lunedì 4 giugno 2012

Milano: il vero volto di un Papa buono e sensibile

Lontano dalla curia vaticana, di Benedetto XVI compare il profilo autentico. Niente gli fa da schermo opaco. Il suo colloquio con la folla è diretto. La sua parola arriva intatta a chi ascolta. È avvenuto così a Milano, tra venerdì 1 e domenica 3 giugno, con la visita del papa all'arcidiocesi dei santi Ambrogio e Carlo e al VII incontro mondiale delle famiglie, nel tripudio di almeno un milione di fedeli convenuti da molte nazioni.
Ed è avvenuto così soprattutto al di fuori dei discorsi ufficiali.
Ad esempio, nei momenti in cui papa Joseph Ratzinger ha risposto a braccio alle domande di adulti e bambini. Oppure nei momenti in cui ha aperto squarci autobiografici sul "paradiso" della sua infanzia e sulla sua passione per la grande musica.
La grande musica che a Milano Benedetto XVI ha avuto occasione di ascoltare e di meditare è stata, al Teatro alla Scala, la sera del 1 giugno, la Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Daniel Barenboim.
Il papa ha associato la "terribile dissonanza" che introduce la parte finale della sinfonia al dolore e alla distruzione che colpiscono gli uomini, non ultimo il terremoto che tuttora sconvolge una zona dell'Emilia, non lontano da Milano.
È una dissonanza che fa pensare a un Dio cieco e lontano, tutto solo sopra il cielo stellato, incurante del male nel mondo.
Ma a questo pensiero il papa ha detto di non arrendersi. L'ha detto con le parole stesse di Beethoven, cantate dal baritono: "Amici, non questi toni! Intoniamone altri di più attraenti e gioiosi". L'ha detto con lo slancio fiducioso dell'Inno alla Gioia di Schiller, che corona la sinfonia.
Una gioia che per i cristiani è quella di sapere Dio vicino. Il Dio "che soffre con noi e per noi, e così ha reso gli uomini e le donne capaci di condividere la sofferenza dell’altro e di trasformarla in amore". Il Dio adorato nell'eucaristia (come poco dopo, in effetti, è avvenuto nella cattedrale di Milano).
Quanto ai suoi interventi a braccio, Benedetto XVI ha esordito la mattina di sabato 2 giugno, nello stadio di San Siro gremito di giovani nell'età della cresima: "Cari amici, non credete a chi vi dice che non vale la pena di parlare di vocazione alla vostra età. Un futuro grande pittore dipinge già da bambino. State attenti alla presenza del Signore. Forse ci chiama".
Ma il papa ha riempito di sue parole spontanee soprattutto la veglia del VII incontro mondiale delle famiglie, la sera dello stesso giorno.
Benedetto XVI ha risposto a cinque domande di famiglie di diversi continenti.
Ad esempio, nel rispondere a una famiglia della Grecia, il papa ha detto come affrontare la crisi economica che pesa su molti, rivolgendo un'esortazione anche alle parti politiche: "Mi sembra che dovrebbe crescere il senso della responsabilità in tutti i partiti, che non promettano cose che non possono realizzare, che non cerchino solo voti per sé, ma siano responsabili per il bene di tutti e che si capisca che politica è sempre anche responsabilità umana, morale, davanti a Dio e agli uomini".
Ma le cose più originali il papa le ha dette nelle tre risposte riportate qui di seguito, la prima delle quali a una bambina vietnamita. Ecco alcune di queste risposte:
1. La mia infanzia? Un paradiso.
D. – Ciao, papa! Sono Cat Tien, vengo dal Vietnam. Ho sette anni e ti voglio presentare la mia famiglia. Lui è il mio papà Dan, e la mia mamma si chiama Tao, e lui è il mio fratellino Binh. Mi piacerebbe tanto sapere qualcosa della tua famiglia e di quando eri piccolo come me…
R. – Grazie, carissima, e ai genitori: grazie di cuore. Allora, hai chiesto come sono i ricordi della mia famiglia: sarebbero tanti! Volevo dire solo poche cose. Il punto essenziale per la famiglia era per noi sempre la domenica, ma la domenica cominciava già il sabato pomeriggio. Il padre ci diceva le letture, le letture della domenica, da un libro molto diffuso in quel tempo in Germania, dove erano anche spiegati i testi. Così cominciava la domenica: entravamo già nella liturgia, in atmosfera di gioia.
Il giorno dopo andavamo a Messa. Io sono di casa vicino a Salisburgo, quindi abbiamo avuto molta musica – Mozart, Schubert, Haydn – e quando cominciava il Kyrie era come se si aprisse il cielo.
E poi a casa era importante, naturalmente, il grande pranzo insieme. E poi abbiamo cantato molto: mio fratello è un grande musicista, ha fatto delle composizioni già da ragazzo per noi tutti, così tutta la famiglia cantava. Il papà suonava la cetra e cantava; sono momenti indimenticabili.
Poi, naturalmente, abbiamo fatto insieme viaggi, camminate; eravamo vicino ad un bosco e così camminare nei boschi era una cosa molto bella: avventure, giochi eccetera.
In una parola, eravamo un cuore e un’anima sola, con tante esperienze comuni, anche in tempi molto difficili, perché era il tempo della guerra, prima della dittatura, poi della povertà. Ma questo amore reciproco che c’era tra di noi, questa gioia anche per cose semplici era forte e così si potevano superare e sopportare anche queste cose.
Mi sembra che questo fosse molto importante: che anche cose piccole hanno dato gioia, perché così si esprimeva il cuore dell’altro. E così siamo cresciuti nella certezza che è buono essere un uomo, perché vedevamo che la bontà di Dio si rifletteva nei genitori e nei fratelli.
E, per dire la verità, se cerco di immaginare un po’ come sarà in paradiso, mi sembra sempre il tempo della mia giovinezza, della mia infanzia. Così, in questo contesto di fiducia, di gioia e di amore eravamo felici e penso che in paradiso dovrebbe essere simile a come era nella mia gioventù. In questo senso spero di andare "a casa", andando verso "l’altra parte del mondo".
2. Sposi "per sempre", come il vino buono di Cana
D. – Santità, siamo Fara e Serge, e veniamo dal Madagascar. [...] I modelli famigliari che dominano l'Occidente non ci convincono, ma siamo consci che anche molti tradizionalismi della nostra Africa vadano in qualche modo superati. [...] Vogliamo sposarci e costruire un futuro insieme. Vogliamo anche che ogni aspetto della nostra vita sia orientato dai valori del Vangelo. Ma parlando di matrimonio, Santità, c'è una parola che più d'ogni altra ci attrae e allo stesso tempo ci spaventa: il "per sempre"...
R. – Cari amici, grazie per questa testimonianza. La mia preghiera vi accompagna in questo cammino di fidanzamento e spero che possiate creare, con i valori del Vangelo, una famiglia "per sempre". Lei ha accennato a diversi tipi di matrimonio: conosciamo il "mariage coutumier" dell’Africa e il matrimonio occidentale. Anche in Europa, per dire la verità, fino all’Ottocento, c’era un altro modello di matrimonio dominante, come adesso: spesso il matrimonio era in realtà un contratto tra clan, dove si cercava di conservare il clan, di aprire il futuro, di difendere le proprietà, eccetera. Si cercava l’uno per l’altro da parte del clan, sperando che fossero adatti l’uno all’altro. Così era in parte anche nei nostri paesi. Io mi ricordo che in un piccolo paese, nel quale sono andato a scuola, era in gran parte ancora così.
Ma poi, dall’Ottocento, segue l’emancipazione dell’individuo, la libertà della persona, e il matrimonio non è più basato sulla volontà di altri, ma sulla propria scelta. Precede l’innamoramento, diventa poi fidanzamento e quindi matrimonio. In quel tempo tutti eravamo convinti che questo fosse l’unico modello giusto e che l’amore di per sé garantisse il "sempre", perché l’amore è assoluto, vuole tutto e quindi anche la totalità del tempo: è "per sempre".
Purtroppo, la realtà non era così: si vede che l’innamoramento è bello, ma forse non sempre perpetuo, così come è il sentimento: non rimane per sempre. Quindi, si vede che il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio esige diverse decisioni, esperienze interiori. Come ho detto, è bello questo sentimento dell’amore, ma deve essere purificato, deve andare in un cammino di discernimento, cioè devono entrare anche la ragione e la volontà; devono unirsi ragione, sentimento e volontà.
Nel rito del matrimonio la Chiesa non dice: "Sei innamorato?", ma "Vuoi?", "Sei deciso?". Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: "Sì, questa è la mia vita".
Io penso spesso alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente "secondo vino" è più bello, migliore del primo vino. E questo dobbiamo cercare.
E qui è importante anche che l’io non sia isolato, l’io e il tu, ma che sia coinvolta anche la comunità della parrocchia, la Chiesa, gli amici. Questo, tutta la personalizzazione giusta, la comunione di vita con altri, con famiglie che si appoggiano l’una all’altra, è molto importante e solo così, in questo coinvolgimento della comunità, degli amici, della Chiesa, della fede, di Dio stesso, cresce un vino che va per sempre. Auguri a voi!
3. Divorziati e risposati, "pienamente nella chiesa"
D. – Santità, come nel resto del mondo, anche nel nostro Brasile i fallimenti matrimoniali continuano ad aumentare. Mi chiamo Maria Marta, lui è Manoel Angelo. Siamo sposati da 34 anni e siamo già nonni. In qualità di medico e psicoterapeuta familiare incontriamo tante famiglie, notando nei conflitti di coppia una più marcata difficoltà a perdonare e ad accettare il perdono, ma in diversi casi abbiamo riscontrato il desiderio e la volontà di costruire una nuova unione, qualcosa di duraturo, anche per i figli che nascono dalla nuova unione.
Alcune di queste coppie di risposati vorrebbero riavvicinarsi alla Chiesa, ma quando si vedono rifiutare i sacramenti la loro delusione è grande. Si sentono esclusi, marchiati da un giudizio inappellabile. Queste grandi sofferenze feriscono nel profondo chi ne è coinvolto; lacerazioni che divengono anche parte del mondo, e sono ferite anche nostre, dell'umanità tutta. Santo Padre, sappiamo che queste situazioni e che queste persone stanno molto a cuore alla Chiesa: quali parole e quali segni di speranza possiamo dare loro?
R. – Cari amici, grazie per il vostro lavoro di psicoterapeuti per le famiglie, molto necessario. Grazie per tutto quello che fate per aiutare queste persone sofferenti. In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio.
Io direi che molto importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione, cioè approfondire fin dall’inizio l’innamoramento in una decisione profonda, maturata; inoltre, l’accompagnamento durante il matrimonio, affinché le famiglie non siano mai sole ma siano realmente accompagnate nel loro cammino.
E poi, quanto a queste persone, dobbiamo dire – come lei ha detto – che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono "fuori" anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa.
Forse, se non è possibile l’assoluzione nella confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati.
Poi è anche molto importante che sentano che l’eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il corpo di Cristo. Anche senza la ricezione "corporale" del sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo.
E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Grazie per il vostro impegno.

(Fonte: Sandro Magister, Chiesa.it, 3 giugno 2012)

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