venerdì 17 marzo 2017

Il Movimento Liturgico come problema e come”chance”

La questione in gioco è molto più di sostanza di quanto appaia. In una stagione, infatti, in cui il magistero gerarchico è incerto o latita, sono proprio i testi liturgici a tramandare integra la grande tradizione della Chiesa. E quindi è sulla fedeltà a questi testi che si può attestare una “resistenza”. È ciò che scrive il professor Pietro De Marco al termine di questa sua nota sulla vicenda liturgica postconciliare. La nota sintetizza una sua molto più ampia relazione tenuta alla fine di agosto del 2016 ad Assisi, all’annuale settimana di studio dell’Associazione Professori di Liturgia, i cui atti sono in corso di pubblicazione (Sandro Magister).

1. ROMA FU ATTENTA, e fu la sua grandezza in decenni difficilissimi, nella tutela del Concilio autentico, non del Concilio-progetto dell’intelligencija teologica.
Già nel 1965, a settembre, sulla fine del Vaticano II, Paolo VI si sentì in dovere di palesare la sua “anxietas” sulla dottrina e il culto dell’eucaristia. Nell’enciclica “Mysterium fidei” lamentava che “tra quelli che parlano e scrivono di questo sacrosanto mistero, ci sono alcuni che circa le messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano opinioni che turbano l’anima dei fedeli, come se a chiunque fosse lecito porre in oblio la dottrina già definitiva della Chiesa”.
Meno di tre anni dopo, nel maggio 1968, in occasione della pubblicazione delle nuove preghiere eucaristiche, era lo stesso “Consilium” preposto alla riforma liturgica a cedere al diffuso revisionismo teologico, nella circolare firmata dal suo presidente cardinale Benno Gut e dal segretario Annibale Bugnini, in cui, nello spiegare la teologia dell’anafora eucaristica, si leggeva (paragrafo 2, punti 2-3) :
“L’anafora è la narrazione dei gesti e delle parole pronunziate nell’istituzione dell’eucaristia.  Ma [poiché] il racconto riattualizza ciò che Gesù fece […] si rivolge al Padre la preghiera di supplica: che renda efficace questa narrazione, santificando il pane e il vino, cioè, praticamente, facendone il corpo e il sangue di Cristo”.
Difficilmente si poteva raggiungere, in un documento ufficiale, un grado così basso di teologia eucaristica a vantaggio dei luoghi comuni del memoriale, delle mode narrativistiche in esegesi, nonché di una coperta negazione del valore consacratorio della formula dell’Istituzione, a vantaggio dell’epiclesi che la precede.
Ma l’apice antiliturgico sarà  l’istruzione “Comme le prévoit”  del gennaio 1969 sui criteri di traduzione del messale;  arrivava addirittura a premettere (n. 5) che il testo liturgico “è un mezzo di comunicazione orale. È anzitutto un segno sensibile con cui gli uomini che pregano comunicano tra loro”.
Nonostante le espressioni correttive (“Ma per i credenti…”), la formula equivoca su cosa sia rito e i “principi generali” dell’istruzione, di conseguenza, riconducono la teologia della liturgia sotto le regole di una filosofia pragmatica del linguaggio (chi parla, come si parla, a chi si parla).
Si eleva a sistema, stravolgendola, la prassi tutta pastorale della cosiddetta “messa dialogata”: già essa un’espressione fuorviante, poiché non di “dialogo” sacerdote-popolo si tratta, ma di “actio liturgica” essenzialmente rivolta a Dio.
La stessa celebrazione “versus populum”, senza fondamento storico né teologico, appartiene a questo clima, con gli effetti “disorientanti” che ne derivano. Infatti l’asse cultuale-misterico, secondo cui e su cui Cristo celebra rivolto al Padre, e il sacerdote e il popolo con lui, è annullato.
2. VALE LA PENA di guardare da vicino la situazione dell’intelletto teologico alla fine degli anni Sessanta e la sua influenza sulla riforma liturgica.
Alla base stava, palesemente, un disequilibrio tra l’”in sé” rituale-misterico e sacramentale, promosso dalle menti migliori del movimento liturgico, da un lato, e l’istanza della partecipazione dei fedeli dall’altro, disequilibrio che indebolisce già la costituzione “Sacrosanctum  Concilium”.
Ma in quegli anni l’intelligencija cattolica sottintendeva, quasi mai esplicitandolo, molto di più.
Sottintendeva che la teologia doveva essere inverata dall’azione, per analogia con la cosiddetta filosofia della prassi, da Marx a Dewey. La liturgia era, per molti del movimento liturgico, questa azione. Si pensa il rito come qualcosa che genera la propria verità ed efficacia da se stesso, in quanto rito “umano”.
Ad aggravare e disorientare il quadro del postconcilio interveniva dunque  il fatto che la “actuosa participatio” dei fedeli al rito portava con sé il carico ideologico degli anni Sessanta-Settanta. Una dinamica antropocentrica e secolaristica (favorita dal prestigio di Karl Rahner, ma autonomamente coltivata  in ambito francofono) prevaleva sulla concezione rituale-misterica che santifica e trascende l’uomo e sola può fare della liturgia “la fonte e il culmine” della vita cristiana.
Era il collasso della grande teologia liturgica degli anni Trenta, di Odo Casel, di Dietrich von Hildebrand, di Romano Guardini.
Caduto il clima ideologico dopo gli anni Settanta, la sensibilità ecclesiale e la teologia, nel suo complesso, dalla fondamentale alla pastorale, hanno compiuto una rotazione dalla prassi all’ermeneutica, dal realismo delle concezioni materialistiche del Vangelo alla teologia negativa, dalla militanza politica alla “autenticità relazionale”.
La pastorale liturgica si è adattata facilmente. La liturgistica ha lavorato sia autonomamente che di conserva con le teologie, ma la ricerca ora filosofico-linguistica ora antropologica ora, ma molto meno, neo-personalistica, non poteva evitare la china: la perdita di realtà del momento sacramentale e del dato soprannaturale come tali.
L’“engagement” pedagogico-pastorale e l’indebolimento di cristologia, ecclesiologia e diritto canonico oggi permettono che si faccia ovunque perno sulla “spontaneità” formativa e in certa misura sull’autofondazione del cristiano e della comunità.  Così il vissuto della messa è divenuto “partecipazione” socializzante a un incontro “festoso” più che festivo. La liturgia è assimilata ai giochi di comunità.
E appartiene a questo quadro il frequente squallore delle “nuove chiese”, non pensate come “casa di Dio” ma come spazi a destinazione variabile, quindi senza significato proprio; dispendiose vacuità in cui l’”actio liturgica” è, alla lettera, spaesata e disorientata.
3. COME ALLORA SI PUÒ RECUPERARE, controcorrente,  l’intelligenza della liturgia, umano-divina, regale e cosmica, in un’epoca in cui cristologia e mariologia sono “umanizzate” su paradigmi emozionali, relazionali, compassionevoli, impermeabili alla gloria e alla vittoria della Croce? In un’epoca di nichilismo benevolente e di “falsificazione del bene”.
Lo si può.
Infatti, la liturgia e la pedagogia liturgica possono ancora trasmettere, se lo vogliono, un corpo integro di rivelazione divina, quello contenuto nella “lex orandi” correttamente intesa, quindi rigorosamente tradotta, non secondo “Comme le prévoit”  ma secondo “Liturgiam authenticam” (2001) che valutava realisticamente oltre un trentennio di fatti e di errori.
La “lex orandi” non è solo una formula. È un corpo integro di dottrina, è Tradizione che oggi resta netta proprio nei testi liturgici, molto più che nelle teologie e nello stesso magistero gerarchico recente. Non si tratterà di animare assemblee dopolavoristiche o estatiche, o di realizzare delle nuove teatralità, ma di far perno sulla resistenza veritativa della Rivelazione depositata nei messali, nei breviari, e proclamata e attuata nella celebrazione responsabile.
La tensione  tra l’”in sé” del rito e la sua espressione “partecipata” esige delle soluzioni teologiche rigorose, da cui soltanto possono discendere con sicurezza le soluzioni pratico-pastorali. Non viceversa.  Da qui due avvertenze:
1. senza fede certa nel “mysterion” come “substantia” e nel simbolo in quanto epifania che apre intellettualmente e sensibilmente – con i sensi spirituali – all’Oltre come trascendenza, ogni sfida teologica tipo “dall’etico al simbolico” è già perduta in partenza;
2. non ci si affidi ad alcuna speranza di nuova generazione della verità cristiana dal rito inteso come immanenza creatrice, senza “logos”.  Il “logos” divino sussiste per sé, prima e dopo l’”actio”.  La liturgia sarebbe così un’altra vittima, dopo la catechesi, della deriva “attivistica” della teologia pratica.
Il movimento liturgico, dunque, come problema e come “chance”.

(Fonte: Pietro De Marco, Settimo Cielo, 15 marzo 2017)



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