Chisimaio, porto sulla costa somala a pochi Km dal Kenia, era un nome esotico ed evocativo per i nostri nonni e bisnonni. Sulla foce del fiume Giuba era uno dei pochi angoli tropicali del nostro “impero coloniale”, una delle poche terre senza sabbia e pietraie. Era anche “capitale” della stravagante colonia d’Oltregiuba, una striscia di terra che prolungava a sud la Somalia, magra consolazione per i morti della prima Guerra Mondiale.
Qualche km quadrato di bananeti e di palmeti lungo la costa e steppe semidesertiche nell’interno, fu ceduto dall’Inghilterra all’Italia in base al protocollo di Londra del 15 luglio 1924, così da far sembrare meno amara la frustrazione dei progetti espansionistici italiani in Dalmazia e nell’Egeo.
Nel periodo coloniale italiano Chisimaio divenne la terza città per importanza politica, economica e sociale della Somalia; dal suo porto partivano le bananiere verso la madrepatria, quando il regime fascista impose che in Italia si potessero vendere solo banane somale. Oggi Chisimaio e il suo hinterland sono terra di nessuno e forse molti dei suoi abitanti, ascoltando i racconti dei vecchi, rimpiangono quegli anni e il “monopolio bananiero”.
Da anni la Somalia intera è teatro di scontri tra le bande armate dei “signori della guerra”. In particolare nel sud dettano legge i miliziani delle “Corti islamiche”, la versione somala dei Talebani, ed è la dura legge della “Sharia”. Lo scorso 28 ottobre la Sharia è stata applicata a Chisimaio. Ne ha fatto le spese Aisha Ibrahim Duhulow, accusata di fornicazione e quindi lapidata. Tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, Aisha è stata sepolta sino al collo in una buca e poi uccisa a colpi di pietra.
Aveva 23 anni, addirittura 13 secondo le fonti di Amnesty International. Eppure è passata tra le brevi di cronaca, qualche accenno in tv, qualche trafiletto sui giornali – non tutti – pochi commenti, la maggior parte sulla stampa cattolica, da sempre abituata ad uno sguardo che va oltre il balcone di casa. Niente “sit-in”, nessuna delle “fiaccolate” di rito, nessuna manifestazione, nessun corteo, nessun slogan, nessuno striscione. Semplicemente non interessa o come si dice oggi non fa “odiens”.
Ad Aisha è andata male! Purtroppo per lei, è stata uccisa in Somalia a sassate e non in una prigione dal Texas: eggià i morti ammazzati non sono tutti uguali! Purtroppo per lei, è morta in un periodo di crisi finanziaria: si sa che la borsa val ben più della vita! Purtroppo per lei, è stata uccisa in osservanza ai dettami della legge islamica: l’islam non si tocca né si critica perché fa troppa paura all’Occidente codardo; con l’islam vige il comandamento del dialogo, ma rigorosamente con la “coda tra le gambe” e le “braghe calate”!
Per togliersi, ogni tanto, qualche sassolino dalle scarpe, verrebbe da chiedersi dove son finiti tutti quegli sbraitanti giornalisti, uomini di cultura, liberi pensatori, quelli che fanno le pulci a Pio XII e, falsamente, lo accusano di complici silenzi. Perché tacciono davanti a tanta barbarie? Perché non pretendono pubbliche condanne, inchini e scuse almeno dagli imam di casa nostra? Perché non chiedono ad Arabia Saudita ed Emiri del Golfo di prendere la distanza e di rigettare tali pratiche? Forse hanno paura che qualche sasso di rimbalzo colpisca anche loro o forse, abituati a criticare il passato, han finito per estraniarsi del tutto dal presente.
E poi c’è la politica internazionale che ha abbandonato la Somalia, fintanto da far diventare le sue coste, in pieno 2008, covi di pirati che assaltano le navi, come ai tempi dei Bucanieri dei Carabi. Interessi, strategie, equilibri, che ci sfuggono tanto sono più grandi di noi, ma che pure ci inquietano e ci fanno indignare, tanto lontani dall’umanità e dal diritto sono a volte i criteri della politica mondiale. Angoli del mondo sui quali i riflettori dei notiziari fanno fatica a posarsi, ma dove un’umanità desolata continua a soffrire e a morire. Una storia tutta da riscrivere, compreso il mito della decolonizzazione africana che proprio nel Corno d’Africa, Somalia, Etiopia ed Eritrea, ha registrato uno dei suoi più clamorosi fallimenti.
Chisimaio, deriva il suo nome da due vocaboli kibajuni, la lingua dei suoi fondatori, “Kisima”, cioè “pozzo”, e “yu”, cioè “profondo”, cosicché il nome della città significa “pozzo profondo”. Il pozzo in Africa è vita; se è profondo significa acqua sempre, anche nella stagione secca, quando la pioggia non cade per mesi. Significa allevamento, agricoltura, raccolti, gioia, festa, colori, danze e suoni. Il silenzio e l’indifferenza del mondo non lo condanni a diventare un’ennesima foiba di orrore. (don Maurizio Cerini, Rassegna stampa, 27 novembre 2008)
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