venerdì 17 ottobre 2014

“Matrimonio e seconde nozze al Concilio di Trento”. Damnatio Memoriæ?

Il padre gesuita Giancarlo Pani, docente di storia del cristianesimo presso l'Università di Roma "La Sapienza", ha recentemente pubblicato un saggio su "La Civiltà Cattolica" del titolo "Matrimonio e ‘seconde nozze’ al Concilio di Trento". In essa egli difende la pratica matrimoniale greca di "oikonomia" secondo la quale i matrimoni falliti possono essere sciolti e i coniugi hanno il permesso di risposarsi, o più spesso avere i loro "nuovi matrimoni dichiarati validi" dalla Chiesa “dopo un periodo di penitenza". Egli si augura palesemente che questa "tradizione tollerante" possa fare strada anche nella Chiesa cattolica.
A conforto di tale aspirazione, egli rivendica nientemeno che l’autorità del Concilio di Trento, che ritiene abbia implicitamente sancito la pratica greca del divorzio nei suoi "canones de sacramento matrimonii".
La sua tesi ha due difetti. Il primo e più serio qui semplicemente lo accenno. Nel suo saggio, egli non solo assume ma addirittura afferma più volte che questa forma di divorzio e di nuovo matrimonio non è in conflitto con la dottrina dell'indissolubilità, senza fornire nessun argomento a sostegno. L'affermazione è stata confutata da Germain Grisez, John Finnis e William E. May vent’anni fa nella loro risposta critica ai vescovi tedeschi Walter Kasper, Karl Lehmann e Oskar Saier, che avevano proposto una soluzione per permettere ai cattolici divorziati e risposati in Germania di accedere all'eucaristia.
Il secondo problema riguarda l'interpretazione di Pani del canone 7 di Trento sull’indissolubilità. Egli segue la fortunata interpretazione del gesuita fiammingo Piet Fransen (1913-1983), la cui ricostruzione, anche se ampiamente accolta, è gravemente difettosa (1). L'articolo di Pani riassume abbastanza gli eventi dell'agosto del 1563, per cui non è necessario ripeterli qui. Ma c’e una storia più ampia che esige delle osservazioni.
Anche se la Chiesa ortodossa orientale – scrive Pani – "ha affermato e riconosciuto rigorosamente l'indissolubilità del matrimonio", tuttavia ha consentito il divorzio e le seconde nozze in alcuni casi. I padri e i teologi a Trento sapevano dell'antico "ritus" (costume) dell'Oriente e l’hanno rispettato. Molti padri conciliari avevano dubbi circa la "clausola d’eccezione" nel Vangelo di Matteo ("tranne nei casi di porneia"). Essi dubitavano che la rivelazione divina escludesse assolutamente un nuovo matrimonio in caso di adulterio. Dato il dubbio, decisero di "parlare chiaramente sulla indissolubilità del matrimonio, ma anche di dire che tale dottrina non può essere considerata come una parte costitutiva della [divina] rivelazione". I loro dubbi hanno raggiunto il punto culminante nell'agosto del 1563 con il famoso intervento della delegazione veneziana, che ha esortato i padri conciliari, per il bene delle pratiche di divorzio dei Greci in terre cattoliche, a non condannare direttamente il divorzio e il nuovo matrimonio in caso di adulterio. La petizione ha avuto successo e alla fine il Concilio ha approvato una formulazione indiretta del canone 7. Questo ovviamente perché la grande maggioranza dei padri conciliari hanno preferito lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio.
Pani lamenta che questa "pagina" nell'insegnamento di Trento sul matrimonio "sembra essere stata dimenticata dalla storia". Ma come può essere stata dimenticata quando Walter Kasper (2), Charles Curran (3), Michael Lawler (4), Kenneth Himes (5), James Coriden (6), Theodore Mackin S.J. (7), Victor J. Pospishil (8), Francis A. Sullivan SJ (9), Karl Lehmann (10), e Piet Fransen S.J. (solo per citarne alcuni) l’hanno ripetuta continuamente nel corso degli ultimi cinquant'anni? In realtà questa ricostruzione risale al XVII secolo. Il teologo antiromano Paolo Sarpi e il giansenista Jean Launoy (12) hanno sostenuto che il Concilio intendeva lasciare aperta la questione se a volte fosse legittimo risposarsi dopo il divorzio (13).
Pani incolpa i segretari e i cronisti del Concilio per il loro "silenzio eloquente" su questa storia. Ma un'interpretazione alternativa del loro silenzio mi sembra più ovvia e corretta: la ricostruzione di Pani è una creazione postconciliare. Questo non vuol dire che gli eventi che egli cita, in particolare l'intervento di Venezia, non abbiano avuto luogo. Certo che hanno avuto luogo. Ma non vi è alcuna base storica per la sua affermazione secondo cui il Concilio – e con questo intendo la stragrande maggioranza dei vescovi votanti – avrebbe letto il canone 7 come se lasciasse curi le pratiche di divorzio dei Greci. Molti studiosi prima della metà del XX secolo hanno sostenuto che Trento intendeva definire l'assoluta indissolubilità [del matrimonio] come una verità "de fide", per esempio Domenico Palmieri (14) e Giovanni Perrone (15), l'illustre autore e redattore del francese "Dictionnaire de Théologie Catholique” Alfred Vacant (16) e il teologo dogmatico George Hayward Joyce, S.J. (17). Più di recente la stessa tesi è stato difesa dal futuro papa Joseph Ratzinger (18) e dai teologi morali Germain Grisez e Peter Ryan, S.J. (19).
Per dimostrare a fondo la falsità dell'interpretazione di Pani-Fransen occorrerebbe un trattato della lunghezza di un libro. Ma molte cose si possono dire per dimostrare che essa è discutibile. Per capire le vere intenzioni dei padri a Trento, non dobbiamo guardare subito, come fa Pani, l'intervento della delegazione veneziana. Dobbiamo guardare per prima cosa il consenso solido come roccia dei padri e dei teologi in ogni precedente discussione sul matrimonio, dal 1547 fino all'agosto del 1563.
Quando il canone 6 (che divenne il canone 7) fu presentato ai padri il 20 luglio del 1563, dopo aver subito diverse riscritture fu formulato così:
"Se qualcuno dirà che a causa dell'adulterio di un coniuge il matrimonio può essere sciolto, e che è lecito per entrambi, o almeno per il coniuge innocente che non ha dato nessun motivo per l'adulterio, di risposarsi, e che non è un adultero colui che licenzia una adultera e ne sposa un'altra, né è un'adultera colei che licenzia un adultero e ne sposa un altro: sia anatema" (20).
Non vi è nulla di straordinario in questa formulazione, in quanto il suo contenuto è più o meno lo stesso del contenuto delle proposizioni precedentemente condannate (numeri 3-5), proposte al Concilio da Angelo Massarelli, il segretario generale, nell'aprile del 1547 (21). Questa formulazione condanna in forma diretta le proposizioni che il matrimonio può essere sciolto a causa di adulterio; che non è mai lecito per i coniugi adulteri di risposarsi; e che il coniuge che ripudia un coniuge adultero e si risposa non è colpevole di adulterio.
Fin dalle prime discussioni di Trento questo è stato il consenso dei padri conciliari. Per quanto riguarda le "auctoritates", i prelati hanno fatto riferimento a Nostro Signore e a san Paolo, ai Canoni Apostolici, a Girolamo, Ambrogio, Agostino, Crisostomo, Origene, Ilario, ai papi Innocenzo I, Leone I, Alessandro III e ai Concili di Milevi, Elvira, Costanza, Firenze e Lateranense IV, tra altri. Quando pensatori cattolici del XVI secolo come Erasmo e Catarinus hanno suggerito che la dottrina dell'assoluta indissolubilità debba essere annacquata, le loro proposte sono state condannate dalle facoltà di teologia delle università di Colonia, Lovanio e Parigi. La conclusione di Agostino che la clausola d’eccezione in Matteo va letta in conformità con gli insegnamenti più restrittivi che si trovano in Luca 16, Marco 10 e Romani 7, 1-3 era accettata da quasi tutti. "Separazione di letto, non di legame", era il motto del momento.
Pani menziona il significativo dubbio contro l’indissolubilità assoluta [del matrimonio] esposto dal vescovo di Segovia il 14 agosto del 1563, come fa ogni altro autore che segue questa interpretazione (22). Ma egli non menziona che dall'inizio delle discussioni sul matrimonio una maggioranza rilevante e coesa ha affermato, contro il punto di vista segoviano, il motto agostiniano "letto, non legame", senza eccezioni. Alcuni nomi dovrebbero essere sufficienti a dimostrare questo: il presidente del concilio e legato pontificio cardinale Cervinus; gli arcivescovi Materanus, Naxiensis, Aquensis, e Armacanus; i vescovi Aciensis, Sibinicensis, Chironensis, Sebastensis, Motulanus, Motonensis, Mylonensis, Feltrensis, Bononiensis, Sibinicensis, Chironensis, Aquensis, Bituntinus, Aquinas, Mylensis, Lavellinus, Mylensis, Caprulanus, Grossetanus, Upsalensis, Salutiarum, Caprulanus, Veronensis, Maioricensis, Camerinensis , Thermularum, Mirapicensis e Vigorniensis.
In una dichiarazione sommaria registrata negli Acta il 6 settembre del 1547, si legge: "Le risposte dei padri erano varie; ma la stragrande maggioranza erano d’accordo che l'adulterio non può sciogliere un matrimonio; che se uno sposa un'altra persona quando il suo coniuge è ancora in vita commette adulterio; e che per nessuna ragione possono essere separati, tranne che nel letto”. (23). Riguardo alle "auctoritates" che si oppongono a questo punto di vista, la maggioranza ha concordato "che la separazione deve essere intesa solo come separazione del letto, e non del vincolo secondo l'interpretazione dei dottori (e l'insegnamento di San Paolo in 1 Cor 7, 10ss e Romani 7, 2ss, di Marco 10, 11, di Luca 16, 18 e dello stesso Matteo 5, 32)" Infine, la maggioranza ha concordato “che la comprensione della Scrittura dovrebbe essere secondo l'insegnamento della Chiesa” (24).
Quando la bozza del canone 6 fu presentata il 20 luglio del 1563, più di duecento padri del Concilio (cardinali, arcivescovi, vescovi, abati e generali delle congregazioni) intervennero a commentarla. Tutti sapevano che la fine dei dibattiti sul matrimonio si avvicinava. Se ci fossero stati dubbi diffusi o insoddisfazione tra i padri circa la destinazione della formulazione, l'inclusione dell'anatema, o le sue implicazioni per le pratiche di divorzio dei Greci (25), ci si sarebbe aspettato un notevole numero di "non placet" al canone. Ma solo 17 esprimettero disapprovazione, soprattutto a causa delle "opinioni dei Greci". Più dell'85 per cento dei prelati votanti erano soddisfatti per la formulazione diretta dell'anatema che condannava le seconde nozze dopo l'adulterio, con una larga maggioranza che approvò esplicitamente il suo contenuto ("placet").
Tre settimane più tardi, l'11 agosto, arrivò la proposta di Venezia di una formulazione indiretta. Circa 136 prelati si esprimettero a favore della proposta. Come si spiega questo cambiamento? Forse perché i padri conciliari preferivano lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio, come Pani e altri suggeriscono? Tale conclusione deve essere respinta. È verosimile che in meno di tre settimane la stragrande maggioranza dei prelati votanti abbiano abbandonato l’indissolubilità assoluta per consentire alcuni casi di divorzio e seconde nozze? Nella versione finale del canone 7 il Concilio adottò quattro altri importanti cambiamenti che contraddicono questa conclusione.
In primo luogo, aggiunse la frase "iuxta evangelicam et apostolicam doctrinam" per far capire che le successive proposizioni che condannano la negazione dell'indissolubilità nei casi di adulterio hanno la loro origine nella rivelazione divina.
In secondo luogo, sostituì il termine normativo "non dovrebbe... contrattare" ("non debere... contrahere") con il termine sostanziale "non può... contrattare" ("non posse... contrahere") rendendo chiaro che un nuovo matrimonio dopo il divorzio non è solo sbagliato, ma addirittura impossibile, sempre.
In terzo luogo, per garantire che il canone riguardava in modo trasparente l'indissolubilità del vincolo del matrimonio, adottò il termine "vinculum matrimonii" in sostituzione di "matrimonium".
Infine, introdusse per la prima volta una prefazione dottrinale ai canoni sul matrimonio. Ciò era chiaramente mirato ad istituire un quadro dottrinale all'interno del quale i canoni devono essere letti e interpretati. L’introduzione fonda la verità della indissolubilità sulla legge naturale (l'ordine creato), sull'ispirazione dello Spirito Santo nel Antico Testamento e sulla volontà e l'insegnamento di Gesù come espresso nel Nuovo Testamento. E afferma che sono condannati non solo gli "scismatici" ma anche "i loro errori" ("eorumque errores"), cioè le loro proposizioni erronee sulla natura del matrimonio, compresa la loro indiscutibile negazione della indissolubilità assoluta del matrimonio.
La spiegazione più plausibile per l'improvvisa svolta è che i padri conciliari restavano comunque convinti che il matrimonio non può essere sciolto a causa di un adulterio o di qualsiasi altra cosa, e che questo doveva essere insegnato come una verità di fede. Essi si erano trovati pronti a insegnare ciò nella forma di un anatema diretto che condannava la sua negazione. Ma l'intervento di Venezia li aveva mesi in guardia da una possibile conseguenza di questo atto, vale a dire il turbamento del delicato equilibrio dei rapporti tra i cristiani greci e la gerarchia romana nelle isole del Mediterraneo.
Erano certi che la proposizione che affermava l'indissolubilità assoluta del matrimonio era vera e apparteneva alla rivelazione divina, e avevano l’intenzione di insegnare entrambe le cose, ma di farlo in modo da ridurre al minimo le conseguenze indesiderabili. Non hanno fatto ricorso a una formulazione indiretta a motivo di dubbi circa l'interpretazione della "clausola d’eccezione", per la paura dello scandalo di "anatematizzare Ambrogio" o perché volessero lasciare i Greci liberi di seguire le loro antiche usanze di divorzio. L'appello di Venezia ha avuto successo per il motivo pastorale che una formulazione indiretta poneva una probabilità minore di turbare le relazioni greco-romane nei territori veneziani.
L'idea di Pani che nella pubblicazione del canone 7 i padri intendevano soltanto condannare Lutero e i riformatori ma lasciare fuori dalla critica le pratiche di divorzio dei Greci è in contrasto con il giudizio motivato sulla indissolubilità assoluta del matrimonio della stragrande maggioranza dei padri e dei teologi del Concilio dalla primavera del 1547 alla fine dell'estate del 1563. Come Ryan e Grisez affermano: "Anche se Trento non anatematizza [esplicitamente] la pratica della 'oikonomia', il canone 7 comporta che la sua applicazione alle 'seconde nozze' dopo il divorzio è contraria alla fede" (26).
La formula ironica di Pani, "damnatio memoriae", è davvero adatta. Ma non sono gli atti, i segretari, i cronisti o i commentatori del Concilio che impongono il silenzio sull'insegnamento di Trento. Si tratta piuttosto di coloro che, in nome della "misericordia evangelica", vogliono sostituìre una verità di fede con una "tollerante" fantasia.
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NOTE
(1) La tesi di dottorato di Fransen sul canone 7 ("De indissolubilitate Matrimonii christiani in casu fornicationis. De canone Septimo Sessionis XXIV Concilii Tridentini, luglio-novembre 1563") è stata presentata alla Gregoriana nel 1947. Nel 1950, Fransen pubblicò altri sei saggi influenti sulla rivista "Scholastik" sull'insegnamento di Trento sul matrimonio, che sono ristampati in una raccolta di saggi di Fransen intitolata "Ermeneutica dei Concili e altri studi", ed. H.E. Mertens e F. de Graeve, Leuven University Press, 1985. Egli ha riassunto le conclusioni di questi saggi in un saggio inglese molto letto dal titolo "Il divorzio a causa della Adulterio - Il Concilio di Trento (1563)", stampato in un numero speciale della rivista "Concilium", dal titolo "Il futuro del matrimonio come istituzione", ed. Franz Böckle, New York, Herder and Herder, 1970, 89-100.
(2) Kasper, "Theology of Christian Marriage", New York, Crossroad, 1977, note 87, p. 98, also p. 62.
(3) Charles Curran, "Faithful Dissent", Sheed & Ward, 1986, 269, 272.
(4) Michael Lawler, “Divorce and Remarriage in the Catholic Church: Ten Theses,” New Theology Review, vol. 12, no. 2 (1999), 56.
(5) Kenneth Himes and James Coriden, “The Indissolubility of Marriage: Reasons to Reconsider,” Theological Studies, vol. 65, no. 3 (2004), 463.
(6) Ibid.
(7) Theodore Mackin, "Divorce and Remarriage", New York, Paulist Press, 1984, 388.
(8) Victor J. Pospishil, "Divorce and Remarriage", New York, Herder and Herder, 1967, 66-68.
(9) Francis Sullivan, "Creative Fidelity: Weighing and Interpreting Documents of the Magisterium", New York, Paulist Press, 1996, 131-134.
(10) Karl Lehmann, "Gegenwart des Glaubens", Mainz, Matthias-Grünwald-Verlag, 1974, 285-286.
(11) Paolo Sarpi (1552 -1623), "Istoria del Concilio Tridentino", Londra, 1619; Traduzione in inglese: "History of the Council of Trent" (1676). La sua "Istoria", molto letta dai protestanti, è stata criticata come orientata contro la curia romana; vedi L.F. Bungener, "History of the Council of Trent", New York, Harper & Brothers, 1855, xix-xx.
(12) Jean de Launoy (1603-1678); vedi "De regia in matrimonium potestate" (1674), par. III, art. I, cap. 5, n. 78; in "Opera", Colonia/Ginevra, 1731, tom. 1, cap. I, p. 855.
(13) Bossuet scrisse di Sarpi: "Era un protestante sotto un abito religioso, che ha recitato la messa senza credere in essa, e che rimase in una Chiesa che egli considerava idolatra". Vedi Bertrand L. Conway, CSP, “Original Diaries of the Council of Trent,” The Catholic World, vol. 98 (Oct. 1913-March 1914), 467.
(14) Domenico Palmieri, "Tractatus de Matrimonio Cristiano", Typographia Polyglotta SC de Propaganda Fide, Roma, 1880, p. 142.
(15) G. Perrone, SJ., "De Matrimonio Christiano", vol. 3, Rome, 1861, bk. 3, ch. 4, a. 2, p. 379-380.
(16) A. Vacant, s.v., “Divorce", in ”Dictionnaire de théologie catholique", 1908, vol. XII, cols. 498-505.
(17) George Hayward Joyce, S.J., "Christian Marriage: An Historical and Doctrinal Study", London: Sheed and Ward, 1933, 395.
(18) In un saggio del 1972, "Zur Frage nach der Unauflöslichkeit der Ehe: Bemerkungen zum dogmengeschichtlichen Befund und zu seiner gegenwärtigen Bedeutung" (in Ehe und Ehescheidung: Diskussion Unter Christen, a cura di Franz Henrich e Volker Eid, München, Kösel, 1972, 47, 49), Ratzinger dice che egli segue Fransen sul canone 7. Nel 1986 egli dimostra però che ha cambiato idea: "La posizione della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio sacramentale e consumato... è stata infatti definita nel Concilio di Trento, e così appartiene al patrimonio della fede "(vedi citazione in Charles Curran, "Faithful Dissent", Sheed & Ward, 1986, p 269).
(19) Peter F. Ryan, S.J. and Germain Grisez, “Indissoluble Marriage: A Reply to Kenneth Himes and James Coriden", Theological Studies 72 (2011), 369-415.
(20) CT, IX, 640.
(21) See CT, VI, 98-99.
(22) CT, XI, 709.
(23) CT, VI, 434.
(24) CT, VI, 434-435.
(25) “Non placet, quia ferit Graecos and Ambrose” (Arcivescovo Cretensis), CT, IX, 644.
(26) Op. Cit., nota 180.
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Fonte: E. Christian Brugger, www.chiesa.it, 17 ottobre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350897
 

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