Per diventare cadaveri eccellenti bisogna morire in buona compagnia: come a dire che se a Mumbai non ci fossero state le vittime occidentali, inglesi tedesche italiane, ad affiancarsi ai cadaveri indiani, anche questa volta la tragedia sarebbe passata quasi inosservata. E invece è esplosa sul sempre più choccante mercato della comunicazione del terrore anche grazie a una strategia diversa che andava a cercare bersagli occidentali e portava l’attacco ai lussuosi indirizzi del turismo internazionale.
E’ dunque questo il misero bilancio etico della strage di Mumbai: vittime di serie A e di serie B, doppio standard in materia di diritti umani, due pesi e due misure anche nel momento estremo della verità? Insomma i morti si pesano e non si contano? «I morti purtroppo non sono eguali, ci identifichiamo di più con il connazionale a rischio perché proprio la globalizzazione ha scatenato nuovi giochi di identità. E poi ci angosciamo di più a vedere assediato quell’albergo dove magari siamo stati o dove volevamo andare a Natale, e ora ci tocca pure cambiare le vacanze, e scegliere la più sicura Sicilia».
Così Andrea Riccardi professore di Storia contemporanea che nel ’68 è andato controcorrente, ha riletto il Vangelo e ha fondato la comunità di Sant’Egidio. Mentre un altro professore di Storia contemporanea, il laico Giovanni Sabbatucci, risponde alla domanda enunciando una specie di legge al riguardo: «C’è sempre una correlazione inversa fra il grado di coinvolgimento nella tragedia e la distanza, sia essa fisica o culturale. Non si giustifica eticamente, ma è innegabile che sia così».
Anche se, continua Sabbatucci, questa legge sembrerebbe contraddetta dallo scarso rilievo dato dai media europei alle persecuzioni cristiane in India: anche qui una congiura della distrazione perché soltanto quest’estate, in Orissa, stato dell’India orientale, sarebbero stati massacrati (secondo il partito comunista del luogo) cinquecento cristiani: «A Kandhamal siamo stati trattati peggio degli animali: ogni cosa indegna, ogni tortura è stata possibile contro di noi» secondo la testimonianza di padre Bernard Dighal ad AsiaNews . Ma in realtà — continua Sabbatucci — questa scarsa attenzione mediatica ai martiri non contraddice la legge di cui sopra, perché ormai «non sussiste più la comune appartenenza alla cristianità come un dato primario». Insomma, secondo lo storico, è un altro dato di fatto che le radici cristiane, nonostante i tentativi di ravvivarle anche da parte di grandi laici politici (per esempio Nicolas Sarkozy) e intellettuali (Jürgen Habermas e Bernard-Henri Lévy), sono, nella percezione comune, meno forti di un tempo.
In realtà il cristiano perseguitato fa «un po’, ma solo un po’ notizia se è italiano» aggiunge Riccardi. «Anche se spesso gli rinfacciano di essersela andata a cercare mettendosi a rischio. E invece io penso che queste persone disorientino perché sono testimonianze conturbanti per il nostro mondo europeo infragilito». Martiri così diversi — continua Riccardi — da quelli musulmani perché danno la vita e non la tolgono, portano spesso nuove aperture e sono segno di contraddizione. In Orissa, per esempio, i cristiani indiani «avevano grande capacità attrattiva perché in nome dell’eguaglianza evangelica volevano far uscire i paria dalle caste». E i cristiani iracheni, che erano in Mesopotamia molto prima dell’Islam, sono stati combattuti come agenti dello straniero e visti come avamposti dell’Occidente: «motivi speciosi: in realtà osteggiati in quanto unica presenza non armata nel caos tribale dell’Iraq».
Cattolico e medievalista, gran conoscitore dell’universo musulmano Franco Cardini sostiene che il clima contro i cristiani negli ultimi anni è molto peggiorato e mette in guardia contro l’idea un po’ edulcorata che abbiamo delle religioni in India che «non sono pacifiche ma piuttosto militari come il buddismo, o persecutorie come i sik e gli indù. Siamo di fronte a una religionizzazione della politica e il modo migliore per neutralizzarla è quello su cui ha insistito il Santo Padre, mai abbassare la guardia sul dialogo». Ma, visto che l’Islam è una fede distinta in un numero indefinito di comunità autocefale — il che vuol dire che ogni comunità risponde solo a se stessa — trovare l’interlocutore non sarà facile. (Maria Luisa Agnese, Corriere della sera, 28 novembre 2008)
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