Nell’imminenza
del Natale di Gesù, si moltiplicano, da parte del laicismo e dell’agnosticismo
giornalistico, televisivo, salottiero e “stradaiolo”, le discussioni imperniate
sulla rappresentazione di questo misterioso evento come di un pasticcio mitico,
creato ad arte dalla Chiesa in sostituzione di altri miti precedenti.
Crediamo,
però, che proprio l’autenticazione documentale del 25 dicembre, come verificato
riporto di una tradizione che nasce ab antiquo, dia alla stessa
tradizione il sigillo probativo e certificante un evento che viene, purtroppo
anche da esponenti del clero, relegato ora nel mito ora nel simbolismo.
Per
questo abbiamo creduto opportuno stilare questo breve quadro perché si tenga
conto di alcuni aspetti che, nella maggior parte della pubblicistica, vengono
trascurati o interpretati con la lente del deleterio metodo storico/critico
/scientifico.
I
fatti sono questi: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte
dei costoni prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare,
manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto –
riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici appartenuti alla
comunità essenica che, a ridosso del 70 d.C., ai primi segnali della
distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e della caduta della rocca di
Masada, aveva messo in salvo la propria biblioteca nascondendone i
rotoli, appunto, nelle giare interrate sotto strati di sabbia. Tra questi
documenti figura una Cronaca o Libro dei Giubilei (Masḥafa Kufālē) redatta nel II sec. a. C. In essa – come
attesta I Cronache 24,10 – è riportata la successione
delle 24 famiglie o classi sacerdotali che debbono prestare servizio al tempio,
da un sabato all’altro.
Questo
rotolo, tradotto nel 1958 dall’erudito Shamarjahu Talmon, dell’università
ebraica di Gerusalemme, che ha messo in rapporto la cronologia ebraica con il
calendario gregoriano, ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva
Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era VIII nell’ordine di turnazione e
svolgeva il servizio in due periodi: 24/30 marzo e 24/30 settembre.
I primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i
cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25
dicembre, e sono attestazioni piuttosto autorevoli e di
accertata autenticità se si pensa che, per circa 100 anni, la successione
apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai
diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò
significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del
natale di Cristo.
Torniamo,
però, al Libro dei Giubilei. Esso conferma la tradizione
della Chiesa paleocristiana in maniera assai netta e indiscutibile. Facciamo
allora due conti: Zaccaria entra nel Tempio per il turno a lui spettante (Lc.1,1/25)
il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno
della cerimonia dell’incensazione, riceve, dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio
del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi,
circa, il 24 giugno nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva
celebrava già in questa data. Ora tale elemento ci consente di avanzare
altre conclusioni. Maria di Nazareth (Lc. 1,26/38) apprende
dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente,
il messaggero le comunica che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto
mese di gravidanza per cui nel 24/25 marzo si fissa la data del divino
concepimento e, nel frattempo, si certifica che Elisabetta ha concepito
nell’ultima settimana di settembre. Maria va in visita della congiunta e
l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni. Tre mesi da Elisabetta e
altri sei a Nazareth dànno il 25 dicembre quale compimento della divina
gestazione e, perciò, giorno della nascita di Gesù.
Due
sono le obiezioni che si oppongono a questo ragionamento, e particolarmente
quelle riferite ai pastori e allo stesso periodo di servizio di Zaccaria.
Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che non possibile
che, nel mese di dicembre, a Bethleem paese posto ad 800 m d’altezza, con un
clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su
quegli altipiani. Tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto
nei mesi estivi dell’alpeggio. La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole.
Il TALMUD, uno dei più importanti – seppur nefasti – testi del giudaismo
rabbinico, nel trattato MAKKOTH 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt)
di cui 248 obbligatori o positivi e 365 divieti o negativi. Il testo in
questione fu redatto tra il II e il VII sec. d.C. e riporta antichi precetti e
divieti mosaici. Tra questi vi son quelli che contemplano il tema della “purità”
degli animali. Ed ecco che, per quanto concerne le pecore, il Talmud le
classifica in tre categorie di purezza: 1) pecore bianche totalmente pure che,
al ritorno dal pascolo, possono stazionare all’interno della città e accanto
alle mura, sotto tettoie e negli stazzi; 2) pecore pezzate, pure a metà, che
non possono entrare nel centro abitato dovendo, perciò, sostare all’esterno
e a ridosso delle mura; 3) pecore interamente maculate che non possono
avvicinarsi alle mura e debbono, pertanto, restare nei pascoli. Ciò spiega come
i pastori (Lc.2,8/12) che accorsero all’invito degli angeli fossero
nella località, e nessuno può pensare che fossero all’aria aperta perché
avranno avuto riparo – come è costume dei pastori – in capanne col gregge
riunito negli stazzi e al coperto delle tettoie di frasche e paglia. A smontare
un’ eventuale obiezione circa la veridicità che fosse una notte invernale sta
l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero di turno a guardia
delle greggi.
Ora,
siccome nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Bethleem, sono molto
corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si diano il turno, cosa
invece credibile se solo si pensi alla lunghezza e alla glacialità delle notti
nel solstizio invernale. Da ciò ne deriva che il servizio di Zaccaria non può
essere stato espletato nel periodo fine marzo- primi di aprile, ma in
fine settembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa
non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a
celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Ma noi sappiamo che la
Tradizione ha basi storiche molto solide che, spesso, travalicano la
comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi
contenuti.
Un’ultima
considerazione che reputiamo importantissima poiché tende a rimettere i
termini di una questione nei giusti parametri e perimetri storici spegnendo
ogni altra qualsiasi farandola che ancora gironzola negli ambienti
intellettualoidi alla Corrado Augias. Mi riferisco alla “vexata quaestio” che
vede la Chiesa cattolica imputata, e quindi responsabile, dell’erasione della
festività mitraica dedicata al Sole vittorioso, cioè il famoso “Sol
invictus” nonché dell’inglobamento della stessa ricorrenza
solstiziale, tramite operazione sincretistica, nel contesto natalizio
cristiano. Le cose non stanno così, primo: perché la Chiesa non compie mai operazioni
sincretistiche ma soltanto di bonifica (sono semmai taluni uomini di chiesa dei
nostri tempi che amano giocare con miti e antropologìa); secondo: perché i
fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma – con i suoi imperatori – che
tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare
ed oscurare la festività cristiana di molto precedente.
Ma
scrutiamo la storia: il culto del DIO SOLE era stato
introdotto a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con
le sue legioni dall’oriente, ma ufficializzato per la prima volta da Aureliano
(214 – 275) soltanto nel 274, il quale proprio il 25 dicembre dello
stesso anno consacrava un tempio dedicato al culto del Sol Invictus.
La festa pagana prese in tal modo il titolo dal giorno di nascita, o di
risalita, del “Sole invitto”, le cui cerimonie cultuali apparvero a Roma
soltanto sul finire del III sec. Stranamente, ma è così, ancora durante
il regno di Licinio (imperatore dal 308 al 324), il culto alla divinità solare
veniva celebrato, a Roma, il 19 dicembre e non il 25 dicembre. Questa festa,
nell’Urbe come altrove, era celebrata in diverse date dell’anno tra cui,
spesso, il periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di
Gesù – come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come
dimostra l’antico calendario dei martiri, la “Depositio Martyrum”(336) –
ad occupare il giorno 25 dicembre a danno della festività mitraica, ma furono
gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il
culto della nuova divinità, provarono a scalzare la nuova religione cristiana e
la sua più importante manifestazione.
(Tratto
da: Luciano Pranzetti, Alcune cose sul Natale, Riscossa Cristiana, 13 dicembre
2016)
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