sabato 3 marzo 2012

Fu Dio a creare l’uomo, o l’uomo a creare Dio?

È riscontrabile nel web un rinnovato interesse per tali argomentazioni. La cosa mi offre l’opportunità di riprendere un discorso che mi ha molto appassionato in gioventù e che ancora oggi costituisce il piatto forte (o forse la minestra riscaldata?) del “nuovo ateismo” militante contemporaneo, da Dawkins agli emuli di casa nostra.
È certamente un ragionamento intrigante, con cui ho dovuto misurarmi per la prima volta alle lezioni liceali di filosofia, affrontando lo studio della sinistra hegeliana e del pensiero di Ludwig Feuerbach (1804-72). Questo filosofo tedesco, che da giovane fu uno studente luterano di teologia, dedicò tutta la sua vita a tentar di dimostrare, con ricerche storiche, antropologiche, psicologiche ed anche gastronomiche, che non l’uomo è stato creato da Dio, ma piuttosto Dio è un concetto creato dall’uomo. Le qualità che noi uomini possediamo in misura finita (per es., la bontà, la forza, l’intelligenza, la stessa vita) e di cui però abbiamo un desiderio illimitato, le oggettiveremmo al massimo grado nell’idea di Dio, che concepiamo infinitamente buono in contrasto alla nostra finita bontà; onnipotente, in contrasto alla nostra piccola potenza rispetto alle forze naturali; onnisciente, a differenza della nostra limitata intelligenza; eterno, in opposizione alla nostra mortalità.
Dio sarebbe quindi, secondo Feuerbach, soltanto, la proiezione di questa operazione mentale promossa dalla nostra volontà di potenza. Gli ateismi di Marx, Nietzsche e Freud sono solo delle varianti di questa fulminante illuminazione, che rispondeva al quesito: fu Dio a creare l’uomo, o l’uomo a creare Dio?
Ricordo che per circa un anno della mia giovinezza ho vissuto in maniera conflittuale questo dilemma: combattuto tra le certezze della mia educazione cristiana e le lusinghe di un ragionamento che mi spingeva verso il fascino di una filosofia sconosciuta. Capivo che una definitiva accettazione dell’una o dell’altra posizione, non era solo teorica, ma avrebbe comportato scelte di vita decisive.
Sono riuscito comunque a contrastare il richiamo accattivante delle posizioni della sinistra hegeliana, cui era per gran parte asservito il clima politico e culturale dell’Università patavina degli anni ‘60-‘65, grazie proprio all’antinomia esistente tra la teoria delle tesi marxiste e la realtà oppressiva del socialismo imperante nell’Est Europa di allora.
Filosoficamente, avevo la soluzione del paralogismo feuerbachiano sotto il naso, ma non la vedevo. Poi la luce arrivò, velocemente, fino a divenire accecante. Aiutato dallo studio di san Tommaso d’Aquino, mi fecero finalmente capire, riguardo alla critica della religione di Feuerbach, che l’errore del suo argomentare non sta nella falsità della proiezione, ma al contrario nel fatto che una proiezione c’è sempre, in ogni tipo di conoscenza umana.
Mentre Aristotele sosteneva che la mente riflette senza modificazioni ciò che esiste fuori di noi (la realtà), San Tommaso attenuò la corrispondenza tra realtà ed intelletto con l’osservazione, che anticipa di molti secoli Kant: “Cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis”, il conosciuto sta in chi conosce, attraverso le modalità di chi conosce. La realtà, insomma, nel venire conosciuta si adatta ai nostri sensi e alle nostre categorie mentali. Così, non solo nell’atto di pensare Dio, ma anche nel conoscere un amico o nell’osservare un evento, mettiamo in azione l’umana struttura mentale e la personale forza d’immaginazione, aggiungiamo cioè qualcosa di noi stessi all’oggetto, sia come uomini in generale, che come persone particolari: dunque proiettiamo.
Ma questo implica necessariamente che ad una nostra proiezione non corrisponda nulla fuori di noi? È ovvio che una cosa non esiste solo perché uno, o anche molti di noi, la desiderano; ma vale anche l’inverso: non è che una cosa non esiste, solo per il fatto che qualcuno lo desidera. Qui sta il sofisma di Feuerbach, stancamente ripetuto dagli ateisti moderni che si dichiarano, sbagliando, nuovi e razionalisti: Dio non esiste, dicono, perché sono gli uomini (compresi, ahimè, loro stessi!) a desiderare che esista. Ma perché una cosa che si desidera o si teme, non deve esistere? Perché ciò che dall’alba del genere umano viene venerato, deve essere per questo motivo solo un’idea? Perché la ricerca dell’archè, il principio originario di tutte le cose, da cui sono sorte la filosofia e la scienza, dovrebbe essere un’attività insensata?
Noi cristiani non abbiamo nulla da obiettare allo scrutinio rigoroso, sotto gli aspetti storico, antropologico, psicologico o neuro-fisiologico, della nostra fede. Ma nessuno studio “scientifico” sull’anima umana (che poi vuol dire nessuna elettro-tecnica di misure neuro-encefalografiche) potrà mai dimostrare alcunché riguardo all’inesistenza di una realtà assoluta indipendente dalla psiche. Il che significa che, forse, al desiderio di Dio dei credenti può corrispondere un Dio reale, e che forse, al contrario, proprio il desiderio di un ateo che Dio non esista, potrebbe essere invece la proiezione di un suo determinato pregiudizio, magari esito di una casuale, intima, esperienza infantile, quando la sua ragione non era ancora matura. Per concludere, l’argomento della proiezione, da cui sono nati gli ateismi filosofico e psicanalitico e di cui si nutrono ossessivamente i nuovi ateisti postmoderni, ha valore logico zero come prova dell’inesistenza di Dio. Ne prendano intelligentemente atto.
 
(MaLa, da: Giorgio Masiero, Uccr, 29 febbraio 2012)


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