Per uno che si chiama Massimo non è facile ammettere l’esistenza di Dio (almeno nella forma monoteista). È quasi un controsenso, deve aver pensato D’Alema che, infatti, si definì “ateo” fin dai suoi primi giorni di scuola non partecipando alle lezioni di religione. Come il bambino saccente della battuta di Walter Fontana che rispose a chi gli chiedeva se credeva in Dio: “Beh, credere è una parola grossa: diciamo che lo stimo”.
Anche quello di D’Alema col Padreterno infatti è un rapporto da pari a pari, da collega. Per questo – come si è appreso ieri dai giornali – D’Alema ha ritenuto di impartire qualche lezione al Papa sul come rappresentare gli interessi dell’Altissimo nelle vicende politiche italiane.
Eppure … Proprio il recente convegno dalemiano su “religione e politica” nasconde una inquietudine personale che – per quanto mi riguarda – osservo da tempo. Un’ansia religiosa nascosta, ma bruciante e qualche volta commovente. Per capire la quale occorre entrare nel “personaggio D’Alema” per cui io confesso una spiccata simpatia. Trovo interessante proprio l’apparenza di antipatia e arroganza dietro cui si nasconde l’uomo, con la sua complessità, la sua intelligenza e il suo spleen.
L’esordio politico del “Leader Massimo” fu fantastico ed emblematico. Infatti il piccolo D’Alema, figlio di un autorevole parlamentare del Pci, come rappresentante dei “Pionieri” scrisse da solo e tenne in pubblico, davanti a Palmiro Togliatti, un discorso così dotto che il capo comunista ammirato sentenziò: “se tanto mi dà tanto questo farà strada”. Secondo una versione apocrifa riportata da Edmondo Berselli avrebbe anche detto: “Ma quello non è un bambino, quello è un nano”. Intendendo “enfant prodige”.
In effetti fu un leader precoce. Purtroppo però c’è sempre qualche intoppo che impedisce al mondo di riconoscerlo per quello che è (o almeno giudica equanimemente di essere): un vero gigante del pensiero (politico). Che impartisce lezioni pure a Condoleeza Rice.
La natura introversa di questo statista “dei due mondi” causa la sua proverbiale ruvidità. Pur con i suoi modi bruschi però non perde occasione per regalare all’umanità il pane della sapienza (politica) che in effetti mastica assai. Ma la gente, si sa, è ingrata. Invece di mostrare riconoscenza per il fatto di venire maltrattata da cotanto ingegno (pedagogico), i più prendono cappello e lo scansano come antipatico strafottente. Lui che invece è solo sincero. Anche i suoi gesti di amicizia vengono spesso fraintesi. Per esempio al tempo del primo governo Prodi, dopo un forum all’Espresso, uno scherzoso D’Alema disse a Rinaldi e a Pansa: “Vedi, Pansa è un bravissimo giornalista, solo che di politica non capisce un…, peggio di lui c’è solo Prodi”. Il premier non la prese benissimo. Un’altra volta, al telefono, parlando sempre con Pansa e con Rinaldi, definì affabilmente Veltroni e Prodi come “i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi”. Ma aggiunse: “se lo scrivete smentirò”. Infatti appena lo scrissero lui smentì, intuendo quanto è facile che una gioviale espressione d’amicizia venga fraintesa o strumentalizzata dai maligni.
Certo, D’Alema va interpretato. Non è facile cogliere in un ceffone un attestato di stima. Eppure quando definisce Giulio Tremonti “un pensatore neoconservatore, peraltro modesto”, non dà solo prova di una solida “autostima” (come ritiene Berselli), ma – paradossalmente – anche di notevole invidia intellettuale, riconoscimento che riserva a pochissimi. La cosa dovrebbe inorgoglire il ministro dell’Economia. Peccato che i sentimenti di D’Alema non siano di immediata comprensione.
Se ci si ferma all’apparenza si può scambiare una sua nota battuta (“capotavola è dove mi siedo io”), per un segno di arroganza. È chiarissima invece, seppur lieve, l’autoironia e l’incertezza esistenziale, quella che in una delle sue rare confessioni personali gli faceva indicare in “Lezioni di piano” il film della sua vita (una sorprendente predilezione che rivela un animo molto sensibile alla bellezza e al mistero).
Il disincanto sulle umane sorti lo induce a giudizi autoironici che sfiorano la spietatezza: “La sinistra è un male che solo la presenza della destra rende sopportabile”. Queste considerazioni sono alla base della sua notevole disinvoltura tattica. È capace di stabilire le alleanze più impensabili. Anche se il tipo è solidamente fedele alle proprie idee. Sebbene passi alla storia per le polemiche sulla barca a vela o sulle scarpe, è uno dei pochi che ha osato sfidare di persona, a viso aperto, in un auditorium fiorentino, una rumorosa platea di nemici girotondini senza arretrare di un passo. Mostrando una stoffa da leader che pochi hanno (anche se – va detto – come premier non ebbe lo stesso coraggio politico e deluse).
Da quel fronte giacobino fu bersagliato di critiche anche quando presenziò alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, in piazza San Pietro. Sulle colonne del “Paìs” lo scrittore Antonio Tabucchi lo attaccò per le sue dichiarazioni, in quanto D’Alema aveva riconosciuto “la forza della fede di ramificarsi che ha la Chiesa in tutte le sue espressioni, nei suoi movimenti, nei suoi uomini, nelle sue donne”.
Altri attacchi gli toccarono quando, da presidente del Consiglio, fece visita in Vaticano a papa Wojtyla, con famiglia al seguito. Perciò sorprende che oggi lo stesso D’Alema diffidi la Chiesa dall’avvicinarsi al governo. A suo dire cederebbe “alla tentazione del potere” facendo sì che “il peso politico dei cattolici si indirizzi da una parte per ottenere in cambio la tutela giuridica di principi e valori, come aborto o fecondazione, perché diventino leggi imposte a tutti colpendo la laicità dello stato”. Che significa leggi imposte? Una legge approvata dalla maggioranza dal Parlamento è imposta? E che faceva D’Alema quando come premier visitava il Papa o presenziava alla suddetta canonizzazione? Cercava Dio o un rapporto politico? O forse entrambi? E quando, nel 1990, andò in piazza San Pietro con Veltroni e Formigoni ad ascoltare l’Angelus, grato per la sua opposizione alla prima Guerra del Golfo?
Sembra che la Chiesa debba e possa occuparsi di politica solo se fa comodo alla Sinistra. Questo sì che è asservirla. Naturalmente in ciò che D’Alema ha detto ieri c’è pure del giusto, anche quando presume di impartire una lezione al Papa dicendo: “La tentazione del potere è demoniaca e sempre, nella storia della Chiesa, è stata all’origine di misfatti”. Penso che Benedetto XVI concordi. Sennonché il pulpito non è dei migliori, essendo stato D’Alema un dirigente del Pci, parte di quel movimento comunista internazionale che sulla natura demoniaca del potere la sa lunga. Così è anche curioso che D’Alema rinfacci i “misfatti” della Chiesa “di cui Giovanni Paolo II ha dovuto chiedere perdono”, venendo da quel comunismo internazionale che non ha chiesto perdono di nessuno dei misfatti compiuti (specialmente contro la Chiesa).
È strana questa sinistra. Domenica sull’Unità, il giornale più anticristiano su piazza, è apparso un alto lamento di Vincenzo Cerami intitolato “Cristianesimo”. Denunciava la fine della solidarietà nella nostra società. Diceva: “Il cristianesimo in Italia è al lumicino. È ormai palese. Oggi qui da noi con l’aria che tira metterebbero san Francesco in galera… L’Italia ha dimenticato che Gesù è stato inchiodato alla croce proprio perché aveva scelto i poveri in spirito”.
Ma chi ha cancellato Cristo dall’anima del Paese? Recentemente la Sinistra ha pure osannato il suo Piergiorgio Odifreddi per il libello “Perché non possiamo essere cristiani”, dove si legge che il cristianesimo è “una religione per letterati cretini” ed “è indegno della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo”. E poi si lamentano che è scomparso il cristianesimo? Non dicevate che è un bene che scompaia? D’Alema che ne dice? (Antonio Socci, Libero, 27 maggio 2008)
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