giovedì 19 marzo 2009

Il metodo di Benedetto XVI

Niente di più ottuso del giudizio ritornante [da ultimo con Alberto Melloni sul “Corriere della Sera” del 15 marzo] che addita già nella lezione di Ratisbona un incidente da colpevole imprudenza – in quel caso nei confronti del mondo islamico –, il primo di una serie di incidenti di percorso del pontificato di Benedetto XVI, l’ultimo dei quali sarebbe ravvisabile nella remissione della scomunica ai vescovi della Fraternità di San Pio X.
Un recente articolo del medievista tedesco Kurt Flasch rappresenta un bell’esempio di arrogante superficialità in questa direzione, anche in quanto proviene dall’intelligencija accademica cattolica. Per Flasch le responsabilità di un pontificato intessuto di errori andrebbero, addirittura, equamente divise tra l’autoisolamento di Joseph Ratzinger e i limiti stessi della svolta conciliare, colpevole di non aver intaccato il primato petrino. Una lettura estrinseca, e una assoluta incomprensione.
Già allora era evidente come vi fosse una linea inconfondibile nella importante lezione di Benedetto XVI nell’aula magna dell’università di Ratisbona: la decisione di non evitare la “pars” critica entro un disegno dialogico. La profonda visione strategica di papa Benedetto sembrava operare ad integrazione del magistero di Giovanni Paolo II, usando quel delicato e fermo discernimento sui temi della verità e della ragione che Joseph Ratzinger cardinale aveva esercitato, come prefetto della congregazione per la dottrina della fede, sui disastri teologici maturati entro la Chiesa postconciliare. Un’opera difficile, poiché derive e squilibri nell’intelletto cattolico avevano indotto errori antagonistici, ad esempio nell’ampia e differenziata area delle reazioni “tradizionalistiche”.
Che il discernimento e la sanzione dell’eccesso dovessero essere intesi come leale, fattiva, premessa all’incontro è risultato dagli atti successivi di Benedetto. Poiché la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano è il vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione – realizzazione che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato – gli atti di pace iniziano necessariamente da quelle aree di sofferente ortodossia “tradizionale”, anche se troppo esibita, che si richiamano alla storia preconciliare. Solo un uso politico del Concilio, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, i secoli di vitale, autentica Tradizione cui i tradizionalisti cattolici si richiamano.
Dico subito che, come la sollecitudine per l’integrità della storia liturgica, anche la nuova apertura alla Fraternità di San Pio X è, in Benedetto, ordinata a ricondurre la vita cattolica alla sua essenziale natura di “complexio”. La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazione soggettivistica, che operano non solo nelle sperimentazioni avanzate, ma anche nella pastorale corrente. La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della riconciliazione nel seno della Chiesa diviene parte di un più ampio intervento medicinale per la Chiesa universale.
Già le stesse violente reazioni negative al motu proprio “Summorum pontificum” confermavano senza volerlo l’urgenza dell’azione medicinale di papa Benedetto. Nelle pazienti pagine di chiarimento degli intenti del “Summorum pontificum” si affermava che il rito latino non è un altro rito, che la sua presenza nel popolo cristiano è memoria costruttiva, e la sua celebrazione legittima e opportuna. La ricchezza longitudinale, per dire così, storico-tradizionale della “complexio” è, dunque, il dato primario cui attingere; e così deve intendersi di conseguenza la “moderatio sacrae liturgiae” esercitata dal vescovo-liturgo. E il vescovo non dovrà ignorare che la nuova libertà delle comunità “tradizionali” opera da correttivo, se non da risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, prima ancora e più gravemente, ideologica spesso consumata nel Novecento contro la stessa costituzione “Sacrosanctum Concilium”, con la cancellazione di fatto dello spirito liturgico, quasi lasciando intendere ch’esso fosse o fosse diventato inadeguato sia come “lex orandi” sia come “lex credendi”.
L’azione riformatrice del pontefice si conferma, dunque, rivolta contro una lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” del Concilio che è stata data da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche ed è lentamente penetrata nei laicati parrocchiali. Slittamenti che hanno una preoccupante incidenza sulla fede. Si tratterà sempre, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare “opportune et importune” l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassano soglie estreme di tollerabilità. In effetti lo spazio di tolleranza, implicito nella ricerca e nella condotta dialogica, ha i suoi confini teorici e pratici, richiesti dalla logica stessa del confronto aperto.
Da ciò, ogni volta, arrivano degli “scandala”, previsti e non previsti, ma opportuni nel disegno di Dio. Che si tratti dell’intenso confronto con l’islam, o della dedizione al dialogo con gli ebrei (una riconciliazione nella chiarezza del peculiare compimento della storia sacra in Cristo), o della cura per l’unità della Chiesa nell’unità della tradizione vivente, i contingenti “scandala” e il loro sofferto superamento portano a coscienza, nelle parti in causa, proprio le soglie critiche che il cammino di Pietro, e la sollecitudine di Roma, attraversano.
Questo cammino di Pietro è a vantaggio di tutti. Vana e un po’ indecente, rispetto al movimento profondo del pontificato, è la “sprungbereite Feindseligkeit” che la lettera del 10 marzo denuncia, quel gusto di inimicizia e piacere di aggredire Roma, che attendono solo l’occasione per manifestarsi senza responsabilità e, davvero, senza intelligenza.
Il percorso di reintegrazione dei vescovi della Fraternità di San Pio X nella comunione ecclesiale costituisce, alla luce di quanto detto, un ulteriore profondo e coraggioso atto sovrano, complementare al “Summorum pontificum”.
La speranza che mi sembra di cogliere dalla decisione di Benedetto XVI è quella di essere, di persona e costantemente, la prova della essenziale presenza della Tradizione tra noi, presenza che valga da medicina al contemporaneo disorientamento, pastorale e dottrinale, delle comunità cristiane; disorientamento non infecondo, ma non per questo meno bisognoso di una amorosa, ferma guida. E non vi è dubbio che procedere in questa direzione sia importante e urgente. Di più urgente, dirà la lettera, di prioritario, per il successore di Pietro vi è il “confirma fratres tuos” (Luca 22, 32), che ha un contenuto sovrano: “aprire agli uomini l’accesso a Dio, non a un qualsiasi dio, ma quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto fino alla fine in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Basti pensare che la non-accettazione del magistero del Concilio, o la più contingente disapprovazione degli atti ecumenici di Benedetto XVI, da parte dei membri della Fraternità, sono almeno simmetriche per gravità alle recezioni discontinuistiche del Concilio, quando esse si pongono come eversive della tradizione dei Concili antichi: ad esempio il serpeggiante anticalcedonismo delle scuole teologiche, o l’antagonismo alla cristologia dei Concili nel biblicismo cattolico riduzionista.
Colpiscono, non positivamente, i modi della reazione di alcuni episcopati alla revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità. Viene da chiedere: di fronte a quali loro indiscutibili ricchezze certi episcopati pensano che si possa “lasciare andare alla deriva” il patrimonio di fervore, carismi e probabilmente santità, “quell’amore per Cristo e volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente”, racchiuso (magari a rischio di restarvi congelato) negli uomini e nelle donne della Fraternità di San Pio X? Si deve dire con franchezza che alcune gerarchie nazionali meglio farebbero ad analizzare le proprie drammatiche incapacità di affrontare il presente: la loro tolleranza, o impotenza, verso teologie devianti e programmatici abusi disciplinari e liturgici, come verso la permeabilità di cleri e laicati qualificati a ideologie e politiche secolarizzanti.
È forse la difficoltà, la dolorosità, di questa analisi per molte élite cattoliche mondiali che le spinge, con un meccanismo tipico dell’intelligencija di ogni epoca, a isolare un gruppo come la Fraternità “al quale – scrive il papa – non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter scagliarsi tranquillamente (ruhig) con odio”. Un capro espiatorio tabuizzato, che non può essere avvicinato, neppure dal papa, senza divenire immondi agli occhi di quella stessa intelligencija.
La domanda provocatoria, elevata dai critici contro Joseph Ratzinger: “Ci dica il papa se dobbiamo ancora seguire il Concilio o ritornare alla Chiesa del passato”, è una conferma di questa “vittimizzazione” (nel senso di René Girard) del preconcilio e dei suoi difensori. Ma che i segni preferenziali per la selezione della vittima espiatoria siano il catechismo di Pio X o la messa tridentina, indica quanta falsa scienza sottende la violenza e il disprezzo di cui sono stati fatti oggetto i membri della Fraternità. Girard sostiene, infatti, che il meccanismo del capro espiatorio funziona come “una falsa scienza, una grande scoperta, una rivelazione”.
Nella recente vicenda il disprezzo vittimizzatore ha trovato un pretesto da manuale nella “deformità odiosa” oggettivamente riscontrabile su alcuni, il “negazionismo”. Su questo solo una glossa: sarà istruttivo vedere come reagiranno da ora in poi i protagonisti del “crucifige” contro il vescovo Williamson di fronte al negazionismo strisciante, e neppur tanto nascosto, dell’intelligencija mondiale anti-israeliana.
Leggo un passo decisivo della lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 10 marzo scorso: “Non si può congelare (einfrieren) l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità [di San Pio X]. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori (Verteidiger) del Concilio, deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale (Lehrgeschichte) della Chiesa. Chi vuole essere obbediente (gehorsam sein) al Concilio deve accettare la fede professata nel corso dei secoli (den Glauben der Jahrhunderte, la fede dei secoli) e non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.
Priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro è dunque “condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia”, non un dio qualsiasi. Si è subito provveduto, in Italia, [con Enzo Bianchi su “La Stampa” di domenica 15 marzo,] a dare benevolmente dei contenuti innocui e riduttivi alla sollecitudine petrina per questa fede “professata nei secoli”. Essa dovrebbe promuovere, si è scritto, non “inimicizia verso l’umanità di oggi, ma il desiderio di impegnarsi giorno dopo giorno per migliorare la convivenza civile, combattere l’idolatria sempre rinascente, frenare il decadimento nella barbarie, favorire la pace e la giustizia”. Quando invece si sa che la diagnosi ratzingeriana della contemporanea “Orientierungslosigkeit”, mancanza di orientamento, esprime proprio amicizia, non inimicizia per l’uomo.
Certo, non si vede a che serva “l’intera storia dottrinale” della Chiesa se, a coronamento di tutto, si risolvono l’assiduità con la Parola di Dio e la differenza cristiana in istanze di ordinaria moralità pubblica, buone a tutti gli usi, anche a contingente polemica politica. Basterebbe a costoro il residuo cristiano della religione civile di Rousseau, magari equivocata con il messaggio traente e rivoluzionario del Concilio.

(Fonte: Pietro De Marco, Settimo cielo, 17 marzo 2009)

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