giovedì 13 novembre 2008

Scienza e lustrini al San Raffaele

Biologisti disinvolti, filosofi cari alla sinistra radical chic, matematici relativisti. All’ateneo fighetto di don Verzé gli intellettuali italiani giocano alle celebrità. L’importante è far notizia.
Nel mondo accademico milanese nei tempi più recenti non erano mancate certo iniziative di rilievo. Basti pensare ai due nuovi poli universitari di particolare impegno, la Bovisa e la Bicocca, uno germinazione del Politecnico e l’altro della Statale, decollati nell’ultimo decennio nella periferia già industriale della città. Ma niente ha saputo eguagliare, quanto a luccichio e a sovraesposizione mediatica, la nuova Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele. A Palazzo Borromeo di Cesano Maderno, in un fantastico stile barocco lombardo con 3.700 metri quadrati di affreschi, un nugolo di aspiranti filosofi teologi scienziati e liberi pensatori hanno intrapreso la più bizzarra ed estroversa forma di produzione intellettuale di matrice “cattolica” nata grazie ai fondi della casa di alta moda Prada. L’iniziativa è stata promossa dalla strana coppia Massimo Cacciari-don Luigi Verzé, il celebre prete che nel 2004 aprì alla ricerca con le staminali embrionali al motto di «nulla può fermare la scienza» (per poi rimangiarsi il frettoloso lapsus scientista). Cacciari, intellettuale coccolato dalla gauche caviar ulivista, sempre pronto a commenti prêt-à-porter, ma dalla lunga prospettiva strategica. L’altro, Verzé, faticone della sanità privata, spesso vituperato dalla stessa gauche caviar che santifica Cacciari. Le recenti polemiche fra la filosofa relativista Roberta de Monticelli, arruolata da Verzé, e l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, a proposito del fine vita e dell’annessa libertà di coscienza, hanno riportato il San Raffaele al centro dell’attenzione. Sono passati, ma non tutti sono rimasti, dalla prestigiosa facoltà milanese, quell’Enrico Bellone noto fustigatore dell’arretratezza scientifica italiana ovvero dell’oscurantismo patrio di matrice cattolica; il biologista Edoardo Boncinelli, quello di «ci vuole un bel coraggio per chiamare individuo una masserella di cellule»; l’evoluzionista Luca Cavalli-Sforza, quello di «la previsione di malattia genetica del nascituro e la successiva interruzione di gravidanza non sono operazioni eugeniche, ma semplicemente un trattamento profilattico»; tale Piergiorgio Odifreddi e anche l’heideggeriano Emanuele Severino che ha avuto un bel po’ di problemi accademici con le alte sfere della gerarchia cattolica. Lo sperimentalismo di Verzé assume spesso tratti parossistici. Oggi la star di questo proscenio teologico-intellettuale è Vito Mancuso, il pensatore che digerisce temi vecchi e nuovi dell’agenda ecclesiale con quel suo piglio genialoide da outsider un po’ nicciano, il quale dice addirittura di non vedere «molta differenza tra bin Laden con le sue stragi di “fedeli crociati” e l’inquisitore cattolico di Verona con la sua strage di “infedeli catari”, oppure tra i talebani che hanno distrutto la statua del Buddha e il papa e i cardinali che costrinsero Galileo ad abiurare l’eliocentrismo». Mancuso, la nuova star. È lui ormai il teologo di punta della Facoltà teologica di Milano. Sul magistrale discorso di Ratisbona, pietra miliare della rifondazione del dialogo fra cristianità e islam, Mancuso si domanda: «Perché il Papa, per dire che la fede non si diffonde con la violenza, ha sentito ancora il bisogno di distinguere così fortemente il Dio cristiano dal Dio islamico? Io penso che il compito principale al quale la Chiesa non deve venire mai meno rispetto al mondo sia favorire la riconciliazione e l’armonia tra i popoli». Di teologia biblica e patristica si occupa invece il monaco multiculturalista Enzo Bianchi, fondatore e priore, dal 1965, della comunità di Bose, nel biellese, in cui vivono una settantina di monaci, uomini e donne. Tra un dibattito e un sermone, tra un editoriale contro le maledette guerre di Bush e una meditazione sui padri del deserto, il monaco Enzo Bianchi sembra sempre più a proprio agio nei panni del guru cristiano prêt-à-porter. La sua versione è che il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, che ci fa parlare da sempre di cultura “giudaico-cristiana”, vada equiparato (a scanso di risentimenti musulmani) a quello tra cristianesimo e i-slam. Più politicamente corretto di così. C’è sempre di che polemizzare con le idee che escono da questa sfavillante università milanese. E forse senza la cittadella di Verzé il dibattito culturale sarebbe ancora più morto di così. Certo, però, è curioso che un’università cattolica come il San Raffaele, più che a interpretare lo spirito del tempo, sembri votata alla sua giustificazione. (Giulio Meotti, Tempi, 20 ottobre 2008)

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