martedì 22 giugno 2010

Quei preti in carriera che non piacciono a Benedetto XVI

«Il carrierismo, la ricerca del potere, era più di tanti altri mali, “il male” presente nella chiesa (soprattutto nel clero) che il cardinale Joseph Ratzinger aveva denunciato nelle meditazioni della via crucis del 2005 quando, poche settimane prima di succedere a Giovanni Paolo II, disse: “Quanta sporcizia c’è nella chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”.
Su questo tema Benedetto XVI è tornato più volte, ad esempio quando ha detto il 3 febbraio 2010: “Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa”.
Il Papa, in modo più potente, ne aveva parlato il 12 settembre del 2009, quando elencò le caratteristiche che non devono mancare nella vita del prete. A un certo punto disse: “Non leghiamo gli uomini a noi; non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente. Con ciò li introduciamo nella verità e nella libertà, che deriva dalla verità. La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune”. Leggi qui l’omelia per l’ordinazione episcopale di cinque nuovi sacerdoti.
Oggi, ancora, durante la messa per l’ordinazione presbiterale di 14 nuovi preti, poche ore dopo la notizia che il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, importante uomo-macchina del pontificato wojtyliano, ex segretario della Congregazione del clero, ex prefetto di Propaganda Fide, viene iscritto nel registro degli indagati a Perugia nell’inchiesta sulle grandi opere, il Papa ha ribadito il concetto di sempre: “Il sacerdozio, non può mai rappresentare un modo per raggiungere la sicurezza nella vita o per conquistarsi una posizione sociale. Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso. Il sacerdozio – ricordiamolo sempre – si fonda sul coraggio di dire sì ad un’altra volontà, nella consapevolezza, da far crescere ogni giorno, che proprio conformandoci alla volontà di Dio, «immersi» in questa volontà, non solo non sarà cancellata la nostra originalità, ma, al contrario, entreremo sempre di più nella verità del nostro essere e del nostro ministero”».
Fin qui l’articolo di Rodari. Ma – per inciso – quello che trovo inconcepibile nei preti, ancor di più che il desiderio del potere, è la brama di arricchimento. Mi sconcerta che ogni qual volta un prete muoia, lascia ai nipoti il vecchio miliardo di lire (una volta) o il milione di euro (adesso). Secondo me un sacerdote – per essere veramente coerente con la propria vocazione – dovrebbe arrivare alla vecchiaia solo con quanto gli assicuri una sopravvivenza dignitosa e al più quel tanto che serva al suo funerale! Altro che eredità ai parenti! Ci si accorge di questa sconvenienza più nei piccoli paesi che nelle grandi città; ma in entrambi i casi fanno comunque pensare lasciti di palazzine, vari appartamenti e di cospicui conti in banca. [ndr]

(Fonte: Blog Palazzo Apostolico, 21 giugno 2010)

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