La
vicenda della morte di Dj Fabo, che non è riuscito a trovare la forza di
continuare a vivere, genera in
chiunque sentimenti di compassione e di tristezza. Sentimenti di compiacimento
o di vittoria appaiono assolutamente fuori luogo.
Dinanzi
alla sua dolorosa vicenda, che comunque chiede rispetto, tanti si preoccupano di trasformare subito la sua
scelta in una questione di diritti politici. Per me la sua vita
pone, invece, primariamente la
questione se l’esistenza di tutti, che necessariamente prima o poi incontra il
dolore irreparabile, abbia un senso.
La questione dei diritti non è quella decisiva, anche se è quella che è sulla
bocca di tutti. Vale la pena dire solo una breve parola su di essa per giungere
poi alla questione che interessa
tutti (anche se viene esorcizzata proprio parlandone solo politicamente): cosa
fare del dolore quando bussa e busserà alla porta del nostro corpo?
1/ La questione politica
A livello politico è un non senso un preteso diritto
al suicidio (questa prospettiva più ampia permette di capire meglio cosa si
intenda poi per eutanasia). Si può parlare, semmai di una non punibilità, analogamente a quanto
avviene, ad esempio, per l’aborto. Per la 194 l’aborto non è un diritto, perché lo Stato promuove la
vita: piuttosto, riconoscendo l’estrema difficoltà di alcune gravidanze,
mentre si impegna a fornire ogni mezzo perché sia salvato il bambino, non si
accanisce con chi non riesce ad accettare la creatura, sana o malata che sia.
Solo
una concezione distorta del diritto può portare a reclamare un diritto al
suicidio: perché parlare di
diritti implica parlare di cose buone e giuste, come il diritto al lavoro, allo
studio, alla libertà e così via.
Parlare
di diritto al suicidio vuol dire
utilizzare il linguaggio dell’individualismo.
Se io mi suicidassi, non mi avvarrei di un diritto:
al contrario verrei meno a qualcosa,
creando problemi ai miei fratelli, ai miei amici, alle persone che hanno
bisogno del mio lavoro, della mia disponibilità, della mia vicinanza, della mia testimonianza che vale la pena
vivere. Se invece un depresso si suicidasse, questo, pur non essendo un
diritto, sarebbe un dato che si dovrebbe tristemente talvolta accettare,
senza infierire oltre.
Chi è vissuto a fianco di un suicida e conosce le
conseguenze di tale gesto nella vita dei familiari, segnandoli per sempre, si
accorge subito che il gesto di morire prima del tempo ferisce chi resta, non
essendo solo qualcosa di individualistico.
Il
suicidio porta dolore nei cuori e toglie l’apporto di una persona alla società
intera. Lo Stato può accettare il
fatto che un depresso non riesca più a vivere, ma senza chiamare questa scelta
“diritto”. Compito della comunità sarà, invece, sempre quello di fare di tutto
perché la persona non giunga a quel passo irreparabile: è un dovere trasmettere
nell’educazione passione per la vita, in qualsiasi condizione, e non proclamare nelle scuole che è la stessa
cosa continuare a vivere o uccidersi. L’estrema difficoltà di singoli casi
estremi non può portare a riconoscere surrettiziamente un diritto della persona
a morire quando lo ritenesse giusto. È opportuno, invece, chiedere
che lo Stato spinga sempre ad avere comprensione e rispetto, evitando al
contempo procedimenti punitivi. Chi sa noi stessi se saremmo capaci.
2/ La questione della vita
Ma la
vera questione, come si diceva, non è quella politica, bensì quella della vita
stessa. Tale questione emerge in
particolare nel caso di un giovane come Fabiano Antoniani. Broker,
assicuratore, amante del motocross, dei viaggi, della musica, della sua
fidanzata, dj noto e appezzato. Per prendere il cellulare che gli era caduto
dalle mani perde il controllo della vettura e, nell’incidente, si ritrova cieco
e tetraplegico, cioè immobilizzato, a 36 anni.
Credo sia questo che colpisce i ragazzi e tutti noi.
La vita giovane non è detto che duri, anzi è certo che non durerà, perché prima o poi, quando
meno ce lo aspettiamo, per una
futile distrazione legata all’iPhone, ci potremmo ritrovare in condizioni
diverse da quelle della nostra giovinezza spensierata. Che fare allora?
Cosa dice l’incidente e la malattia di dj Fabo a chi
stasera va in discoteca? A chi ama la musica, le donne, il motocross, i viaggi?
Cosa è la vita? Cosa bisogna farne prima che
il corpo non risponda più e cosa bisogna farne una volta che non risponderà
più?
Questa domanda che tutti sentiamo nella pancia è ben
addomesticata dalla discussione politica. Tutti sembrano limitarsi a dire: sul
senso della vita sbrigatela tu, a noi interessa solo dirti che se trovi un
senso alla vita puoi vivere, altrimenti suicidati, perché noi, adulti, giornalisti, politici, ci
preoccupiamo solo di fornirti uno spazio di libertà, ma se tu deciderai di
vivere e morire a noi non interessa niente.
Ovviamente vorrei parlare a lungo, con te lettore,
di come si possa affrontare il male che bussa alla porta, perché io voglio,
invece, che tu decida di vivere e
che non sia equivalente l’una o l’altra scelta, quasi fosse ognuna solo una
possibilità identica all’altra. Se vuoi potremo incontrarci e parlarne.
Ho desiderio, però, di evocare tre figure, perché
dobbiamo attingere alla ricchezza di chi ha già riflettuto su queste cose,
vedendo la propria generazione gioire, ammalarsi e invecchiare, affrontando nella propria
carne la gioia come il dolore.
Innanzitutto Qoèlet. Questo antico autore ebreo afferma
che tutto è vanità e un inseguire il vento, che la giovinezza e i capelli neri
sono un soffio, che ciò che è stato fatto si rifarà e che non c’è mai niente di
nuovo sotto il sole, che buoni e cattivi tutti siamo obbligati a morire.
Ma, mentre mostra che dell’uomo
non c’è molto da fidarsi, anche se bisogna a suo dire godere dei piaceri
passeggeri della vita, ecco che si volge a una via d’uscita: se l’uomo è
troppo debole per farvi affidamento, il Signore invece è verità e lui giudicherà
ogni azione. Qoèlet esce dallo
scetticismo e dal relativismo che rende in fondo indifferente ogni scelta nella
vita dicendo di credere in Dio. Strano scettico Qoèlet! Uno scettico che
diffida dell’uomo, pur amandolo, mentre si fida di Dio.
Poi
Giobbe. Giobbe passa, come dj
Fabo, dal successo alla malattia grave, incapace di godere più di alcuna cosa.
Vengono a visitarlo degli amici che prima stanno in silenzio, ma poi iniziano a
fargli la morale, quasi a pretendere che egli debba essere felice
della sua infermità. Quanti stupidi
moralisti tocca sentir parlare dinanzi ad una disgrazia come quella di un
incidente che ti rende cieco e paraplegico. Ma Giobbe non si arrende e se la prende con Dio, da lui vuole una
risposta, perché sa che quella degli uomini non sarà mai sufficiente. Il
dolore, in fondo, non ha alcun senso se l’uomo è solo e Dio non esiste. E con
il dolore non ha alcun senso la vita. Dio finalmente risponde: Che ne sai Giobbe della vita? Eri presente
quando ho fatto il mondo? Tu pretendi di giudicare me, tu che non sai badare a
te stesso? Anche Giobbe è uno strano scettico: alla fine l’aver ascoltato Dio
sembra bastargli, anche se egli in fondo non ha spiegato nulla, quasi
intuendo una promessa in quel suo dire. Forse aveva ragione il poeta: “In sua
voluntade è nostra pace”.
Infine Gesù. Egli rifiuta la droga sulla croce sulla
quale è inchiodato senza via di scampo. Non vuole alterazioni di stati di
coscienza, né accelerazioni della fine. Prega: “Dio mio, perché mi hai
abbandonato”. Ma al contempo perché Dio perdoni i suoi persecutori,
affidando i suoi ultimi attimi, il suo stesso spirito, a Dio, il Padre. In
realtà, egli aveva già dato la sua vita e la sua sofferenza nell’ultima cena:
non il dolore gli strappa la vita, ma egli stesso l’aveva donata.
Diversi
certo Qoèlet, Giobbe e Cristo, ma certo non infervorati dalla questione dei
diritti al suicidio. Piuttosto dalla domanda su Dio e sulla vita. Diversi anche perché nell’ultimo dei tre il
dolore non trova senso nella sofferenza che provoca, bensì perché diviene
espressioni di un senso e di un amore appresi altrove e più in alto, ma anche
più in profondità.
Offrire il dolore, come si offre ogni gioia, come si
offre tutta la vita, dicevano i nostri anziani, che qualcosa avevano capito. Non farla finita, ma a chi
offrirla.
Se
quell’offerta non è vera, sei fregato, dj. Se quell’offerta è vera, dj, puoi invece diventare libero. Per
questo non solo parliamo su di te, ma parliamo di te a chi ascolta
(Fonte:
Andrea Lonardo, Gli Scritti, 27
febbraio 2017)
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