Ognuno di noi le avrà viste almeno una volta, sulle pagine di qualche rivista, in un documentario sui luoghi esotici. Bellissime, con quel loro collo inanellato d’oro. È per quel collo apparentemente fatto crescere a dismisura che le donne birmane sono famose in tutto il mondo. Ma la curiosità dei più si è spesso fermata alla loro eleganza da cigno, in pochi hanno fatto caso alla loro storia, al loro Paese d’origine dilaniato da una guerra civile lunga 58 anni. Così pochi sanno che queste donne fanno parte di una delle tante tribù rifugiatesi nella vicina Thailandia nel 1990 a causa di un conflitto con il regime militare birmano.
Scampate all'orrore e alla morte, qui vivono in altrettanta miseria, prigioniere di un governo che vieta loro di andarsene a causa del loro collo. Quella caratteristica che le ha rese uniche è diventata infatti anche la loro peggior catena. Per la Thailandia rappresentano un'attrazione turistica imperdibile. Così, quando alcuni Paesi come la Nuova Zelanda e la Finlandia si sono finalmente dichiarati disponibili ad accoglierle offrendo loro insperate opportunità, un’istruzione, una piena cittadinanza e soprattutto un futuro di pace, loro si sono viste costrette a rimanere.
Come la giovane Mu Lon, di cui il quotidiano Times ha appena raccontato la storia. Lei è una dei tantissimi profughi costretti ad abbandonare il Burma quando ancora erano dei bambini. Dall’età di cinque anni ha sempre vissuto in Thailandia, nei villaggi di confine con uno status legale incerto. Senza speranze, né futuro. Qualche anno fa però, a lei e a sua sorella fu offerta l’opportunità d'iniziare una nuova vita in Nuova Zelanda. I certificati medici erano pronti, tutte le formalità completate e nel 2006 le due ragazze erano pronte per partire.
Siamo nel 2008 e loro, come molte altre donne, sono ancora laggiù, bloccate. E la ragione di tutto questo non ha nulla a che fare con la religione, con la politica o con il colore della pelle. Ha a che fare con l’immagine prettamente turistica che offre il loro collo. Mu Lon appartiene a quel gruppo etnico minoritario in cui l'altra metà del cielo è conosciuta come «lunghi colli» appunto o più comunemente «donne giraffa». Sin da quando sono soltanto delle bimbe si adornano il collo con pesanti bracciali di metallo che aggiungono man mano che crescono. E quell'immagine di splendide donne cigno è divenuta in questi decenni la maggiore attrazione turistica thailandese. Poco valgono per il governo thailandese queste profughe venute dal nulla se non per un elemento fisico introvabile che ha finito per siglare la loro condanna ad una perenne prigionia.
In questi due anni Mu Lon e la sua famiglia, l'alta commissione per i rifugiati e i governi stranieri ha fatto pressioni sul governo thailandese per consentire ad una ventina di donne Kayan di ricominciare una nuova vita in Nuova Zelanda e in Finlandia. Molte di loro si sono perfino tolte gli anelli rinunciando ad una tradizione secolare in segno di protesta. Sono stati minacciati dei boicottaggi turistici, ma tutto è stato vano. Le autorità si rifiutano di consegnare loro il passaporto con giustificazioni burocratiche improbabili. La vera ragione è un segreto di Pulcinella. I villaggi locali non potrebbero vivere senza l'unica merce da esporre ai turisti, le donne Kayan. Stanco di attendere Mu Lon e la sua famiglia, il governo neozelandese ha infine ceduto i loro posti ad altri profughi. Loro sono rimaste laggiù, senza diritti né assistenza. Senza risorse finanziarie, senza libertà. Esseri umani trattati come merce, rinchiuse in uno zoo dove gli animali non hanno accesso. (Erica Orsini, Il Giornale, 10 aprile 2008)
Nessun commento:
Posta un commento