La crisi che nelle ultime settimane ha investito violentemente il governo della curia romana - oltre alle critiche ebraiche per la preghiera del venerdì santo reintrodotta col Motu proprio Summorum Pontifìcum e alle polemiche austriache per le dimissioni che è stato costretto a rendere (sono state accettate ieri dal Papa) il vescovo ausiliare di Linz Gerhard Maria Wagner, importanti sono i malumori per la scomunica revocata ai lefebvriani e al vescovo negazionista quanto alla Shoah Richard Williamson - sembra non aver toccato più di tanto Joseph Ratzinger. Una dimostrazione di ciò la si è avuta sabato scorso. Mentre la maggioranza dei presuli e dei porporati parlava della necessità di "sfruttare" il caso Williamson per mettere in campo quella riforma della curia che porti nei posti di comando gente più capace di tradurre in azioni di governo la mente illuminata del Pontefice, lui, Benedetto XVI. ha preso una decisione che è sembrata andare nella direzione opposta. Invece di mantenere l'accorpamento di due dicasteri sulla cui utilità sono in molti a nutrire dubbi - il pontificio consiglio di Giustizia e Pace e quello per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti - li ha di nuovo smembrati, lasciando al cardinale Renato Raffaele Martino (anche se ancora per poco) Giustizia e Pace e affidando i Migranti e gli Itineranti al segretario della congregazione per le Chiese Orientali, ovvero monsignor Antonio Maria Vegliò, presule di 71 anni compiuti. Un controsenso, dicono in molti. Possibile?
Possibile che il Papa non si renda conto che è di altri interventi che la macchina della Chiesa necessita? Possibile non capisca che quella «sporcizia» che nel 2005 - nella Via Crucis che aveva preceduto di pochi giorni il conclave che lo elesse al soglia di Pietro - aveva denunciato essere presente nella Chiesa. sia ora da spazzare via con atti di comando forti, trancianti? Possibile che non comprenda come. senza un governo capace e competente, azioni come la lectio di Ratisbona, la nomina del polacco Stanislaw Wielgus ad arcivescovo dì Varsavia, la revoca della scomunica ai lefebvriani, e ancora (tanto per fare qualche esempio significativo) la puntualizzazione della differenza esistente tra le «chiese» cattoliche e ortodosse e le «comunità» protestanti (quante polemiche seguirono il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" redatto nel 2007 dalla congregazione per la Dottrina della Fede!), non possano non essere destinate a subire forti critiche le quali, proprio perché provenienti anche dall'interno della Chiesa, ne minano valore e importanza? Non si può rispondere a queste domande senza capire come Benedetto XVI concepisca il governo della Chiesa, lui che più di altri cardinali ne conosce meccanismi e ingranaggi. E, per farlo, occorre necessariamente tornare al 1968, a quell'Einführung in das Christentum (Introduzione al cristianesimo), nel quale, a un certo punto (pagine 333 -334 dell’edizione Queriniana - Vaticana, 2005), egli scrive queste parole: «I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. Essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa realmente sia la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte dì vita. [...] Ciò non vuol dire che bisogna lasciar tutto così com’è e sopportarlo così com' è. Il sopportare può esser anche un processo altamente attivo...». Quella di Ratzinger non è una scomunica dell'attività governativa della Chiesa. Ma, semmai, è una presa di coscienza che non è innanzitutto lì, nell'attività di comando, che la Chiesa gioca la sua partita più decisiva. Il Ratzinger Pontefice, l'uomo delle grandi idee, di una visione della modernità filosofica ma insieme religiosa e pneumatica, dell'ancoraggio alla rivelazione, ai padri della Chiesa, il sacerdote che ha vissuto il Vaticano II in pienezza d'effervescenza e che gode di una preparazione teologica sinfonica come pochi all' interno dell'attuale collegio cardinalizio, è ben consapevole del fatto che gli servano i giusti canali per tradurre il proprio pensiero in azioni di governo, ma è anche consapevole che il governo, il comando, non è tutto e soprattutto non è il tutto del suo pontificato. Nonostante vi sia chi ritiene che adesso, nelle scelte che Ratzinger sarà chiamato a prendere nel post "caso Williamson" - perché qualche decisione importante verrà pur presa: sono, infatti, parecchi i capi dicastero in scadenza, e di loro parleremo nelle prossime puntate di questa inchiesta - egli si giochi la credibilità dell'intero pontificato, lui, Benedetto XVI, è invece conscio che la partita più importante si gioca altrove, ovvero nel popolo che crede, che vive la fede con semplicità. Ciò non significa che per il Papa il "lavoro sporco", quello del governo, sia da disprezzare, ma significa che quest'ultimo risiede su un piano inferiore rispetto alla prima attenzione che tutti, cardinali, vescovi e semplici fedeli debbono avere: la cura della fede, l'unico dono che porta la vita rigenerando e riformando, dall'interno e all'occorrenza, la Chiesa stessa. Non si può comprendere Benedetto XVI e il suo pontificato senza tornare qui. Ogni analisi sul governo della Chiesa di Ratzinger non può non avere questa premessa. Non per niente, quanto a governo, quanto a spostamento di uomini da un posto all'altro, la pazienza di Ratzinger è proverbiale, a tratti addirittura eccessiva: «sopportazione attiva» è il termine che lui usa in quell'Einführung in das Christentum. Lui è fatto così. Lui che dal 25 novembre 1981 al19 aprile 2005 è stato prefetto della Dottrina della Fede, il dicastero dove sono custodite pagine e pagine dettagliate riguardanti tutti gli uomini di governo del Vaticano, sulle nomine, su quella riforma della curia attesa e auspicata da tutti e che lui più di altri potrebbe mettere in campo con cognizione di causa, ha deciso d'essere magnanimo. Ha deciso di lasciare in posti cruciali uomini probabilmente meno competenti di altri, al fine di salvaguardare le singole sensibilità di ognuno e, insieme, il desiderio di tutti d'essere, più o meno, utili. Certo, a volte servirebbe altro. E Ratzinger lo sa, tanto che nelle prossime settimane finalmente qualcosa si muoverà. Anche lui è stato ed è consapevole di quanto ci sarebbe bisogno di una scure per tagliare il marcio e far crescere un nuovo germoglio. Ma spesso ha voluto non agire. Perché lui, Benedetto XVI. preferisce avere pazienza, consapevole - qui sta il punto - che il governo non è tutto e che sopportare può comunque essere un'azione che porta frutti positivi. E forse, oggi, molti di coloro che accusano il Papa e il suo più stretto collaboratore. il segretario di Stato Tarcisio Bertone, di una certa inefficienza rimpiangendo, nel contempo, il pontificato precedente, farebbero bene a ricordare. Molti di coloro che oggi rimpiangono il governo wojtyliano (sia il primo Wojtyla, quello con Agostino Casaroli segretario di Stato, che il secondo, quello con Angelo Sodano), infatti, sono gli stessi che con Giovanni Paolo II al comando rimpiangevano Paolo VI, Giovani XXIII e, addirittura, Albino Luciani: «Quanto sarebbe potuto avvenire - dicono costoro - se Luciani fosse vissuto più a lungo...". Ma dimenticano che anche il governo di Wojtyla aveva dei punti deboli. Anche Giovanni Paolo II «Il Grande», per usare una definizione coniata dal cardinale Angelo Sodano nella messa di suffragio celebrata per lui il 4 aprile 2005, anche il Papa di Wl indiscusso carisma e sguardo profetico, dovette fare i conti con una gestione del potere non sempre facile, una gestione che dopo ventisei anni e mezzo di pontificato rappresenta un lascito pesante per le spalle, pur larghe, del suo successore.
Ai tempi di Giovanni Paolo II governare la curia romana era difficile almeno tanto quanto oggi. Nella prima parte del suo pontificato Wojtyla dovette lavorare con Agostino Casaroli, il cardinale segretario di Stato eminente rappresentate in Vaticano della Ostpolitik di brandtiana memoria. Una linea poi portata avanti dal cardinale Achille Silvestrini, per svariati anni segretario del consiglio per gli Affari Pubblici e dal suo vice, oggi arcivescovo di Vilnius, il cardinale Audrys Juozas Backis. In sostanza, il Papa della resistenza al regime comunista, così come gliela aveva insegnata il primate di Polonia Stephan Wishinsky, dovette collaborare col principale fautore nella Santa Sede di accordi, concessioni e aperture verso i paesi del blocco sovietico. Furono due visioni politico-ecclesiologiche diverse e divergenti a incontrarsi e, spesso, a scontrarsi.E anche col successore di Casaroli, il cardinale Angelo Sodano, il lavoro non fu semplice. Da una parte il Papa era aiutato nel governo, ogni giorno con sempre maggior peso, dal suo segretario particolare don Stanislaw Dziwisz.
Dall’altra un contropotere rispetto a questa unione era rappresentato proprio da Sodano, il quale col duo Wojtyla-Dziwisz, più che collaborare, cercava di trattare.
Soprattutto negli ultimi anni dell’era Wojtyla, quando il Pontefice sempre più ammalato faticava a tenere le fila di tutto, era anche la bravura del portavoce Joaquin Navarro-Valls a mascherare tante difficoltà. Una bravura della quale oggi si sente fortemente la mancanza.
Oggi, appunto: le cose vanno diversamente rispetto al passato. Il duo Ratzinger-Bertone è parecchio affiatato. Per molto tempo hanno lavorato assieme quando Ratzinger era prefetto della congregazione per la Dottrina delle Fede e Bertone ne era il segretario. E oggi nessuno può dire che il segretario di Stato non sia un fedelissimo del Papa.
Eppure, le critiche non mancano. Eppure, qualche evidente problema di governo c’è. Ed è principalmente a motivo di un governo non pienamente efficiente, prima che per colpe di mala comunicazione, che la Chiesa è dovuta sbandare più volte e in modo pericoloso. Soprattutto tre anni fa con la crisi diplomatica verificatasi col mondo islamico a seguito della lectio di Ratisbona. E poi quest’anno, col caso Richard Williamson che ha inquinato parecchio i rapporti, per la verità atavicamente rattrappiti, con gli ebrei.
Il problema di governo è ascrivibile da una parte alla segreteria di Stato, dall’altra a tutti quei capi dicastero che, oramai in età pensionabile, sono chiamati a responsabilità probabilmente troppo onerose per le loro energie. Dei capi dicastero in scadenza e della nuova curia che il Papa potrebbe disegnare nel 2009 parleremo domani, nell’ultima puntata di questa inchiesta.
Qui parliamo della segreteria di Stato dalla quale, come hanno sostenuto non a torto diversi osservatori, Benedetto XVI dovrebbe iniziare la sua personale cura a seguito del caso Williamson.
Ratzinger ha scelto Bertone perché è una persona di cui sa che si può fidare. E in futuro non è di lui che farà a meno. Anche perché lo stesso Pontefice è consapevole di come parecchia mala gestione nell’attuale segreteria di Stato non sia imputabile a coloro che ne hanno la responsabilità ma anche e soprattutto a problematiche strutturali. Quali? Occorre partire da Sisto V. Papa Felice Peretti, alla fine del 1500, ebbe la brillante intuizione di impostare una gestione del governo della curia romana altamente democratica, diciamo orizzontale. La segreteria di Stato non era, come invece è oggi, un super ministero. Ogni capo dicastero rendeva direttamente conto del proprio operato al Papa e tutti erano di pari grado. E così fino a Giovanni XXIII. Paolo VI, invece, forte di svariati anni trascorsi a lavorare in segreteria di Stato prima di partire alla volta di Milano, decise una volta salito al soglio di Pietro che era opportuno, per una maggiore praticità, interrompere questo sistema di governo e far sì che alla segreteria di Stato venisse concesso maggiore potere e, in particolare, far sì che fungesse da cono di bottiglia per le richieste che i vari capi dicastero della curia volevano fargli giungere. E in questo modo una nuova modalità di governo della curia romana venne introdotta, una modalità che ha portato il segretario di Stato ad avere sempre maggiore peso e potere.
Oggi è questo peso e questo potere che Bertone patisce. Perché un conto era essere segretario di Stato venti anni fa quando il mondo era diverso e le problematiche che la Chiesa aveva da affrontare non dovevano essere risolte con la velocità e la prontezza che è richiesta ora.
Un conto era essere segretario di Stato nell’ultimo decennio del pontificato di Wojtyla quando tutto quello che il Papa aveva fatto e tutto quello che stava vivendo mettevano in secondo piano eventuali errori di governo.
Altro conto è essere il primo collaboratore del Papa oggi, durante un Pontificato particolarmente inviso ai media e ai settori più progressisti della Chiesa, i quali continuano a vedere nell’ancoraggio di Benedetto XVI al primato della verità una volontà di chiusura e di ritorno al passato. Bertone, poi, non è propriamente un diplomatico. Ha un profilo meno navigato quanto a gestione del potere. È un salesiano più avvezzo al contatto con la gente, coi fedeli. E questa sua caratteristica senz’altro non l’aiuta.
Oltre a una questione strutturale e, dunque, al ruolo che la segreteria di Stato ricopre in un’organizzazione della curia di tipo verticale, c’è un problema di uomini, e quindi dei più stretti collaboratori di Bertone. Molti sono cresciuti in segreteria di Stato ai tempi di Sodano e, dunque, non sono propriamente affiatati con lui. Ed è probabilmente qui, a livello dello staff di Bertone, che Benedetto XVI dovrà necessariamente intervenire per cercare di far sì che il suo principale collaboratore possa essere supportato a dovere.
I primi a partire dovrebbero essere quattro pari grado. Per Paolo Sardi, l’arcivescovo che per anni ha scritto i testi dei discorsi di Wojtyla, il destino è segnato ed è pure prestigioso: diverrà patrono dell’ordine di Malta e, dunque, giungerà presto alla berretta cardinalizia. Per il capo dell’“ufficio del personale”, cioè monsignor Carlo Maria Viganò, si parla invece di un’importante nunziatura all’estero. Poi ci sono il vice del sostituto per gli affari generali, Fernando Filoni, e il vice del segretario del rapporto con gli Stati Dominique Mamberti, ovvero Pietro Parolin e Gabriele Giordano Caccia. Anche per loro si parla di promozioni in altri lidi. Discorso a parte lo merita il torinese Gianfranco Piovano: incontrastato dominatore di tutte le finanze della segreteria di Stato, domina la scena da più di trent’anni e da cinque anni avrebbe dovuto lasciare per limiti di età. Non c’è stata assunzione oltre il Tevere che non sia passata dalle sue mani. Ma pare che, dopo così tanti anni, lascerà anche lui. Infine, Fernando Filoni. Questi è stato portato in segreteria di Stato da Bertone il 9 giungo 2007 quando Leonardo Sandri divenne prefetto delle Chiese Orientali. E ora che i due - Bertone e Filoni - faticano a lavorare in tandem, serve una nuova soluzione. È qui forse la matassa più difficile da sbrogliare
Perché il governo della curia romana funzioni a dovere è necessario che tutti i canali del potere siano ben oliati, comunichino tra di loro senza intoppi e, soprattutto, senza che nessuno remi dalla parte sbagliata.
Nei recenti casi di mal governo vaticano, invece - dal caso Ratisbona al caso Williamson, tanto per citare due situazioni note a tutti -, si è avuta l’impressione che a giocare fossero tante monadi separate e, insieme, incapaci di fare squadra e spiegare al mondo, e soprattutto alla Chiesa, la ragionevolezza delle decisioni prese.
Coloro che nella curia romana sono chiamati a supportare il Papa nella difficile gestione del potere sono innanzitutto i prefetti delle nove congregazioni vaticane. Un tempo, fino alla riforma messa in campo da Paolo VI, la congregazione della curia con più peso era senz’altro quella che sull’annuario pontificio veniva chiamata “La Suprema”. Ovvero, la congregazione per la Dottrina della Fede. Il prefetto era direttamente il Pontefice, e cioè colui che quando afferma una dottrina o un dogma gode del principio dell’infallibilità.
Oggi il Papa ha conservato sulla congregazione un’attività di super visione, seppure la responsabilità della congregazione sia affidata a un prefetto il quale, ogni settimana, incontra il Pontefice per dipanare le questioni più importanti. È probabilmente per il fatto che con questa congregazione Benedetto XVI può dialogare con più frequenza che con altre, che Ratzinger ha deciso di nominare prefetto lo statunitense William Joseph Levada: non un “fulmine di guerra”, ma comunque un porporato fedele.
Oggi la congregazione strategicamente più importante e che necessariamente deve procedere in perfetta sintonia col Pontefice e con il segretario di Stato è quella dei Vescovi.
Il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione, ha il potere non da poco di nominare i vescovi. È lui, infatti, che propone al Papa una terna di nomi per gli incarichi vacanti decidendo chi e in quale ordine sia degno di farvi parte. Decide i trasferimenti e le promozioni dei vescovi. Le dimissioni per limiti di età. E, ancora, decide i cardinali: nel senso che quando promuove un presule in una diocesi che prevede la berretta cardinalizia, lo promuove di fatto al cardinalato.
Chi è il cardinale Re? Bresciano, visse l’escalation più importante della sua carriera quando nel 1989 Giovanni Paolo II lo nominò sostituto per gli affari generali della segreteria di Stato. In sostanza, il posto perfetto per succedere ad Angelo Sodano quando questi avesse lasciato la conduzione della stessa segreteria. Quando però il cardinale Lucas Moreira Neves lasciò la guida dei Vescovi, Re non ci pensò su più di tanto ad accettare la proposta di Wojtyla di esserne lui il successore.
Alla congregazione dei Vescovi, Re adottò inizialmente una politica filo wojtyliana. In sostanza, al contropotere rispetto al Papa rappresentato da Sodano egli mise in campo una politica di nomine filo papale, in sintonia perfetta (almeno inizialmente) con Stanislaw Dziwisz e col presidente della conferenza episcopale italiana Camillo Ruini.
Poi qualcosa è cambiato. Re, che di per sé ha sempre conservato i numeri necessari per sostituire Sodano al momento opportuno, una volta arrivato al soglio di Pietro Joseph Ratzinger ha compreso che la segreteria di Stato non gli sarebbe mai stata affidata.
E qui, usciti di scena Dziwisz e, poco dopo, Ruini, ha virato verso una politica più disponibile nei confronti delle istanze provenienti dalle varie conferenze episcopali.
Spieghiamo meglio: nel mondo, più che in Italia, le conferenze episcopali cercano di avere un potere reale. Le cupole delle conferenze e i nunzi vaticani che alle conferenze necessariamente si riferiscono, infatti, svolgono una costante politica di pressione sulla curia romana affinché i vescovi delle rispettive diocesi siano nominati tenendo conto del proprio indice di gradimento. E se le conferenze episcopali trovano un prefetto dei Vescovi disposto ad ascoltarle, il gioco è fatto.
Se c’è una pecca nella lunga, e a suo modo efficiente, gestione della congregazione dei Vescovi da parte di Re, risiede proprio qui: nella troppa accondiscendenza accordata alle istanze delle varie conferenze episcopali.
Un’accondiscendenza che oggi Benedetto XVI paga a caro prezzo.
Non è forse per le pressioni della conferenza episcopale austriaca guidata dal cardinale Christoph Schönborn che il Papa è stato costretto ad accettare le dimissioni del vescovo ausiliare di Linz, Gerhard Wagner? La stessa cosa non è forse successa con Stanislaw Wielgus nel 2006, costretto a dimettersi 36 ore dopo che il Papa lo aveva nominato arcivescovo di Varsavia? E, al contrario, non è forse per le pressioni dei vescovi di vari paesi del mondo che nei posti di comando della Chiesa spesso non vengono messi i migliori quanto coloro che sono più graditi ai leader dei rispettivi episcopati?
Il cardinale Re ha la sua parte di responsabilità anche nel caso Williamson.
Se è vero che il decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani porta la sua firma, occorre che se ne assuma la responsabilità fino in fondo, magari ammettendo che una corretta valutazione delle criticità in gioco non è stata fatta. E magari sostenendo con più forza i motivi del decreto da lui firmato: non tanto la volontà di reintrodurre nella Chiesa una fazione anti-ebraica quanto il desiderio di abbattere una prima barriera sulla strada ancora parecchio lunga che porta i lefebvriani alla piena comunione con Roma.
Re ha compito 75 anni lo scorso 30 gennaio. In curia c’è chi si aspettava che avrebbe adottato la medesima politica fatta propria dal suo predecessore: si ritirò nel 2000, il giorno in cui compì 75 anni. Se avesse agito così, già in queste settimane sarebbe stato più facile far dimettere quei capi dicastero e quei presuli entrati in età pensionabile: con un prefetto dei Vescovi ancora in sella a 75 anni, tutto è più difficile. E lo è ancora di più con un segretario dei Vescovi, come l’arcivescovo Francesco Monterisi, anch’egli 75enne.
La crisi che sta attraversando la curia romana è principalmente qui, a livello di una gestione del potere poco adeguata ai tempi e allo spirito dell’attuale pontificato.
Poi, certo, c’è anche un problema di comunicazione. C’è la difficoltà di padre Federico Lombardi a gestire congiuntamente sala stampa (Joaquin Navarro-Valls aveva solo questa responsabilità), Radio Vaticana, centro televisivo vaticano e il compito di assistente del preposito generale dei Gesuiti: troppi incarichi per una sola persona. Ma è un problema che, seppure non trascurabile - a breve il Papa correrà ai ripari - viene dopo il mal governo.
Partendo dalla congregazione dei vescovi, Benedetto XVI ha la possibilità in questo 2009 di sostituire parecchia gente nella curia romana e di creare così un sistema che sappia seguirlo con maggiore lucidità nelle sue scelte.
Il 23 settembre compie 75 anni il prefetto della congregazione dei Religiosi, il cardinale Franc Rodé e, l’8 agosto, li compie il prefetto del Clero, il cardinale Claudio Hummes. Se è vero che, come scrisse il benedettino Columbia Marmion, una vera riforma del clero e degli ordini religiosi non può che venire da un sacerdote secolare, è evidente che in queste due decisive congregazioni l’uomo giusto è tra il clero che deve essere pescato.
Ma 75 anni li hanno già compiuti anche altri importanti esponenti della curia. Innanzitutto lo statunitense James Francis Stafford, penitenziere maggiore della Penitenzieria Apostolica. Quindi il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del pontificio consiglio per la Pastorale della Salute. E ancora, il cardinal Renato Raffaele Martino, presidente di Iustitia et Pax. E, infine, il cardinale Walter Kasper, presidente della promozione dell’Unità dei Cristiani: oggi compie 76 anni.
(Fonte: Paolo Rodari, Il Riformista, 3-4-5 marzo 2009)
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