Si sa
che rimedi sbagliati vengono da diagnosi sbagliate che possono solo peggiorare
i mali. E si capiscono i danni che ne possono conseguire se uno degli esempi
più lampanti di questo errore è l’analisi sulle violenze e gli omicidi di
coppia sbattuti continuamente sui giornali che li incasellano
semplicisticamente con il termine “femmincidio”. Sebbene si tratti di tutto
meno che di questo.
Cominciamo chiarendo che la parola “femmincidio” è stata inventata dalla
femminista e comunista messicana Maria Marcela Lagarde, che descrisse i delitti
di mafia avvenuti agli inizi degli anni Novanta a Ciudad Jarez, dove furono
uccise diverse donne, a suo parere solo per il fatto di essere femmine. A parte
il fatto che il narcotraffico cittadino aveva mietuto vittime per l’80 per
cento di sesso maschile e che le stesse femmine erano fra i sicari (“Noi
donne lo facciamo per il denaro. Mi misi a uccidere a tempo pieno”,
confessò Maria del Pilar Narro Lopez al Corriere della Sera nel
2011), è evidente l’errore grossolano con cui si definisce
"femmincidio" qualsiasi omicidio di una donna. E’ infatti illogico
ritenere che se ad essere uccisa è una femmina significa che il movente
dell’omicidio sia per forza il suo sesso di nascita.
Alla luce di questa considerazione bisogna poi guardare ai dati
reali e complessivi degli omicidi in Italia. Perché, come ha ricordato lo
scorso giugno anche la femminista Paola Tavella, “su molti giornali, blog
e comunicati si scrive in questi giorni che dall'inizio del 2016 i femminicidi
sarebbero 58. Invece sono 36”. Mentre i dati del Viminale “fanno addirittura pensare
che nei primi cinque mesi del 2016 il fenomeno sia sceso del 20 per cento
rispetto allo stesso periodo del 2015”. Ma anche in questi casi è
imprudente sostenere che in questi delitti l’uomo uccide la donna perché odia
la femmina in quanto tale.
Il problema, infatti, è più complesso e risiede più
facilmente, come
ha spiegato nel suo libro "Il maschio fragile" lo
psichiatra criminologo Alessandro Meluzzi, “nella coppia”. In una violenza e un
possessivismo patologico con cui si pretende dall’altro la soddisfazione di
tutte le proprie aspirazioni. Non c’entra nulla dunque la natura dell’uomo orco
sempre più descritta nell’immaginario come incompatibile con quella della
fragile fanciulla. Infatti, a pensare che il femminismo, che ora si batte
contro il “femmincidio”, non ha fatto altro che fomentare l’idea della donna
oggetto nel momento in cui ha slegato l’atto unitivo da quello procreativo
all’interno del matrimonio, è ancor più sconcertante vedere quanto male faccia
alla famiglia alimentare l’idea che il sesso maschile, propenso al dominio,
abbia qualcosa di bacato in sé per cui deve essere arginato nel suo ruolo di
comando.
Non a caso Meluzzi spiega come il “maschio fragile” che uccide la sua donna
ha spesso alle spalle un background familiare in cui il legame con la madre è
preponderante e patologico a discapito di quello paterno la cui figura è posta
in secondo piano. Il problema reale consiste quindi in un ribaltamento dei
ruoli e perciò in un’incapacità dell’uomo e della donna di vivere un’alleanza.
Il che inasprisce e infragilisce i rapporti fra coniugi, rendendo di
conseguenza deboli anche i figli. Perciò l’errore più grave nel cercare di
fermare questa spirale di violenza è proprio quello di vittimizzare la donna,
come conferma anche Meluzzi. I figli, infatti, imparano ad avere il senso del
limite e ad accettare il “no” e le frustrazioni solo nel momento in cui il
padre pone dei limiti, a cui la madre è la prima a non doversi “ribellare”,
come spesso invece fa in nome dell’emancipazione.
A descrivere perfettamente i danni di questa
ribellione, poi
alla base della rivoluzione sessuale, fu l’enciclica "Casti Connubii"
di Pio XI, il quale mise in guardia dalla falsa “emancipazione sociale,
economica, fisiologica; fisiologica in quanto vogliono che la donna, a seconda
della sua libera volontà, sia o debba essere sciolta dai pesi coniugali
(…)", perché questa è invece corruzione dell’indole muliebre e della
dignità materna”. E quindi è “perversione di tutta la famiglia”.
Di più, perché il pontefice profetizzò che “questa falsa
libertà e innaturale eguaglianza con l’uomo” sarebbero tornate “a danno della
stessa donna; giacché se la donna scende dalla sede veramente regale, a cui,
tra le domestiche pareti, fu dal Vangelo innalzata (...) ridiventerà, come nel
paganesimo, un mero strumento dell’uomo”. La stessa Edith Stein, poi
santa Benedetta dalla Croce, che in “La donna” descrive la sublimità
della creatura femminile, spiega che la femmina, sensibile alla procreazione e
all’amore più che l’uomo, è maggiormente tentata nel “cadere in una semplice
vita istintiva. E quando ciò avviene essa diventa seduttrice che spinge al
male, mentre la sua missione specifica sarebbe la lotta contro il male”. In
questa lotta, continua Stein, l’unico rimedio è la devozione a Cristo nella
preghiera e nell’Eucarestia che le dona l’amore a cui tanto aspira rendendola
docile e amorevole a sua volta, così “poi deve onorare, con libera e amorosa
soggezione, l’uomo immagine di Cristo”.
Anche perché la sottomissione, che chiama la donna a servire
e ad essere collaboratrice di Dio servendo e sostenendo il marito nella guida
della famiglia, realizza pienamente la natura femminile, come spiega bene san
Francesco di Sales nell’”Introduzione alla vita devota: “In tutta
la Sacra Scrittura si raccomanda insistentemente questa sottomissione (…) non
solo perché vi chiede di accettarla con amore, ma perché raccomanda ai vostri
mariti di fare la loro parte, con grande amore, tenerezza e dolcezza: Mariti,
dice S. Pietro, abbiate un comportamento discreto con le vostre mogli, perché
sono fragili come vasi di cristallo; e portate loro onore”. In poche righe
si capisce che solo una donna disposta a seguire il marito valorizzandone il
ruolo può ottenere una guida amorevole e salda in cui rifugiarsi. Al contrario
l'alleanza si spezza con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.
(Fonte:
Benedetta Frigerio, La Nuova BQ, 18 gennaio 2017)
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