giovedì 21 febbraio 2008

Argomenti da sacrestano - L’anticlericalismo démodé di Marco Politi


Marco Politi è vaticanista di Repubblica: sarebbe sufficiente questo per inquadrare la sua militanza politica e ideologica, se non dovessimo ricordare gli sgradevolissimi libelli ‘Io, prete gay’ e ‘La confessione. Un prete gay racconta la sua storia’, grazie ai quali ha meritato e merita tutt’oggi d’essere invitato a tutti i programmi e le conferenze in cui si attacca l’odiata Nemica del progresso e il suo tiranno che siede in Roma. Gli scoop monotematici di Politi sono mossi da un’avversione teologica alla concezione tradizionale della Chiesa Cattolica e - lungi dal denunciare l’immoralità del clero di cui squaderna con compiacimento le miserie - cercano di accreditare la tesi di una chiesa parallela, moderna e progressista, libera da vincoli di dottrina e di morale, una setta pauperista e sodomita che lotta fieramente contro la Gerarchia, sorda alla voce del secolo. Ovviamente questa “chiesa” vagheggiata da Politi altro non è se non un’accolita di ribelli e viziosi di varia estrazione, che adattano la fede e la disciplina cattolica al proprio gusto e ai propri difetti: l’indocile rifiutando l’obbedienza ai Sacri Pastori, l’impuro negando il Sacro Celibato e addirittura il Sesto Comandamento, l’eretico dando alle fiamme il Magistero infallibile dei Pontefici. Queste deviazioni hanno piagato il Corpo Mistico a iniziare da Simon Mago per finire con Vito Mancuso, trovando nei Sommi Pontefici, da San Pietro a Benedetto XVI, i difensori dell’ortodossia cattolica e i custodi del depositum fidei. Non fa stupore che un sostenitore di questi antichi e nuovi ribelli abbia in odio l’indomito Pio IX, il Papa del Sillabo, dell’Immacolata Concezione, della condanna del laicismo massonico ottocentesco: anche Garibaldi e Carducci non lo potevano sopportare e si scagliavano con turpe linguaggio contro il cittadino Mastai, eccitando gli animi dei sediziosi fino a cercar di gettarne le spoglie nel Tevere durante i funerali. Anche quei personaggi non agivano con purezza d’intenti, ma al solo scopo di appropriarsi di quel potere temporale che volevano usurpare al Pontefice: non per negarlo tout court, ma per usarlo a proprio vantaggio. Così la violenza contro il Papa Re riuscì a usurpargli il regno, imponendo la tirannia del pensiero massonico nelle scuole, nelle istituzioni, nell’esercito; un pensiero farcito della ributtante retorica del Risorgimento perseguito a colpi di baionetta contro i popoli fedeli al Papa e a colpi di gazzette nelle province di un’Italia da unire sotto la stella capovolta dei Savoia. Anche San Giovanni Bosco fu oggetto dei furibondi attacchi dei liberali e dei massoni, allora aiutati dai seguaci di Valdo e di Lutero e finanziati da banchieri e mercanti desiderosi di metter le mani sul patrimonio della Chiesa: le soppressioni della legge Rattazzi (1855) misero all’asta conventi, monasteri e Chiese, profanandoli e facendone stalle, officine, caserme. Così Marco Politi rispolvera il repertorio anticlericale di quell’epoca vergognosa e si scaglia contro Benedetto XVI: “Benedetto XVI si è presentato nella basilica vaticana con la mitria di Pio IX e il piviale di Giovanni Paolo II. Assiso sul trono, non evocava l’immagine di un pellegrino della fede, bensì l’icona di un papato imperiale. Nei pesanti paramenti aurei era riflessa l’ostinata volontà di tenere insieme la Chiesa del Sillabo e la Chiesa del mea culpa, il papato che riaprì il ghetto di Roma e il papato che a Gerusalemme nel 2000 ha domandato perdono per l’antisemitismo, il cattolicesimo dell’assolutismo papale e quello del “popolo di Dio” celebrato nel concilio Vaticano II”. È’ tipico dei nemici di Cristo - esterni ed interni al mondo cattolico - cercare un’opposizione artefatta tra i Papi, secondo la dottrina ereticale che individua una Chiesa preconciliare soppiantata da una presunta chiesa postconciliare ad essa contraria. Dice Politi: “Torna continuamente, insomma, la volontà di negare il carattere di svolta e, per certi aspetti, di rottura del Concilio Vaticano II”, ed è chiaro che il Magistero di Benedetto XVI ha condannato senza equivoci questa teoria, fatta propria anche da non pochi ecclesiastici indottrinati alla scuola del modernismo. Ma senza nulla togliere alla gravità delle accuse di Politi, dobbiamo riconoscere che almeno in alcuni ambienti il Concilio Vaticano II sia stato proposto come la prima assise di una nuova religione, per la quale era anche stato predisposto un nuovo rito. Certo è che il cuore del vaticanista di Repubblica batte all’unisono con quello di chi, fino allo scorso anno, si adoperò per demolire nelle celebrazioni “l’icona del papato imperiale”, confinando i “pesanti paramenti aurei” negli armadi e proponendo svolazzanti paramenti plasticei, icona di un papato democratico e collegiale, contro la dottrina del Primato Petrino proclamata infallibilmente dal Concilio Vaticano I. “Ma l’operazione può riuscire soltanto affidandosi all’apologetica o rifugiandosi nella rimozione. Pio IX aborriva la democrazia, il Vaticano II l’ha fatta propria”. Un’affermazione temeraria, se vogliamo, anzitutto perché il Magistero di Pio IX in materia fu dogmatico, a differenza del valore meramente pastorale del Vaticano II; in secondo luogo perché è falso che Pio IX aborrisse la democrazia in quanto tale: egli metteva in guardia dal pervertimento della democrazia, usata per negare ogni gerarchia anche divinamente istituita, come quella della Chiesa di Cristo. Il Beato Mastai Ferretti condannò la libertà di stampa perché era usata dai nemici della religione per diffondere vergognose menzogne sul Papato e sulla Chiesa; condannò il laicismo perché negava i diritti sovrani di Cristo Re sulle società e le Nazioni; condannò l’ecumenismo irenista perché insinuava pari diritti per la Verità e l’errore: cose inaccettabili tanto per Pio IX quanto per Benedetto XVI. Lungi dall’entrare nel merito teologico e dall’argomentare seriamente le proprie tesi, nell’articolo ‘Se Ratzinger rivaluta Pio IX’ apparso su Repubblica il 16 Febbraio (significativamente rilanciato dal sito della Margherita), Marco Politi si cimenta in osservazioni da sacrestano sui paramenti di Benedetto XVI: “La sagrestia di San Pietro non è un magazzino di costumi teatrali, a cui si attinge per mero gusto estetico”, rivaleggiando in imperizia con il proprio direttore, che aveva criticato l’orientamento dell’altare della Cappella Sistina. Politi insiste: “La mitria di Pio IX appartiene al pontefice che ha dichiarato guerra all’Ottocento, che ha esecrato la libertà di coscienza e la libertà di religione, che ha permesso che i suoi seguaci si servissero al concilio Vaticano I di manovre totalitarie per imporre l’infallibilità papale”. Ma come? Del Concilio Vaticano II si tacciono i maneggi e le manovre totalitarie per imporre dottrine al limite dell’ortodossia, frettolosamente corrette a colpi di Nota prævia, mentre del Vaticano I si citano casi episodici al limite dell’aneddoto, quasi i Padri si fossero organizzati in bande pro e contro il dogma dell’infallibilità? Non ricorda Politi le copie ciclostilate delle bozze dei documenti conciliari modificate dalle Commissioni senza l’avvallo dei Padri, e poi fatte approvare con l’inganno a Paolo VI? Non è al corrente dell’abissale differenza tra i documenti preparatori approvati da Giovanni XXIII e quelli che un manipolo di progressisti impose ai Padri? Ignora le votazioni organizzate all’alba, senza informare i membri più conservatori delle Commissioni, in modo da far passare deliberazioni senza il numero legale? Dimentica come fu umiliato il Cardinale Alfredo Ottaviani, messo a tacere con arroganza mentre protestava sulle deviazioni dottrinali insinuate in certi documenti, con lo spegnimento del microfono in piena aula conciliare? Si potrebbe osservare che un conoscitore imparziale della storia e della dottrina della Chiesa non dovrebbe mostrare una tale miopia; ma è chiaro che stiamo parlando di un giornalista di Repubblica, per cui l’imparzialità è un optional, quando si tratta di propagandare “l’opposizione frontale alla modernità di Pio IX e l’apertura ai segni dei tempi di Giovanni XXIII, l’infallibilità papale da un lato e la gestione collegiale della Chiesa con l’insieme dei vescovi dall’altro”. Bene ha fatto Politi ad uscire allo scoperto: ora conosciamo la sua scelta di campo e possiamo comprendere cosa lo muove nell’attaccare il Santo Padre. Rimangono ad intra da chiarire non pochi equivoci - libertà di coscienza, libertà religiosa, ecumenismo, liberalismo - ai quali si appigliano gli indocili pennivendoli di ieri e di oggi. Ma basta la rabbia scomposta di Politi per un piviale per farci capire quale sia il valore dei segni nella liturgia di questo Pontificato. (Baronio, Petrus, 19 febbraio 2008)

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