E in effetti, quando poco più sotto (AL
300) si passa a considerare il tipo di discernimento che dovrà farsi in questi
casi, risulta ancora più chiaro che i temi in discussione nell’esame di
coscienza, e nel relativo pentimento, non saranno altri che il buono o cattivo
comportamento a fronte dell’insuccesso matrimoniale e la buona riuscita della
nuova unione.
È
chiaro, qui, che il “pentimento” di cui deve trattarsi non riguarda affatto la
nuova unione in presenza di una precedente unione legittima; riguarda invece il
comportamento durante la precedente crisi e le conseguenze (non meglio
precisate) della nuova unione sulla famiglia e la comunità.
È
quindi manifesto che il documento intende spingersi al di là tanto dei casi in
cui si abbia certezza soggettiva dell’invalidità del precedente vincolo, come
anche dei casi di ignoranza, di difficoltà di comprendere e di forza maggiore o
di presunta impossibilità di adempiere la legge.
Ora, è
sufficientemente chiaro che se il metro valido per giudicare della liceità
della nuova unione è, alla fine, il suo successo pratico, la sua felicità
visibile, empirica, di contro all’insuccesso e all’infelicità del matrimonio
anteriore – liceità che è ovviamente presupposta per ricevere l’assoluzione
sacramentale e l’eucaristia –, la conseguenza inevitabile è che il precedente
matrimonio implicitamente si considera, anche pubblicamente, ormai senza
effetto e quindi sciolto: quindi, che il matrimonio è dissolubile. E così nella
Chiesa cattolica, mentre a parole si continua ad affermare l’indissolubilità,
di fatto viene introdotto il divorzio.
È
anche sufficientemente chiaro che, se il successo del nuovo matrimonio basta
per stabilire la sua liceità, questo include la giustificazione praticamente di
tutti i casi di nuova unione, In effetti, se la nuova unione dovesse
dimostrarsi priva di successo, non sussisterà lo stimolo per giustificarla e si
passerà piuttosto a un’ulteriore unione, nella speranza di un maggior successo.
Ora questa, e non altra, è appunto la logica del divorzio.
Da ciò
si può ulteriormente dedurre che la discussione sui casi che possiamo chiamare
“intermedi”, cioè quelli situati fra la posizione tradizionale e quella più
ampia – che come abbiamo mostrato include di fatto tutti i casi –, se da una
parte permette a molti, più moderati, di riconoscersi nell’una o nell’altra
gradazione e quindi può avere un valore di “tranquillante”, invece dal punto di
vista pratico finisce con l’essere ben poco rilevante. In sostanza, infatti, il
documento, nella sua genericità, fornisce carta bianca per risolvere la gran
maggioranza delle situazioni reali con un criterio assai più semplice e in
linea con la mentalità dominante nella nostra civiltà: in una parola,
perfettamente in linea con l’ideologia del divorzio.
Tornando
al nostro parallelo, tutto ciò ricorda assai da vicino la politica
dell’imperatore Costanzo, nel ricercare un’espressione sufficientemente
generica, che si proponesse di accontentare molteplici posizioni diverse. La
genericità, nella controversia ariana, dell’espressione “simile al Padre
secondo le Scritture” trova perfetto riscontro nella genericità
dell’espressione “in alcuni casi” che troviamo in "Amoris laetitia".
In teoria, quasi ogni posizione vi si può riconoscere.
Di
conseguenza, le situazioni risultano analoghe anche quanto al risultato
pratico. Allo stesso modo in cui quasi tutto l’episcopato dell’impero accettò
la formula di Rimini-Costantinopoli del 359-60, così anche oggi la stragrande
maggioranza dell’episcopato ha accettato senza fiatare il nuovo documento, pur
sapendo che esso di fatto legittima una serie di posizioni fra loro
incompatibili, alcune delle quali manifestamente eretiche.
Oggi
molti vescovi e teologi acquietano la propria coscienza affermando, sia in
pubblico sia a se stessi, che il dire che “in certi casi” i divorziati
risposati possono ricevere i sacramenti non è di per sé erroneo e può
interpretarsi, in un’ermeneutica della continuità, come in linea con il
magistero precedente. Proprio allo stesso modo gli antichi vescovi pensavano
che non era di per sé erroneo dire che “il Figlio è simile al Padre secondo le
Scritture”.
Ma, in
entrambi i casi, sebbene un’ampia gamma di posizioni si possano riconoscere
nell'una e nell'altra formula presa isolatamente, invece nel contesto dei rispettivi
documenti è assai chiaro che la posizione ortodossa, veramente in linea con il
magistero precedente, è proprio quella che viene nettamente esclusa. […]
Nel
caso di "Amoris laetitia", ciò si realizza:
- con
la smentita della formulazione di "Familiaris consortio"
sull’astensione dalla convivenza "more uxorio" come condizione
dell’accesso ai sacramenti;
- con l’eliminazione dei precedenti netti confini fra certezza della coscienza e norme ecclesiologiche sacramentali;
- con la strumentalizzazione dei precetti evangelici della misericordia e del non giudicare, usati per sostenere che nella Chiesa non sarebbe possibile l’applicazione di censure generali a determinati comportamenti oggettivamente illeciti;
- e infine, ma non per ultimo, censurando duramente quanti avessero la “meschina” e “farisaica” pretesa di invocare precise norme giuridiche per giudicare di qualsiasi caso singolo, che invece dev’essere rigorosamente lasciato al discernimento e all’accompagnamento personale.
- con l’eliminazione dei precedenti netti confini fra certezza della coscienza e norme ecclesiologiche sacramentali;
- con la strumentalizzazione dei precetti evangelici della misericordia e del non giudicare, usati per sostenere che nella Chiesa non sarebbe possibile l’applicazione di censure generali a determinati comportamenti oggettivamente illeciti;
- e infine, ma non per ultimo, censurando duramente quanti avessero la “meschina” e “farisaica” pretesa di invocare precise norme giuridiche per giudicare di qualsiasi caso singolo, che invece dev’essere rigorosamente lasciato al discernimento e all’accompagnamento personale.
Così,
pur nella buona volontà di rispettare un principio ermeneutico certamente
valido, quello della continuità con i documenti precedenti, si rischia di
dimenticarne un altro ancora più importante ed evidente: quello del contesto
immediato in cui una proposizione viene formulata.
Se si
leggono le singole affermazioni di "Amoris laetitia" non
isolatamente, ma nel loro contesto, e il documento a sua volta nel suo contesto
storico immediato, si scopre facilmente che la "mens" generale che lo
guida è sostanzialmente l’idea del divorzio, oltre all’idea oggi diffusa di non
porre chiari confini tra un matrimonio legittimo e un’unione irregolare. […]
II.
Parallelo tra le due crisi, nello sviluppo storico
Anche
dal punto di vista dello sviluppo storico dell’eresia ariana si può notare un
evidente parallelo. Si assiste alla sua preparazione durante la seconda metà
del terzo secolo; venuta allo scoperto, è condannata dal concilio di Nicea, che
però in Oriente riceve un diffuso rifiuto; tuttavia, il rifiuto di Nicea è in
una prima fase più moderato, e l’arianesimo vero e proprio è solamente
tollerato come un male minore, ma a poco a poco questa tolleranza gli permette
di riprendere vigore, finché, datesi le favorevoli circostanze politiche,
arriva al potere. Giunto al potere, sente tuttavia il bisogno di mascherarsi:
non si esprime in modo franco e diretto, ma in modo indiretto, e appoggiandosi
sulla pressione e l’intimidazione politica. Però, il fatto stesso di imporsi,
pur essendo l'arianesimo una minoranza, su una maggioranza pavida e indecisa,
lo espone comunque a una confutazione molto più forte e chiara della parte più
ortodossa e cosciente dell’episcopato, che gradualmente ma inesorabilmente, nei
due decenni che seguono, ne prepara la sconfitta definitiva.
Analogamente,
nel caso dell’eresia attuale, che dal nome del suo esponente principale
possiamo chiamare “kasperiana”, abbiamo assistito a una sua lenta preparazione,
a partire dalla seconda metà del XX secolo. Venuta allo scoperto, è poi
condannata nei documenti di Giovanni Paolo II, soprattutto in "Veritatis
splendor" e "Familiaris consortio". Ma da una parte
dell’episcopato e della teologia colta questi documenti sono rifiutati in modo
più o meno aperto e radicale, e la prassi ortodossa è disattesa in ampie e importanti
zone della cattolicità. Questo rifiuto è ampiamente tollerato, sia a livello
teorico che pratico; e da lì acquista forza, finché, datesi le circostanze
favorevoli, politiche ed ecclesiastiche, arriva al potere. Ma, pur arrivato al
potere, l’errore non si esprime in modo franco e diretto, bensì attraverso non
del tutto chiare attività sinodali (2014-2015); e sbocca poi in un documento
apostolico esemplare per la sua tortuosità. Però, il fatto stesso di essere
arrivato ad affacciarsi in un documento magisteriale suscita uno sdegno morale
e una reazione intellettuale assai più forte e dinamica, e obbliga chiunque ne
abbia gli strumenti intellettuali a ripensare la dottrina ortodossa, per una
sua ancor più profonda e chiara formulazione, per preparare una condanna definitiva
non solo dell’errore puntuale in esame, ma anche di tutti gli errori con esso
collegati, che vanno ad incidere su tutta la dottrina sacramentale e morale
della Chiesa. Permette, inoltre, e non è poco, di mettere alla prova,
riconoscere, e anche riunire, coloro che veramente e solidamente aderiscono al
deposito della fede.
Questa
è appunto la fase in cui possiamo dire di trovarci noi in questo momento. È
appena cominciata e si preannuncia non priva di ostacoli. Non possiamo
prevederne la durata, ma dobbiamo avere la certezza della fede, che Dio non
permetterebbe questa gravissima crisi se non fosse per un bene superiore delle
anime. Sarà certo lo Spirito Santo a donarci la soluzione, illuminando questo
papa o il suo successore, forse anche attraverso la convocazione di un nuovo
concilio ecumenico. Ma nel frattempo, ciascuno di noi è chiamato, nell’umiltà e
nella preghiera, a dare la sua testimonianza e il suo contributo. E a ciascuno
di noi il Signore certamente chiederà conto.
(Fonte:
Claudio Pierantoni, Settimo cielo, 28
novembre 2016)
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