giovedì 13 novembre 2014

“Per sora nostra morte corporale”. A proposito del suicidio assistito di Brittany Maynard

Sabato primo novembre Brittany Maynard, ventinovenne di San Francisco, ha posto fine alla sua vita ingerendo un cocktail letale, secondo quanto prescritto dal protocollo medico-legale per il suicidio assistito dello stato dell’Oregon (dove l’eutanasia è legale). Colpita da un terribile cancro al cervello, diagnosticatole a gennaio, Brittany vi si era appositamente trasferita col marito Dan e la famiglia, per dare corso alla sua decisione, prima che la malattia la debilitasse del tutto.
La vicenda ha scosso l’America, perché la giovane l’ha annunciato dal suo blog e in un’intervista per il settimanale People. Nove milioni e mezzo di persone hanno visto il video su Youtube. Brittany vi racconta la sua vita, l’amore per i viaggi, il desiderio di avere figli, il matrimonio con Dan e la scoperta di essere condannata a morte da una malattia che le avrebbe devastato corpo e mente.
Brittany ha voluto offrire il suo esempio affinché la possibilità di ricorrere al suicidio assistito sia offerta a tutti i malati terminali che vogliono morire con dignità e non solo a chi ha i soldi per trasferirsi in Oregon o negli altri tre Stati che ammettono questa pratica” ha dichiarato Annie Singer, portavoce di Compassion & Choices, l’organizzazione che si batte negli USA per la legalizzazione dell’eutanasia in tutti gli stati.
Il dibattito
La vicenda è divenuta un evento mediatico che ha attirato l’attenzione di stampa e televisione, scatenando un acceso dibattito anche in Italia.
Mons. Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la vita, ha deplorato il suicidio della signora Maynard, precisando: “Non giudichiamo le persone, ma il gesto in sé è da condannare”. Ha, quindi, spiegato che il suicidio assistito non può essere considerato “una scelta dignitosa  seppure non possiamo sapere “quello che è successo nella coscienza”. “Questa donna – ha scritto ancora il prelato – ha agito pensando di morire dignitosamente, ma è qui l’errore: suicidarsi non è una cosa buona, è una cosa cattiva perché è dire no alla propria vita e a tutto ciò che significa rispetto alla nostra missione nel mondo e verso le persone che si hanno vicino.
A mons. Carrasco ha risposto sul Foglio Adriano Sofri giudicandone contraddittoria l’argomentazione, in quanto tenterebbe di tenere assieme il “non giudicare” – il “chi sono io per giudicare” – e la condanna. Il “gesto in sé – ha affermato – separato dalla persona di chi conclude la vita, è, in parole povere, una sciocchezza. Se la chiesa intende trattare il suicidio alla stregua di un omicidio, e la stessa eutanasia come un omicidio, potrà dire di un omicidio cosiddetto comune che non ne condanna l’autore, ma il gesto in sé?”. “Io inclino – ha concluso Sofri – a distinguere fra un suicidio comunque motivato – che può addolorarmi e magari spingermi a provare a dissuaderlo, non a trovare obiezioni radicali – e un suicidio di una persona che sa di dover morire presto, penosamente e spogliata della propria intelligenza”.
L’occultamento della morte e l’amore che redime
Oggi la morte è divenuta un tabù. Sottratta allo sguardo pubblico, è occultata, come se fosse qualcosa di indecente. Ai ragazzi in un’età sempre più immatura si parla di sesso, di riproduzione, di pratiche antifecondative, ma mai di morte. Tanto meno li si mette a contatto con essa. La morte è relegata nei luoghi preposti al dolore: l’ospedale, il cimitero, luoghi interdetti alle pratiche sociali. E chi muore è sempre più solo e sopporta un peso che gli altri non vogliono condividere.
Abbiamo fatto dell’autodeterminazione il nostro dio e, quando la incontriamo, facciamo esperienza di qualcosa che non solo restringe la nostra possibilità di vita, ma che soprattutto non è frutto di scelta. Essa resta sempre qualcosa cui non ci si può sottrarre e anche la nostra scienza sa prolungare al massimo la vita dei malati, ma ignora come prepararli a morire.
A fronte di questa estrema incongruenza abbiamo resuscitato il mito stoico del suicidio. Lo abbiamo aggiornato ai nostri sofisticati strumenti ermeneutici e ai registri di una medicina che ha smarrito la sua prima finalità (di guarire). Gli abbiamo dato il nome di eutanasia, ovverosia morte dolce. Affermiamo che la libertà raggiunge il suo apice nell’ottenimento del diritto di decidere della propria morte, ma non è che un modo per aggirare la vanificazione di tutte le nostre strategie esistenziali.
Emerge in tutto questo, infatti, l’incapacità di dare senso alla morte, che è poi incapacità di dare senso alla vita. Perché “la mortalità – come ha scritto Hans Jonas – è una caratteristica integrale della vita e non una sua estranea e casuale offesa”. Ma i fautori dell’eutanasia hanno bypassato questo problema, perché fanno leva piuttosto sulla qualità della vita, come se si potesse prescindere dal quale reale della vita, che sta proprio nella sua peribilità, nel suo essere esposta, nella sua indigenza ontologica.
La verità scevra di ogni retorica è che, oggi come ieri, l’uomo è impotente di fronte alla morte.
Pertanto, il rifiuto di riconoscere i limiti biologici nasce da un colossale fraintendimento, da una caduta di qualità del nostro sapere. Come vogliamo guidare i processi della generazione, così intendiamo programmare quelli della morte, assoggettandola alla nostra volontà. Resta che la morte non è una nostra “facoltà”; anzi, nel suo essere imponderabile ed indisponibile, è un secco no alla nostra libertà.
Nulla, infatti, può la libertà, né tanto meno quella sua declinazione più angusta e individualista che si suole chiamare autodeterminazione, a fronte della morte. Dura e refrattaria essa ammutolisce ogni discorso e lo supera con il suo silenzio. Così la nostra cultura dell’autodeterminazione appare contrassegnata da un’incondizionata rassegnazione e resa di fronte alla morte.
Avremmo bisogno di sperare, ma abbiamo smarrito le fonti stesse della gioia e dello stupore. Avremmo bisogno di fiducia, ma siamo sovrastati da un’indolente superbia.
Ci resta l’amore; e non è poco.
La morte e l’amore, infatti, sono pari. La morte è uno scandalo, ma anche l’amore lo è.
Ora, l’amore dichiara battaglia alla morte e mostra di poter vincere, perché nella vivezza della sua forza suscitatrice si rivela più forte della morte. Sono forzati i confini dell’al di là nell’al di qua, perché l’amore fa sì che il mondo venga destato ad una vita nuova, vivificato. Nella sua gratuità mostra, infine, di non essere frutto dei nostri conati o delle prescrizioni di una morale stanca, ma di venire da un altrove e, proprio per questo, di poterci di redimere dalla nostra solitudine.
 

(Fonte: Clemente Sparaco, Riscossa Cristiana, 12 novembre 2014)
http://www.riscossacristiana.it/per-sora-nostra-morte-corporale-proposito-del-suicidio-assistito-di-brittany-maynard-di-clemente-sparaco/

 

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