La questione in gioco è molto
più di sostanza di quanto appaia. In una stagione, infatti, in cui il magistero
gerarchico è incerto o latita, sono proprio i testi liturgici a tramandare
integra la grande tradizione della Chiesa. E quindi è sulla fedeltà a questi
testi che si può attestare una “resistenza”. È ciò che scrive il professor Pietro
De Marco al termine di questa sua nota sulla vicenda liturgica postconciliare.
La nota sintetizza una sua molto più ampia relazione tenuta alla fine di agosto
del 2016 ad Assisi, all’annuale settimana di studio dell’Associazione
Professori di Liturgia, i cui atti sono in corso di pubblicazione (Sandro
Magister).
1.
ROMA FU ATTENTA, e fu la sua grandezza in decenni difficilissimi, nella tutela
del Concilio autentico, non del Concilio-progetto dell’intelligencija
teologica.
Già
nel 1965, a settembre, sulla fine del Vaticano II, Paolo VI si sentì in dovere
di palesare la sua “anxietas” sulla dottrina e il culto dell’eucaristia. Nell’enciclica
“Mysterium fidei” lamentava che “tra quelli che parlano e scrivono di questo
sacrosanto mistero, ci sono alcuni che circa le messe private, il dogma della
transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano opinioni che turbano l’anima
dei fedeli, come se a chiunque fosse lecito porre in oblio la dottrina già
definitiva della Chiesa”.
Meno
di tre anni dopo, nel maggio 1968, in occasione della pubblicazione delle nuove
preghiere eucaristiche, era lo stesso “Consilium” preposto alla riforma
liturgica a cedere al diffuso revisionismo teologico, nella circolare firmata
dal suo presidente cardinale Benno Gut e dal segretario Annibale Bugnini, in
cui, nello spiegare la teologia dell’anafora eucaristica, si leggeva (paragrafo
2, punti 2-3) :
“L’anafora
è la narrazione dei gesti e delle parole pronunziate nell’istituzione dell’eucaristia.
Ma [poiché] il racconto riattualizza ciò che Gesù fece […] si rivolge al Padre
la preghiera di supplica: che renda efficace questa narrazione, santificando il
pane e il vino, cioè, praticamente, facendone il corpo e il sangue di Cristo”.
Difficilmente
si poteva raggiungere, in un documento ufficiale, un grado così basso di
teologia eucaristica a vantaggio dei luoghi comuni del memoriale, delle mode
narrativistiche in esegesi, nonché di una coperta negazione del valore
consacratorio della formula dell’Istituzione, a vantaggio dell’epiclesi che la
precede.
Ma l’apice
antiliturgico sarà l’istruzione “Comme le prévoit” del gennaio 1969
sui criteri di traduzione del messale; arrivava addirittura a premettere
(n. 5) che il testo liturgico “è un mezzo di comunicazione orale. È anzitutto
un segno sensibile con cui gli uomini che pregano comunicano tra loro”.
Nonostante
le espressioni correttive (“Ma per i credenti…”), la formula equivoca su cosa
sia rito e i “principi generali” dell’istruzione, di conseguenza, riconducono
la teologia della liturgia sotto le regole di una filosofia pragmatica del
linguaggio (chi parla, come si parla, a chi si parla).
Si
eleva a sistema, stravolgendola, la prassi tutta pastorale della cosiddetta “messa
dialogata”: già essa un’espressione fuorviante, poiché non di “dialogo” sacerdote-popolo
si tratta, ma di “actio liturgica” essenzialmente rivolta a Dio.
La
stessa celebrazione “versus populum”, senza fondamento storico né teologico,
appartiene a questo clima, con gli effetti “disorientanti” che ne derivano.
Infatti l’asse cultuale-misterico, secondo cui e su cui Cristo celebra rivolto
al Padre, e il sacerdote e il popolo con lui, è annullato.
2.
VALE LA PENA di guardare da vicino la situazione dell’intelletto teologico alla
fine degli anni Sessanta e la sua influenza sulla riforma liturgica.
Alla
base stava, palesemente, un disequilibrio tra l’”in sé” rituale-misterico e
sacramentale, promosso dalle menti migliori del movimento liturgico, da un
lato, e l’istanza della partecipazione dei fedeli dall’altro, disequilibrio che
indebolisce già la costituzione “Sacrosanctum Concilium”.
Ma in
quegli anni l’intelligencija cattolica sottintendeva, quasi mai esplicitandolo,
molto di più.
Sottintendeva
che la teologia doveva essere inverata dall’azione, per analogia con la
cosiddetta filosofia della prassi, da Marx a Dewey. La liturgia era, per molti
del movimento liturgico, questa azione. Si pensa il rito come qualcosa che
genera la propria verità ed efficacia da se stesso, in quanto rito “umano”.
Ad
aggravare e disorientare il quadro del postconcilio interveniva dunque il
fatto che la “actuosa participatio” dei fedeli al rito portava con sé il carico
ideologico degli anni Sessanta-Settanta. Una dinamica antropocentrica e
secolaristica (favorita dal prestigio di Karl Rahner, ma autonomamente
coltivata in ambito francofono) prevaleva sulla concezione
rituale-misterica che santifica e trascende l’uomo e sola può fare della
liturgia “la fonte e il culmine” della vita cristiana.
Era il
collasso della grande teologia liturgica degli anni Trenta, di Odo Casel, di
Dietrich von Hildebrand, di Romano Guardini.
Caduto
il clima ideologico dopo gli anni Settanta, la sensibilità ecclesiale e la
teologia, nel suo complesso, dalla fondamentale alla pastorale, hanno compiuto
una rotazione dalla prassi all’ermeneutica, dal realismo delle concezioni
materialistiche del Vangelo alla teologia negativa, dalla militanza politica
alla “autenticità relazionale”.
La
pastorale liturgica si è adattata facilmente. La liturgistica ha lavorato sia
autonomamente che di conserva con le teologie, ma la ricerca ora
filosofico-linguistica ora antropologica ora, ma molto meno,
neo-personalistica, non poteva evitare la china: la perdita di realtà del
momento sacramentale e del dato soprannaturale come tali.
L’“engagement”
pedagogico-pastorale e l’indebolimento di cristologia, ecclesiologia e diritto
canonico oggi permettono che si faccia ovunque perno sulla “spontaneità”
formativa e in certa misura sull’autofondazione del cristiano e della
comunità. Così il vissuto della messa è divenuto “partecipazione”
socializzante a un incontro “festoso” più che festivo. La liturgia è assimilata
ai giochi di comunità.
E
appartiene a questo quadro il frequente squallore delle “nuove chiese”, non
pensate come “casa di Dio” ma come spazi a destinazione variabile, quindi senza
significato proprio; dispendiose vacuità in cui l’”actio liturgica” è, alla
lettera, spaesata e disorientata.
3.
COME ALLORA SI PUÒ RECUPERARE, controcorrente, l’intelligenza della
liturgia, umano-divina, regale e cosmica, in un’epoca in cui cristologia e
mariologia sono “umanizzate” su paradigmi emozionali, relazionali,
compassionevoli, impermeabili alla gloria e alla vittoria della Croce? In un’epoca
di nichilismo benevolente e di “falsificazione del bene”.
Lo si
può.
Infatti,
la liturgia e la pedagogia liturgica possono ancora trasmettere, se lo
vogliono, un corpo integro di rivelazione divina, quello contenuto nella “lex
orandi” correttamente intesa, quindi rigorosamente tradotta, non secondo “Comme
le prévoit” ma secondo “Liturgiam authenticam” (2001) che valutava
realisticamente oltre un trentennio di fatti e di errori.
La “lex
orandi” non è solo una formula. È un corpo integro di dottrina, è Tradizione
che oggi resta netta proprio nei testi liturgici, molto più che nelle teologie
e nello stesso magistero gerarchico recente. Non si tratterà di animare
assemblee dopolavoristiche o estatiche, o di realizzare delle nuove teatralità,
ma di far perno sulla resistenza veritativa della Rivelazione depositata nei
messali, nei breviari, e proclamata e attuata nella celebrazione responsabile.
La
tensione tra l’”in sé” del rito e la sua espressione “partecipata” esige
delle soluzioni teologiche rigorose, da cui soltanto possono discendere con
sicurezza le soluzioni pratico-pastorali. Non viceversa. Da qui due
avvertenze:
1.
senza fede certa nel “mysterion” come “substantia” e nel simbolo in quanto
epifania che apre intellettualmente e sensibilmente – con i sensi spirituali –
all’Oltre come trascendenza, ogni sfida teologica tipo “dall’etico al simbolico”
è già perduta in partenza;
2. non
ci si affidi ad alcuna speranza di nuova generazione della verità cristiana dal
rito inteso come immanenza creatrice, senza “logos”. Il “logos” divino
sussiste per sé, prima e dopo l’”actio”. La liturgia sarebbe così un’altra
vittima, dopo la catechesi, della deriva “attivistica” della teologia pratica.
Il
movimento liturgico, dunque, come problema e come “chance”.
(Fonte:
Pietro De Marco, Settimo Cielo, 15 marzo 2017)
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