venerdì 16 marzo 2012

Apologia del cattolico senza aggettivi

“Cattolicone”, “supercattolico”, addirittura “cattolico talebano”. Se ne sente di ogni tipo, e soprattutto di ogni genere se ne legge sui nostri media, quelli che se la notizia non c’è la creano, quelli che la via più breve tra una persona è una cultura è un’etichetta contundente, quelli che fingendo d’informare sformano.
Il “cattolico con l’aggettivo” lo usano per mettere alla berlina quel fedele che, magari persino in politica - horribile auditu -, sa che vi sono princìpi non negoziabili cui appunto non si può rinunciare nemmeno se, per paradosso, lo si volesse; sa che quel che insegna il Magistero è irrinunciabile; sa che la verità o tutta o niente. “Cattolico d’altri tempi”, “cattolico démodé”, “cattolico integralista”: perché, qualcuno pensa che si possa restare davvero cattolici rinunziando ai pezzi sgraditi e imbarazzanti della verità cristiana? No, di certo. Un “cattolico a metà” (o anche meno) non viene del resto preso sul serio nemmeno dagli anticattolici, che per tipi così non sprecano una goccia d’inchiostro.
Volendo infatti intervenire sul cattolico a gamba tesa, dire solamente “cattolico” non basta. È disadorno, essenziale, troppo nudo. Non si riesce a fargli fare la figura del mostro sbattuto in prima pagina. E così scatta il concorso a chi la spara più grossa, a chi inventa gli abbinamenti più funambolici, a chi stupisce con gli effetti sonori più stravaganti. La caricaturizzazione, l’esagerazione e l’eccentricità servono prima per sgomentare, poi - una volta com-mossa la folla, come impongono le regole della rettòrica di Marco Fabio Quintiliano - per colpire. Vi era un tempo in cui bastava dire “cattolico”, e quel gioco era fatto. Ma oggi, che tutto è noia, serve un supplemento di spiritosaggine.
Gli è però che talvolta in questo infido tranello ci cascano pure “i buoni”, ci caschiamo anche noi che certamente siamo, se non altro, animati da intenzioni ben diverse da quelle degli “anti”. Perché, nel nostro mondo insipidito e scolorito, anche a noi sembra, purtroppo, che dire solo “cattolico” non sia sufficiente. Dovendo difenderci dai “taglia-e-incolla”, dai molti che (a sinistra e a destra) pensano di dover definire loro cosa vuol dire “cattolico”, dai troppi che non sperano più che il nome “cattolico” (nome proprio di persona), basti a salvare, ci affidiamo pure noi al tocco magico di una qualifica, all’effetto taumaturgico di un marchietto, alle virtù benefiche di un adesivo appiccicato sul grugno. Come se l’essere cattolico avesse necessità di essere definito, commentato, glossato. Sbagliamo tutti. Il mondo trabocca già di “cattolici fai-da-te” senza che vi sia il bisogno di altri cattolici a propria immagine e somiglianza. Quindi è ora di smetterla. Affinché questa parola sublime, “cattolico”, profumata e saporosa, bella e ricca, smetta di essere uno spicciolo da scialacquare in quisquilie. Dire “cattolico” deve tornare a bastare. Dev’essere una carta d’identità e un biglietto da visita. Deve servire da solo, e smettere di mendicare ausili improponibili da altri.
Il cattolico e basta è un cattolico senza aggettivi. Il malcostume di aggettivare la pienezza della verità come se senza il nostro aiuto essa non bastasse, senza il nostro contributo deficitasse, senza il nostro intervento zoppicasse va lasciato volentieri a chi ha sempre qualcosa - un aggettivo - da frapporre tra sé e quelle pienezza che non ha bisogno di rabbocchi né di rincalzi. A quelli, cioè, abituati a lasciare che il Magistero infallibile della Chiesa - donde si è cattolici - vada da una parte mentre loro se ne vanno sereni da un'altra. Ricordate quei “cattolici” bisognosi di aggettivarsi con “adulti”?


(Fonte: Marco Respinti, La bussola quotidiana, 12 marzo 2012)

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