Sull’ultimo numero di “il Foglio” – non il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara ma quello che si autodefinisce “mensile di alcuni cristiani torinesi”, giunto al suo 38esimo anno di vita – c’è un articolo di Piero Stefani che prende spunto dal “non discorso” di Benedetto XVI alla Sapienza per formulare delle critiche radicali al pensiero dell’attuale pontefice.
L’interesse di tali critiche è che esse, terribilmente drastiche, hanno per autore uno degli intellettuali più titolati del cattolicesimo italiano e una delle firme più rappresentative di “Il Regno“, l’autorevole quindicinale dei dehoniani di Bologna. Stefani – già poco tenero col libro del papa su Gesù – è anche uno specialista di fama dell’ebraismo e del dialogo tra le religioni, ha pubblicato vari libri importanti e insegna presso l’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia.
Ebbene, dopo aver premesso che “Ratisbona resterà un punto di svolta del pontificato di Benedetto XVI, da allora in poi messo in uno stato di perenne ricattabilità da parte dell’islam”, Stefani scrive:
“L’astratta elevatezza del discorso alla Sapienza si presenta, nel suo piccolo, come uno specchio del massimo dramma dell’attuale pontificato: l’incapacità non solo di leggere e di interpretare, ma persino di percepire il mondo reale”.
E più avanti:
“Il fattore dominante nel discorso pubblico di Ratzinger è l’assolutizzazione di una ragione (o meglio della ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità. Si compie però un ulteriore passo, riassumibile nel modo seguente: siccome la verità per definizione è una e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto, in linea di principio, un matrimonio indissolubile. Il risvolto più inquietante di questa impostazione non tocca i laici (i quali dal messaggio ricevono solo un’ennesima immagine parziale della fede), bensì i credenti cattolici a cui è prospettata una fede necessariamente agganciata a una concezione della ragione incapace di reggere alla critica del pensiero moderno. In definitiva, la volontà di assegnare a un’esausta apologia di una determinata concezione della ragione un ruolo strategico consegna l’attuale magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità dal mondo reale”.
Questa la conclusione:
“Ci si può domandare: la ragione ha davvero bisogno di un papa per essere invitata a mettere in moto la propria ricerca? E ancor di più, ha bisogno del vescovo di Roma per sapere quando cammina sulla strada maestra della verità o quando invece erra lungo i viottoli sdrucciolevoli del relativismo? L’annuncio dell’evangelo è compito peculiare del credente. Dal canto suo, l’annuncio di una ragione aperta al vero, al bene e a Dio sarebbe una contraddizione in termini, e non è consentito farlo neppure al papa, poiché la ricerca razionale per sua natura non è legata a nessuna ‘buona novella’ che le giunge dall’esterno”.
Fin qui Stefani sul mensile “il Foglio” del febbraio del 2008. Ma va detto che la sua non è una posizione isolata, dentro l’intellettualità cattolica italiana.
C’è ad esempio una forte consonanza tra le tesi di Stefani e quelle espresse il 10 febbraio da Vito Mancuso sull’altro “Foglio”, quello quotidiano, in risposta alla recensione critica del suo libro “L’anima e il suo destino” scritta dal gesuita Corrado Marucci su “La Civiltà Cattolica”.
Sia per Stefani sia per Mancuso il magistero della Chiesa di Benedetto XVI è al disastro perché è legato a una visione del mondo sorpassata. Quando invece dovrebbe adeguarsi ai moderni paradigmi scientifici, e su questo metro ripensarsi da capo. (fin qui la nota di Sandro Magister sul Blog dell’Espresso, 27 febbraio 2007).
Abbiamo capito: il Papa deve stare zitto per lasciar “argomentare” loro signori. Però viene spontaneo chiederci: con quale autorità? A quale titolo? In nome di chi? È chiaro che avete il dente avvelenato perché siete stati entrambi bacchettati e tacciati per “saputelli vanesi”, da altri più preparati di voi!
La penna vi ha preso la mano? Fate attenzione però, perché è ormai fin troppo evidente che la vostra iattanza rischia di logorarvi definitivamente il cervello. A volte l’umiltà e la deferenza nei confronti di chi ha carismi ben più alti dei vostri, vi riserverebbe forse una qualche considerazione in più, rispetto alla generale indifferenza e commiserazione cui inevitabilmente vi confina la vostra stolta sicumera… (m. l. 28 febbraio 2008)
L’interesse di tali critiche è che esse, terribilmente drastiche, hanno per autore uno degli intellettuali più titolati del cattolicesimo italiano e una delle firme più rappresentative di “Il Regno“, l’autorevole quindicinale dei dehoniani di Bologna. Stefani – già poco tenero col libro del papa su Gesù – è anche uno specialista di fama dell’ebraismo e del dialogo tra le religioni, ha pubblicato vari libri importanti e insegna presso l’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia.
Ebbene, dopo aver premesso che “Ratisbona resterà un punto di svolta del pontificato di Benedetto XVI, da allora in poi messo in uno stato di perenne ricattabilità da parte dell’islam”, Stefani scrive:
“L’astratta elevatezza del discorso alla Sapienza si presenta, nel suo piccolo, come uno specchio del massimo dramma dell’attuale pontificato: l’incapacità non solo di leggere e di interpretare, ma persino di percepire il mondo reale”.
E più avanti:
“Il fattore dominante nel discorso pubblico di Ratzinger è l’assolutizzazione di una ragione (o meglio della ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità. Si compie però un ulteriore passo, riassumibile nel modo seguente: siccome la verità per definizione è una e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto, in linea di principio, un matrimonio indissolubile. Il risvolto più inquietante di questa impostazione non tocca i laici (i quali dal messaggio ricevono solo un’ennesima immagine parziale della fede), bensì i credenti cattolici a cui è prospettata una fede necessariamente agganciata a una concezione della ragione incapace di reggere alla critica del pensiero moderno. In definitiva, la volontà di assegnare a un’esausta apologia di una determinata concezione della ragione un ruolo strategico consegna l’attuale magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità dal mondo reale”.
Questa la conclusione:
“Ci si può domandare: la ragione ha davvero bisogno di un papa per essere invitata a mettere in moto la propria ricerca? E ancor di più, ha bisogno del vescovo di Roma per sapere quando cammina sulla strada maestra della verità o quando invece erra lungo i viottoli sdrucciolevoli del relativismo? L’annuncio dell’evangelo è compito peculiare del credente. Dal canto suo, l’annuncio di una ragione aperta al vero, al bene e a Dio sarebbe una contraddizione in termini, e non è consentito farlo neppure al papa, poiché la ricerca razionale per sua natura non è legata a nessuna ‘buona novella’ che le giunge dall’esterno”.
Fin qui Stefani sul mensile “il Foglio” del febbraio del 2008. Ma va detto che la sua non è una posizione isolata, dentro l’intellettualità cattolica italiana.
C’è ad esempio una forte consonanza tra le tesi di Stefani e quelle espresse il 10 febbraio da Vito Mancuso sull’altro “Foglio”, quello quotidiano, in risposta alla recensione critica del suo libro “L’anima e il suo destino” scritta dal gesuita Corrado Marucci su “La Civiltà Cattolica”.
Sia per Stefani sia per Mancuso il magistero della Chiesa di Benedetto XVI è al disastro perché è legato a una visione del mondo sorpassata. Quando invece dovrebbe adeguarsi ai moderni paradigmi scientifici, e su questo metro ripensarsi da capo. (fin qui la nota di Sandro Magister sul Blog dell’Espresso, 27 febbraio 2007).
Abbiamo capito: il Papa deve stare zitto per lasciar “argomentare” loro signori. Però viene spontaneo chiederci: con quale autorità? A quale titolo? In nome di chi? È chiaro che avete il dente avvelenato perché siete stati entrambi bacchettati e tacciati per “saputelli vanesi”, da altri più preparati di voi!
La penna vi ha preso la mano? Fate attenzione però, perché è ormai fin troppo evidente che la vostra iattanza rischia di logorarvi definitivamente il cervello. A volte l’umiltà e la deferenza nei confronti di chi ha carismi ben più alti dei vostri, vi riserverebbe forse una qualche considerazione in più, rispetto alla generale indifferenza e commiserazione cui inevitabilmente vi confina la vostra stolta sicumera… (m. l. 28 febbraio 2008)
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