giovedì 24 ottobre 2013

Papa Francesco: un messaggio “deculturato”?

Come giudicare le modalità del tutto inedite della comunicazione di papa Francesco? Quel suo parlare più con interviste che con encicliche?
Si può ipotizzare che questo papa venuto dalla fine del mondo risenta di quei processi di deculturazione del religioso che vede in campo religioni ormai deterritorializzate e deculturate a causa della globalizzazione e della “network society.” Religioni le quali pongono progressivamente sullo sfondo, fino a farle progressivamente svanire, le complesse mediazioni ermeneutiche storico-culturali in cui esse sono germinate.
È questo un fenomeno che coinvolge ormai anche il cattolicesimo, specie in America Latina, ove si manifestano e prendono sempre più forza movimenti carismatici, comunitari, de-istituzionalizzati, con forme di culto mistico-emozionali, che non sopportano dogmi, apparati, liturgie ordinate, nel nome di un esplicito rifiuto di un cristianesimo europeo-occidentale eccessivamente snervato dal razionalismo post-illuministico, e che sembrano ripetere, in modo quasi concorrenziale, il pentecostalismo carismatico americano che si avvia a divenire nuova religione globale proprio perché culturalmente sempre più neutra.
Se si assume una prospettiva di questo genere, appaiono evidenti le differenze fra papa Joseph Ratzinger e papa Jorge Mario Bergoglio.
Benedetto XVI ha sempre messo in guardia da una deculturazione del cristianesimo che recida i suoi legami col pensiero razionale greco. Come il prometeismo tecnologico produce le patologie della ragione, così la rinuncia al rapporto organico fede-ragione sviluppato dal pensiero teologico conduce a speculazioni arbitrarie e tendenzialmente fondamentalistiche.
Come Benedetto XVI sosteneva nel memorabile discorso di Ratisbona del 2006, è il corretto ragionamento a condurre alla fede, poiché “non agire secondo ragione è contrario alla natura stessa di Dio”. È questo – spiegò – il frutto migliore e imprescindibile dell’ellenizzazione del cristianesimo da parte dei Padri della Chiesa: nella “ratio”, intesa come organo di controllo e di chiarificazione dell’umano, si manifesta la luce divina.
Dio, infatti, “agisce mediante il Logos, che è insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione”. Questa lettura non rappresenta, agli occhi di Benedetto XVI, un’alienazione del messaggio evangelico, tale da confinarlo in un determinato ambito storico-culturale, ma è invece la norma universale da non smarrire per ogni ulteriore sua traduzione in ogni epoca e cultura.
Ogni cultura produce, infatti, una qualche forma di elaborazione teologica del rapporto fede-ragione, e quindi anche un’innata apertura al dialogo, capace di evitare sia le patologie della religione che quelle della ragione.
Papa Francesco, invece, sembra dubitare che la cultura del Logos in cui è maturato il cristianesimo possa ancora rappresentare la forma privilegiata ed universale del suo darsi nel mondo.
Vista la sua provenienza dall’America Latina, che sperimenta da anni un diffuso rifiuto di quel cristianesimo europeo-occidentale che avrebbe eccessivamente introiettato i processi di secolarizzazione, Francesco sembra partecipe di una forma di deculturazione del cristianesimo che privilegia la potenza sorgiva dell’annuncio evangelico depurato dalla gabbia di forme culturali storicamente determinate. La verità cristiana – ha scritto nella lettera a Eugenio Scalfari su “la Repubblica“ dell’11 settembre –  è “l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo e quindi una relazione che si dà a noi solo come un cammino e una vita”.
Al di là dell’enciclica “Lumen fidei”, d’impianto ancora ed esplicitamente ratzingeriano, che ripercorre il canone culturale ellenistico secondo cui ragione e fede reciprocamente si illuminano, è evidente che la forma preferita dell’annuncio evangelico per papa Francesco non è l’enciclica o la lezione, ma piuttosto l’omelia, la lettera, l’intervista.
È lì che il suo discorso sgorga nuovo ogni volta come fosse la prima volta, improntato alla speranza nella grazia di Dio che sempre si manifesta, e non si lascia intrappolare nelle forme dottrinali tradizionali di un cristianesimo che spesso gli sembra assumere le forme di un “gioco intellettuale”, di una “arida casistica morale”, di una “ideologia”.
Più che come maestro, papa Francesco si presenta come testimone di una mistica dell’incarnazione che sollecita a “pensare con la carne e con il cuore ed a pregare con la carne e non con le idee”: così in una sua omelia mattutina a Santa Marta dei primi di giugno.
Per papa Francesco – si veda la sua intervista a “La Civiltà Cattolica“ – l’annuncio dell’amore salvifico di Dio precede (e vanifica?) ogni sicurezza dottrinale, ogni compendio di verità astratte, ogni obbligazione morale e religiosa derivanti da “un tomismo decadente”, e produce invece “un’aura mistica” che non definisce mai i bordi del pensiero, ma invita, secondo quello che a lui appare il vero messaggio ignaziano, alla “sapienza del discernimento che riscatta la necessaria ambiguità della vita”, e apre a una “santità quotidiana” cui tutti possono aspirare.
 

(Fonte: Pietro L. Di Giorgi, Settimo cielo, 19 ottobre 2013)
 

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